Poscritto di Massimo Raffaeli

 

[E’ appena uscita per Giometti & Antonello la nuova edizione delle Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti di Massimo Ferretti. Pubblichiamo il poscritto di Massimo Raffaeli, curatore e scopritore del carteggio].

 

a Graziella Chiarcossi

 

«sei un mistero davvero appassionante»

(P.P.P., 14.12.1955)

 

Tutto è cominciato con una domanda di Roberto Roversi (sarà stato il 1978 o il ’79) che mi chiese, sapendomi di Chiaravalle, se avessi mai letto Massimo Ferretti, il poeta che lui aveva incontrato e ospitato in «Officina». Risposi di no con un certo imbarazzo perché non ne conoscevo neanche il nome pur avendo Ferretti, sarei venuto a sapere, a lungo abitato da bambino a pochi metri dalla casa di mio padre, più anziano di lui di appena cinque anni. Fatto sta che la immediata lettura prima di Allergia e poi anche dei romanzi ebbe su di me l’effetto di una folgorazione e, presto, della decisione di organizzare qualcosa che lo ricordasse perché già in quei tardi anni settanta il suo nome stava sbiadendo e la bibliografia spegnendosi in un vero e proprio refoulement. Nel decennale della morte di Ferretti il Centro Culturale Polivalente di Chiaravalle, così allora si chiamava la attuale Biblioteca civica, organizzò una piccola mostra documentaria a mia cura (non c’era catalogo ma solo un cartoncino con l’elenco del materiale esposto negli spazi interrati) e la inaugurò una memorabile lezione di Walter Pedullà a ricordo del suo vecchio amico e di uno scrittore la cui felice intemperanza e la totale libertà di ex lege precorreva il decennio della insubordinazione e dell’antagonismo, calcolabile fra il 1968 e i tumulti terminali del ’77. Fu poco tempo dopo che nella casa della famiglia Ferretti a Jesi, allora abitata in solitudine dall’amatissimo fratello Maurizio, al numero 5 di via Lorenzo Lotto, cominciai una sommaria esplorazione dell’ammasso di carte, documenti e ritagli di vecchi giornali che mi venne da chiamare per pura convenzione Fondo Ferretti: vi si ammucchiavano infatti stesure mano e dattiloscritte delle sue opere a stampa e delle traduzioni (rammento i fogli tormentatissimi di Between, lo splendido romanzo di Christine Brooke-Rose doppiato come Tra per Feltrinelli), qualche inedito non molto rilevante (a parte il primo abbozzo di Trunkful, il terzo romanzo autobiografico), oltre a una cospicua corrispondenza fra gli altri con Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Amelia Rosselli (la quale gli mandava lettere stupende) e specialmente gli originali di quelle da Massimo spedite ogni giorno da Roma, decine e decine fra il ’61 e il ’65, a Maurizio come fossero una quotidiana fenomenologia del miracolo economico dedotta fra i letterati e i cinematografari dell’Urbe: schiette, insolenti, travolgenti di umorismo e vis comica, favolosamente gremite di aneddoti, talune sul serio impubblicabili, ne avrei edita anni dopo soltanto una campionatura (in Poesia ’94. Annuario, a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi 1995) con il titolo redazionale, e però suffragato da una citazione d’autore, Il romanzo romano. Si tratta, qui va aggiunto subito, oramai di reperti scampati all’oblìo perché quello che avevo chiamato con enfasi il Fondo Ferretti oggi è irreperibile, con ogni probabilità andato disperso o distrutto: Maurizio è morto qualche anno fa e la casa di via Lotto è stata immediatamente venduta e subito svuotata per i rigattieri dai nuovi padroni.

 

Maurizio era convinto che suo fratello avesse distrutto le lettere di Pasolini dopo la drammatica rottura del loro rapporto, già nei pieni anni sessanta. Non ci credevo, non volevo crederci. Fu il fato della filologia a portarmi a Roma in via Tofana 14, Monte Sacro, nell’appartamento donatogli dal padre dove Massimo aveva già abitato e che allora, alla metà esatta degli anni ottanta, era in affitto a studenti iraniani, di certo esuli dal cappio islamista di Khomeini: mi permisero di entrare, con molta e reciproca diffidenza, e ricordo di essermi trovato da solo solo davanti ad una libreria a vetri, con pochi libri e carte, quando frugandola posai la mano su un mannello di lettere ancora perfettamente imbustate e tenute insieme da uno spago rosso. Bastava leggere, sulla prima busta di carta velina, l’indirizzo del mittente dalla grafia sottile, stenta. Non credo di avere mai più provato in decenni di lavoro un’emozione paragonabile, direi ora per allora esaustiva. Le lessi in treno, ritornando a casa, in una specie di delirium tremens e il giorno dopo annunciai per telefono l’invio degli originali a Graziella Chiarcossi, erede e responsabile del Fondo Pasolini che a sua volta mi girò quelle di Ferretti lì conservate. Il volume delle Lettere a Pier Paolo Pasolini è nato da quel nucleo incandescente di corrispondenza e da altri testi preziosi, emersi dalla esplorazione delle carte seppellite in via Lotto. C’era il problema tuttavia dei diritti di pubblicazione, perché tutto l’epistolario pasoliniano era in via di allestimento a cura di Nico Naldini, perciò andai a Torino da Einaudi per chiedere la liberatoria: in fondo si trattava di lettere appena donate a loro e che, per parte mia, avrei semplicemente richiamate in nota. Mi ricevette Giulio Einaudi in persona nel suo ufficio, mi tenne in piedi alcuni minuti per poi sbadatamente dirmi di no senza degnarmi di uno sguardo, liquidandomi. Fui e fummo costretti (dico l’amministrazione comunale di Chiaravalle che finanziava il volume) a un’edizione ufficiosa, fuori commercio. L’originale del libro che oggi Giometti & Antonello ripropone con tanta dovizia tipografica è di una povertà struggente: finito di stampare nel maggio del 1986 presso la U.T.J. di Jesi (una tipografia che ricordo arcaica e molto spartana), uscì con una copertina di cartoncino semirigido, grigiastra e senza scritte sulla costola, il testo stampato su carta dozzinale. Venne a presentarlo un mese dopo Antonio Porta che rivendicò non soltanto l’amicizia, peraltro dal carteggio ben documentata, ma anche la perfetta originalità di uno scrittore sperimentalista la cui ricerca egli sentiva ancora fervida. Il volume fu spedito alle maggiori biblioteche italiane e ad una cinquantina di studiosi e critici, fra i quali per esempio Franco Contorbia che scrisse una lettera di ringraziamento indirizzandola al Sindaco (e fu l’incipit di una lunga bellissima amicizia fra di noi): viceversa non accusò ricevuta Gianfranco Contini ma serbò nella sua privata biblioteca di Domodossola le Lettere a Pier Paolo Pasolini insieme con un mio deferente biglietto come attesta, motivo per me di esorbitante orgoglio, Claudia Borgia nel suo Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini (Edizioni del Galluzzo 2012). Uscirono alcune recensioni e segnalazioni, non esclusa una cospicua anticipazione su «Mercurio» (inserto letterario, allora, di «Repubblica») a cura del poeta Renzo Paris che batté in breccia sui giornali il volume delle Lettere einaudiane e pare che tutto ciò facesse molto imbestialire il grande editore. E una bellissima recensione di Andrea Zanzotto, nientemeno, alla Radio Svizzera Italiana. Seguì negli anni la ristampa delle opere ferrettiane e, ultima in ordine di tempo, l’edizione di Allergia curata da Davide Nota (Giometti&Antonello 2019), così come si consolidò una certa attenzione critica e per la prima volta sistematica di cui sono testimonianza sia la bella monografia di Elisabetta Pigliapoco che ha un titolo indubitabile, Fuori dal coro. L’opera di Massimo Ferretti (peQuod 2005), sia le diverse iniziative che l’amministrazione comunale di Chiaravalle ha promosso nei tempi recenti e che culminano adesso in quelle per il cinquantennale della morte del poeta.

 

Oggi riproposto di fatto in anastatica, del mio lavoro giovanile muterei senz’altro tutta l’introduzione (a mio gusto troppo involuta e, nello stile, troppo smaccatamente debitrice di Contini) ma lascerei, come infatti lo lascio, intatto tutto il resto perché, nonostante i quasi quarant’anni trascorsi dalla sua pubblicazione, il volume delle Lettere a Pier Paolo Pasolini mantiene tuttora, a rileggerlo, la freschezza primitiva di un carteggio (tra i più compiuti e i più belli, oltretutto, dell’epistolario pasoliniano) dove prende corpo l’amicizia o anzi il vergiliato fra un autore di nativa vocazione socratica, che ha appena attinto la sua prima maturità, ed uno invece giovanissimo, l’adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann. Nel loro rapporto breve e persino violento, dove ognuno pare oscuramente rivolgersi alla parte più introversa e lacerata dell’altro, si consuma uno straziante rito di reciproca cognizione di sé che si interrompe, deragliando, proprio nel momento dell’effettivo e rispettivo auto-riconoscimento. Poi entrambi vorranno prodigare a vicenda gli ossimori della amicizia appassionata e del susseguente disamore, quando colui che aveva detto nel ’55 al suo giovane e ignoto corrispondente «sei un mistero davvero appassionante» (poi per contrappasso, alla fine, «sei un fascista che vuole morire») si sentirà ritrarre da costui come un individuo «meravigliosamente affascinato dal solo bene del mondo: la corruzione». A riprova del fatto che la irriducibile parzialità e imperfezione di una vita e di ogni vita (ulcère plus puant à la Nature verte, scrive Baudelaire) può soltanto ritrovare un accento veridico nella fittizia totalità della parola. Parola che è la propria ma ormai anche dell’altro, e di ognuno.

 

Chiaravalle, 21.12.2023

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