di Rita Filomeni

 

 

[Esce in questi giorni, per Industria & Letteratura, nella collana Loud, Agnello a tracolla, una raccolta poetica di Rita Filomeni. Ne presentiamo qui un breve estratto, accompagnato da parti della postfazione di Paolo Giovannetti.]

 

 

“Non è che l’occhio, la sua voce, per cogliere, qui e là, come sassi in una tasca, la tragedia in cui né la potenza dell’uomo né quella del cielo possono rendere migliore o mutare la sorte dell’eroe.

Soltanto il coraggio e il rischio di accogliere il dolore che proietta la verità di un tempo a fine, possono fare di questo libro, un’altra storia”.

R.F.

 

PROLOGO

 

. prologo

 

   colui, che vi parla, canta, io, sono

 

 

un cane con la scopa via a spazzare

le mura, fuori, la città a cui guardia

miei cento occhi stan lì quali pietre

 

 

nella notte a lavorarvi e a cinquanta

al compito gl’altri a destar il giorno

fra cui con ’na lanterna io m’aggiro

 

 

sul baratro, mi tengo, affinché parli

franco, come l’uccello ’n volo lasci

la scia sul piano di un cielo obliquo

 

 

verità – o Verità – che sei perduta …

 

 

 

CANTO I

 

. alba

 

   fa’ che luce nasca lì fra le frasche

 

semi crescano a pioggia alte spighe

mano sfiori altra, qual acqua i sassi

del fiume che va spalanca nel mare,

 

traspare già di fuoco aria s’annuncia

in un viavài di specie, merci e affari

per il commercio del pane di sangue

 

in terra, che cresce indietro le spalle;

orsù! ha tempo, giorno, se ben speso

e due fianchi la notte, cui sognare …

 

pietra, ch’alza vento, fonda una città

 

 

. postumano

 

   in quattrocento colpi, crepa guscio

 

muove le gambe, neppure van dritte

lo raggiustano a fondo giù nel corpo

centralina ’n fibre, e per banda larga

 

a smistar posta al mentre gli ricresce

coda doppia a ogni ferita, lì, al cuore

che – pretende – sì i diritti ch’offende

 

su calpesta, com’un re, l’erba voglio

grida! e, pure, se non è che un punto

al cosmo alieno, chissà a quanta vita

 

che nasce e muore, senza l’esclusiva

 

 

CANTO II

 

. precipizi

 

   è sforbiciar il nulla, questo tempo

 

d’astio, ah, se lo tasti, risentimento!

– tutti! – all’orlo, ’n fila, ai precipizi

vestiti, a mantelline, ’n seta, a festa

 

mentre il fango s’alza, schiena bassa

più nessun dar a nessuno vuol acqua

o sangue a raddrizzar fra queste ossa

 

– respiro – che al deserto lì dà cenno

nel poco di vita, che qui e là avanza

via, lesta, non un piede, più, la pesti

 

fra le ortiche ai poveri a minestra …

 

 

. alzheimer

 

   è una foglia, ci sta, a pelo d’acqua

 

ogni giorno ’n po’ meno lì è confusa

nella mente, ’n cocci, vanno persone

con le facce, un degl’altri, o del cane

 

in molte forme ch’abbaia ed è ombra

del tempo a vuoto ’n eterno, che tace

come un piatto, ’n miseria, è la bocca

 

– ospizio – a suoni, a lettere l’ossario

a vita che impietra e scioglie ’n gola

s’affoga dentro sorso denso al brodo

 

a chieder … indicando, il coltello …

 

 

SECONDO STASIMO

 

. coro

 

   nunc et in hora mortis nostrae amen

 

cantaci, o cane, ché pietre ha ’n bocca,

l’erba a vent’anni, non può coprir ossa

né ’n telaio ’n corpo a far fil di sangue

 

senz’un domani, e via! e casa e lavoro

come panni – i figli – a lasciarli appesi,

canta! su, canta! abbaia! nostra rabbia

 

è tanta, e non dà frutto, segue ’l vento

mette su niente due stecchi a far croce

sul petto, cui prometter, ancor mai più

 

in busta paga trovarci, assi e chiodi …

 

 

CANTO III

 

. la storia

 

   forma chiusa, a circolare ritorna

 

e rianima ’l coltello sotto ’i panni,

ah, se muta! la storia, a gl’inganni

al vero ’l falso, per il quale accade

 

una cosa – per l’altra – e viceversa

sì che, tutto, diversamente, muore

tutti, ci si racconta, in chiacchiera

 

sul divano, qual il gatto che sogna

tetto, al mondo, al sfidar sette vite

‘pront’all’uso’, che ne fa la caduta

 

lo sparo del soldato, che lo sbuzza

 

 

 

Paolo Giovannetti

 

Postfazione

 

     Il lettore che intenda avvicinarsi ad Agnello a tracolla di Rita Filomeni – ai suoi densissimi 1144 versi – dovrebbe (deve?) liberarsi da qualche pregiudizio. Dico di un paio di a priori della lettura, di certi schemi che con ogni evidenza caratterizzano i comportamenti delle lettrici e dei lettori di poesia attivi in Italia nell’anno 2024. Il primo riguarda proprio la lingua che viene qui parlata, l’inflessione dell’italiano perseguita con caparbietà e coerenza da chi ha ideato quest’opera lungo un percorso molto accidentato. (Basti pensare che Filomeni in quest’occasione giunge al secondo libro della sua carriera, dopo anni di silenzio quasi totale. Nel 2011 era uscito il volume d’esordio Scardinare l’acqua; in mezzo c’era stata la breve sequenza di Il quarto chiodo, pubblicata nel 2013 nella rivista «Incroci», e nel 2016 la rappresentazione dell’opera teatrale Uomini paralleli.)

     Fin dal Prologo e dal primissimo verso, capiamo che qualcosa di anomalo ci viene incontro: «colui, che vi parla, canta, io, sono». L’endecasillabo c’è, l’intonazione proemiale è riconoscibile; però, con ogni evidenza, il ritmo ha qualcosa che non va (gli accenti si stipano in modo poco petrarchesco), ma soprattutto sono le pause imposte dalle virgole a farci sentire un po’ a disagio, a reclamare una pronuncia, una prosodia diversa, poco ortodossa, come se “dietro” il testo ci fosse una persona che vive dentro una lingua leggermente (o parecchio) lontana da quella che ci capita di praticare – anche in poesia.

     Del resto – secondo dei pregiudizi di cui liberarsi – quella voce raccoglie i 104 componimenti del livre entro una struttura ambiziosissima, che ha l’ardire di evocare qualcosa come uno “spirito di tragedia”, non solo in termini generali, ma proprio nell’articolazione dell’opera. Dunque: prologo, parodo, stasimo, esodo, epilogo scandiscono la nostra lettura e intendono disciplinarla entro un percorso drammatico che manifesta il suo bravo pratton aristotelico, un’azione dotata di valore esemplare garantita dai personaggi che calcano la scena. Non solo, anche se il rilievo è quasi scontato: qui, actio è anche cantus (come suggerisce il sottotitolo, che parla di «voce» e «azione»); cioè, molto semplicemente, la recitazione consiste in una dizione poetica in senso tutto sommato tradizionale. Potete leggere buona parte delle poesie indipendentemente dal contesto in cui sono inserite, apprezzandone in pieno il valore, il senso, la pluralità di nessi interni, così come si fa con ogni prodotto detto “di poesia” (dovrei scrivere lirico, ma non lo faccio – per evitare equivoci). Semmai, il poetico di Filomeni è tutto sbilanciato verso l’intervento nel mondo, l’ansia anche religiosa di una polemica sociale e antropologica, omologa a quanto la struttura tragica suggerisce. E la parte introduttiva lo afferma in modo esplicito. Si pensi al profetismo di chi «Parla il futuro di una società sempre in scena».

     In definitiva: una lingua che può risultare sconcertante, al limite della grammaticalità, e un involucro, un’impalcatura, che chiede un’attenzione (di tipo narrativo-mimetico) forse invadente. Pregiudizi e diffidenze inveterati rischiano di sancire in modo negativo un simile percorso. Il prefatore potrebbe qui dilungarsi sull’antecedente dei Frammenti lirici di Clemente Rebora, che nel 1913 non solo si presentavano al lettore con un endecasillabo proemiale “sbagliato” ma efficacissimo, come (ricordo): «L’egual vita diversa urge intorno», pure irto di accenti anche ribattuti; ma ricevettero il biasimo persino del loro editore, Giuseppe Prezzolini, che spregiativamente parlò di «organettate». Anche quei “frammenti” ambivano a costruire un poema profetico complessivo, peraltro lungo circa il doppio di quello di Filomeni. E, certo, ci riuscirono.

 

     […]

 

     Filomeni centellina i suoi versi nell’età dell’antropocene, e ha chiarissimo che il tempo geologico e il tempo presente hanno punti d’incontro e intersezione diversi da quelli del novecentismo. Ha “chiarissimo” il problema, dico, in termini di scrittura, prima ancora che di pensiero esplicito o ideologia: Ad esempio, dovendo suggerire cos’è oggi “corpo” (e non importa se il testo nasce da un episodio biograficamente accertabile), la poeta scrive:

 

   è sasso levigato, bianco, enorme

 

come ’n uovo, preistorico, la tocca

ne lava, schiena! che par un canale

di ossa che non tengono alla corda

[…]

 

     Vita biologica e non-vita minerale sono indistinguibili. Compito della poesia è richiamare le nostre coscienze a un sostrato più antico che il presente un po’ invera un po’ mette in crisi, distrugge, vanifica. Proprio questo ammonimento è la missione principale del Cane. Tanto più che – come emerge sempre più chiaramente nel corso della “tragedia” e come il finale rivela esplicitamente – il cane è una figura cristologica, e per certi versi quella cui assistiamo è una sacra rappresentazione il più possibile laicizzata. Il divino di Filomeni si esprime tutto in negativo, il suo è un deus absconditus di tradizione mistica (forse gnostica), e sintomaticamente si manifesta attraverso i tópoi femminili del corpo violato e della maternità in quanto dedizione assoluta e sacrificio. Ecco, ad esempio, come il Cane dice la propria immolazione:

 

… parole che cercan, chi è sì, l’altro

davanti, a noi, indentro, allo sguardo

 

per – amarlo tacerlo – finché ’l cuore

cede, al dì che deve, a lasciar campo

al grano, come madre ’l figlio a terra

 

che nuvola va e pioggia ritorna … …

 

      […]

 

Il protagonista […] ha il compito, anche, di dire ciò che ha udito, di rappresentare la propria capacità di ascolto. In questa maniera, a ben vedere, il Cane si colloca in una dimensione diametralmente opposta a quella che Luciano Berio e Italo Calvino avevano messo in scena nel loro Un re in ascolto, nel 1984, partendo da presupposti apparentemente analoghi. In una parte dell’Agnello in cui si parla di stupro, insistendovi ben due volte, ad esempio leggiamo: «Il Cane assume nuovamente la posizione di ascolto. […] canta le parole che sente echeggiare in città». Certo, come in Berio-Calvino si tratta di un ascolto problematico, e ci troviamo di fronte all’analoga crisi di certe gerarchie di potere (secondo dinamiche che risalgono al pensiero di Roland Barthes); ma qui nessun «vuoto da cui vengono i suoni» può imporsi, perché la fusione delle voci ha come compito contestare la città attuale per aprirsi a una nuova polis. Non c’è un re che dall’interno del suo palazzo si sporge all’esterno, a una realtà di cui inizialmente diffidava, ottenendo di dialogare con l’ascolto altrui. Qui, c’è l’animale kafkiano la cui non-umanità è nostalgia di una vita diversa e superiore, e che deve svolgere un ruolo in ultima analisi distruttivo, anche se compiuto in nome dei senza-storia, delle pietre e dei sassi che spesso compaiono in scena portando con sé le loro ragioni enigmatiche.

     Più immediatamente politica (più slegata da mediazioni, malgrado i rinvii messi in gioco), Filomeni non realizza il comportamento “vocalico” di Adriana Cavarero, non attiva uno spazio sociale di comunicazione altra; ma cerca, in maniera se vogliamo più aggressiva, di presentarci un parresiasta, la figura che dice la verità al di là dei limiti consentiti dal proprio tempo, con atteggiamento in ultima analisi eroico – e nelle intenzioni, ripeto, tragico. (Ricordo che Berio-Calvino partivano invece da un canto di tipo verdiano, e cioè esemplarmente melodrammatico).

 

     […]

 

     Chi ha scritto questi versi li ha concepiti ascoltandoli secondo una sensibilità metrica tutto sommato tradizionale, pensandoli come endecasillabi più o meno ipermetri, più o meno liberi prosodicamente (ci sono frequenti ictus di 5a, per esempio). Ma poi ha preteso che ognuna di quelle linee apparisse visivamente come dotata della stessa lunghezza. Filomeni ha “giustificato” i versi anche a colpi di modificazioni grafiche, di vere e proprie zeppe per l’occhio, facendo uso in particolare di monosillabi, ma anche – appunto – di parole tagliate in modo a tratti arbitrario.

     Riflettiamo su questa constatazione, perché prospetta scenari tanto suggestivi quanto contradditori. È come se il tipo di poesia così concepita non fosse esattamente là dove vorresti (dovresti!) trovarlo. Blandisce l’orecchio, interpretando un ritmo altamente tradizionale e seguendo l’inflessione di una voce popolareggiante che scorcia le sillabe mangiandosele nella recitazione. Ma al tempo stesso usa quella materia con lo scopo di produrre un verso per l’occhio, l’impassibile allineamento delle linee in blocchetti anonimi, tipograficamente compiuti. La voce cerca un accordo con lo sguardo, ma i due momenti sembrano non intendersi del tutto. Più esattamente: sembrano denunciare una questione di fondo, che suppongo dica di tante cose della poesia d’oggi – almeno qui in Italia. Poesia orale (spesso neometrica) e poesia installativa (a dominante per lo più visiva) stanno producendo una divaricazione del campo poetico di difficile gestione.

 

     […]

 

     Soccorre […] la nozione di anamorfismo: la singola immagine vive a riporto di altre, le influenza e ne è influenzata, spesso senza una vera gerarchia. Si veda quanta ambiguità animale c’è in questa rappresentazione del postumano:

 

   in quattrocento colpi, crepa guscio

 

muove le gambe, neppure van dritte

lo raggiustano a fondo giù nel corpo

centralina ‘n fibre, e per banda larga

 

a smistar posta al mentre gli ricresce

coda doppia […]

 

Ma credo che, tutto sommato, sia meglio così, che “poesia” nel 2024 italiano possa e debba significare anche crisi della poesia. Perché – al di là di ogni lacerazione – Filomeni su tante cose vede giusto, e il suo usare la polemica sul presente per snidare l’arcaico trae molti vantaggi da una simile procedura ancipite. Quanto più lacerato il verso tanto più forte il cortocircuito. Almeno in certi momenti. Il fantasma di una poesia popolare, quasi “contadina”, persino strapaesana, post- o anti- moderna, è sempre dietro l’angolo. Poniamo:

 

                                        […] mentre la vita

 

colazione a ortiche è sott’al coltello

pietre a spalmar e fin giù nella gola

rospi, ’n fila per tre col velo bianco

[…]

 

   barche in spalla, remi sulle cime

 

alle montagne via presto a salvare

in setacci d’acqua uomini e donne

animali e piante, per metà, strame

[…]

 

   sdigiunati! che parole, fan pancia

 

piena di sé, ricorda! e con la paglia

strina ben la lingua non vi rimanga

sul piatto, la convinzione a salvarti

 

il vanto, […]

 

Dall’«agnello a tracolla» del titolo (a pensarci bene, è il punto di vista di un bambino che vede per la prima volta il pastore d’un presepe) alle «pietre» che si spalmano «giù nella gola»; dalle «parole [dei poeti] che fan pancia» alla «paglia [che] strina ben la lingua»: in questo percorso, ci viene incontro qualcosa di imparentato con un’antica sensibilità fiorentina – finendo per ricordare lo stile di Burchiello, lo stile della poesia “alla burchia”. Ed è una festa, davvero. La natura pre-urbana, pre-moderna del Cane finisce per prevalere, e la voce prende slancio, si concilia con il verso. La civiltà è straniata dall’arcaico, perché la modernità non è – ci ricorda Filomeni – che «terra /e sabbia e acqua ’n una lotta eterna», anche quando – prosegue – «si faran a Wall Street azioni futures». Il futuro si aliena, certamente, nella speculazione, nella Borsa, eppure a spadroneggiare e a imporsi sarà sempre «l’aria ’n avvoltoio per carcasse». Il Cane passa a contropelo la civiltà, morendo due volte, ma in fondo la sua sostanza incivile è quella che continuiamo a udire. A libro chiuso – come si diceva una volta.

 

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