di Gianluca De Fazio
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Il libro di Pierpaolo Ascari Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino è una scanzonata, irriverente e, al tempo stesso, erudita e sagace ricostruzione di un pezzo di storia americana del Secondo Novecento. Una lettura e una interpretazione dell’American Way of Life attraverso un fitto intermondo fatto di film, fumetti, pop culture e apocalissi sempre annunciate ma mai effettivamente accadute. Un racconto fatto di raggi gamma, virili padri di famiglia che costruiscono rifugi anti-atomici come se fossero mobili Ikea, salvifiche massaie che hanno cura a che tutto sia in ordine per il giorno del giudizio e tanti altri baluardi piccolo-borghesi del “ricorso millenaristico all’ultimo consumo” (p. 36), in una sorta di teologia politica in salsa yankee popolata da leviatani d’ogni genere e specie (Godzilla su tutti) per “pensare l’impensabile” (p. 49), la fine di mondo appunto.
Ma dire “pezzo di storia americana del secondo Novecento” vuole anche dire “pezzo di storia europea al di qua della cortina di ferro”, e raccontarla significa, come in un negativo fotografico, narrare un “pezzo della nostra storia”. Ed è questa, tra le molte, una chiave di lettura possibile del libro di Ascari: perché i livelli che lo attraversano, e che l’autore intreccia, sono molteplici, e tutto un rizoma semantico-narrativo lo attraversa, lo fora e lo pervade. Il lavoro dell’autore non è qui secondario rispetto a quello del lettore, che, come la talpa kafkiana di Deleuze e Guattari, contribuisce a scavare il reticolo di percorsi sotterranei tramite i quali emergono gli scarti teorici, politici, analitici ed estetici attraverso i quali, dietro una scanzonata ricostruzione di un passato prossimo che fu, emergono tracciati magmatici che ci dicono qualcosa sul nostro oggi, su di noi che abbiamo in mano il libro e lo leggiamo nell’intermezzo tra link sui social network che ci parlano di guerre mai dichiarate, di crisi ambientali sempre annunciate e mai realmente affrontate e di politiche migratorie a dir poco raccapriccianti.
Sì, perché questo libro non si esaurisce con l’esposizione del suo “oggetto”. Se, per un verso, si tratta di raccontare attraverso i suoi riferimenti “mitologici” l’America profonda degli anni Sessanta – il baluardo della Libertà contro il dispotismo orientale del Socialismo – per un altro, l’autore ci invita anche a mantenere vigile l’attenzione sul nostro quotidiano, un presente sempre esposto agli “abusi politici dell’apocalisse” (p. 9). In qualche modo, forse, questo libro ci parla, più che del “loro” ieri, del “nostro” oggi, dove questo uso e abuso dell’apocalisse imminente – che sia la Guerra, il deserto dell’Antropocene o l’invasione dei barbari all’assalto della fortezza Europa – funziona pur sempre come un dispositivo politicamente saturo e che ogni volta ricalibra una impalcatura semiotica finalizzata a “vincolare la vita quotidiana a un nuovo ordine di significati e di corrispondenze» (p. 12).
Tutta “una ben calibrata e […] disinvolta strategia di classe” (p. 20), ci ricorda Ascari, emerge da ogni discorso sull’Apocalisse. Che sia l’Atomica di ieri o il Riscaldamento Climatico di oggi, due punti giusto per tracciare una sola retta, ogni struttura narrativa della fine di mondo – vero e proprio Leitbegriff del libro – organizza il sensus communis al fine di salvaguardare un determinato stato di cose attraverso una “divisione sociale” dei compiti, delle responsabilità e dei rischi dell’Apocalisse in arrivo. Da un lato, quelle soggettività “minori” e “minoritarie” che non possono opporre alla catastrofe se non “il gesto eroico della propria rassegnazione a vivere in condizioni di impoverimento e austerità, […] dall’altro i cittadini meglio combinati [che possono] deputare un porzione del proprio giardino all’interramento di un rifugio antiatomico più adeguato alla loro risma” (p. 20). Il rifugio da giardino del sottotitolo funziona così, nella struttura apocalittica, da operatore semiotico capace di adattarsi ai contesti e agire anche nelle trasformazioni del campo semantico al quale si applicano. Che sia il cortile della bianca borghesia americana, o le smart cities occidentali, quel che conta è la separazione tra chi può permettersi un rifugio “personale” per tentare di sopravvivere alla catastrofe e chi invece dovrà rimanere esposto alle conseguenze atroci di un collasso di mondo – collasso, atomico o climatico che sia, not in my backyard!
Così l’Apocalisse discerne tra chi è dentro e chi è fuori, tra gli eroi che devono sopportare l’inevitabile e i più fortunati che invece per natura possono salvarsi da sé. L’uso politico dell’Apocalisse fa della condizione sociale soggettiva il presupposto ontologico della sorte che gli è toccata facendo sentire il soggetto minore “talmente piccolo e indifeso da suscitare in lui la sensazione che la vita sia una faccenda davvero enorme” (p. 53) – il colpevole stato di minorità degli illuministi. Come evidenzia Ascari, la fine di mondo innesca una rinnovata esperienza del sublime, condizione sentimentale di una vita che affronta le macerie di un mondo del day after sempre rimandato e proprio perciò sempre presente. Se l’Apocalisse è un vettore semiotico di soggettivazione è perché “con la bomba – intesa come minaccia della fine di mondo – si possono fare tantissime cose, non solo sganciarla” (p. 57). Essa può funzionare, ad esempio, come testimonianza di un dislivello prometeico a perenne memoria di quanto la potenza dell’Uomo – quello bianco e maschio “con gli speroni agli stivali” (pp. 26-27) – possa essere tale da distruggere il creato intero (con la Bomba o con altri mezzi tecnici ad alta emissione climalterante) ma, anche al tempo stesso, di come questa stessa potenza, se guidata dal buon senso (quello che cartesianamente ci distingue dalle bestie), possa costruire “una sofisticata arca di Noè” dove preservare le specie viventi “mettendone in salvo qualche singola e privilegiata coppia di esemplari” (p. 63). Nel bene come nel male, davanti all’Apocalisse è pur sempre l’Uomo (maschio e bianco) a risolvere gli stessi problemi che causa. Tertium non datur!
Il merito dello scritto di Ascari è quello di far giocare su molteplici assi la natura classista di un discorso sull’Apocalisse. Politico, infatti, è il potere di disporre delle strutture significanti della fine di mondo, che mette in forma (nel senso della Bildung, certo, ma non senza una eco di Gestaltung) il “pensiero insopportabile di un’apocalisse oltre la quale non si intravvede nessuna riparazione” (p. 77), un pensiero la cui funzione è proprio quella di imbalsamare ogni facoltà umana sussunta solo all’inebriante terrore di una fine senza fine, un sentimento sublime che tuttavia, contrariamente a quanto riteneva Kant, non ci eleva ad uno scopo superiore, bensì finisce col “favorire la sublimazione dei privilegi” sociali a tutela continua di quelle “prerogative di classe che provano a ricavare dalla catastrofe un’ulteriore giustificazione della propria cogenza” (p. 84). È nelle pagine conclusive che l’elemento diagnostico di questo libro si manifesta in maniera esemplare e che, riteniamo, giustifica questa nostra lettura “contemporaneista” di un passato talmente vicino da risultare quasi mitico. La funzione politica di ogni discorso sull’Apocalisse non ha semplicemente l’obiettivo di “lasciare le cose come stanno”, ma è un principio di organizzazione sociale per “produrre un’angoscia finalizzata al consenso o al profitto” e dunque “implicare un contromovimento di cecità rispetto al reale pericolo della catastrofe” (pp. 84-85). Non deve esserci alternativa a questo mondo perennemente alla fine!
Che sia la Bomba, il Cambiamento climatico o qualsiasi altra emergenza, la fine di mondo, che continua a darci “macabro appuntamento nei nostri notiziari” (p. 87), lungi dal poter mai essere fonte di trasformazione del presente stato di cose, sarà sempre un elemento di neutralizzazione del conflitto, poiché “la fine di mondo riconduce qualunque articolazione alla presunta omogeneità dei destini planetari, perché davanti alla fine come sulla stessa barca siamo tutti uguali” (p. 87). Ritorniamo così alle pagine iniziali, perché solo sottraendo l’azione al suo “sequestro istituzionale” (p. 13) si potrà forse finalmente liberare una pratica conflittuale capace di pensare il pericolo al di fuori di ogni escatologia della catastrofe. E la proposta scanzonata, irriverente e arguta di questo libro è che il passo filosofico fondamentale sia quello socratico dell’ironia, una ironia complessa che non risparmia nulla “nemmeno sé stessa e che per amore di sintesi continueremo a chiamare senso del ridicolo [c.n.]” (p. 13).