di Chiara Scarlato

 

“Pensi di potermi portare oltre la soglia, ancora e ancora una volta, fino all’oblio?”. “Sono oltre la soglia”. La voce di Mina Tindle, che accompagna quella di Matt Berninger in Oblivions (traccia dell’album I am easy to find, 2019), domanda e risponde, mentre racconta l’incertezza racchiusa nel gesto di affidarsi a un altro corpo nell’amore. Si tratta dell’amore di un corpo che resta fermo accanto a un altro e, pur senza dire nulla, presenta una richiesta: attraversare un varco (o una soglia), promettendo che “andrà tutto bene fino in fondo all’oblio”. L’amore di Oblivions è un buon modo per capire come una storia d’amore si trasforma in una reciproca forma di cura e di attesa, ma anche per comprendere come funziona la letteratura: prima c’è una richiesta di fiducia, poi un attraversamento congiunto, infine una risposta che si ascolta nell’eco di un’altra voce. Non vale per tutti gli amori e non per sempre, così come non vale per tutta la letteratura. Non vale per tutti gli amanti dei libri e dei corpi e, anche in questo caso, non vale per tutti i rapporti. Per sfuggire alla tentazione di generalizzare il senso della letteratura, e con esso l’esperienza d’amore che è la lettura, prendo la libertà di parlare in prima persona e di dire che, per me, una delle altre voci più potenti della mia vita è stata quella di David Foster Wallace.

È stata quell’altra voce che, come accade in Oblivions, canta il passaggio da una soglia all’altra, laddove gli “oblii”, da una parte all’altra del libro, si susseguono e si confondono fino a diventare l’Oblio, lapidario e unico come il titolo dell’ultima raccolta di storie che Wallace pubblica vent’anni fa, prima di scegliere di suicidarsi decidendo così di abitare una soglia da cui non potesse più tornare indietro (Per sempre lassù, o laggiù, non è mai una questione di altezza). Oblio è uno dei volumi più densi di Wallace la cui potenza è pari a quella di tanti piccoli aghi che si conficcano gradualmente nella pelle e sono quasi innocui fino al momento in cui, con l’avanzare della lettura, una certa pressione inizia a premere sulla carne e gli aghi arrivano alle ossa, provocando fastidio e malessere. Lo stesso fastidio e lo stesso malessere raccontati in Mr. SquishyL’anima non è una fucina, Incarnazioni di bambini bruciati, Un altro pioniere, Caro vecchio neon, La filosofia e lo specchio della natura, Oblio, Il canale del dolore: sono questi gli otto titoli dei racconti – alcuni dei quali già apparsi su riviste pubblicate tra il 1998 e il 2003 – che intrecciano alcuni dei temi più frequenti dell’opera di Wallace come la noia, il trauma, l’impotenza, la paura, il dolore, la paranoia, la violenza e, infine, la sofferenza. Nella rassegna di corpi vessati da un bisogno viscerale di dimenticare, Wallace istiga a ricordare, ma anche a ricordarti, come lettrice e come lettore, di quanto anche il tuo corpo sia capace di costruire oblio di fronte al manifestarsi della noia, al ricordo di un trauma, all’impotenza dei gesti mancati, alla paura che attanaglia forte e frena i movimenti, al dolore che costringe a pensare, alla paranoia che guida i passi e svia, alla violenza subita e inflitta, alla sofferenza che ci riconosce quali esseri umani.

Esistono elementi ricorrenti nella costruzione dei testi come, ad esempio, il fatto che tutti i racconti abbiano luogo in spazi chiusi e controllabili – stanze di edifici (ufficio, scuola, casa) o mezzi di trasporto (aereo, autobus, macchina) – oppure che in essi viga la compresenza di almeno due linee narrative che si alternano senza che ci sia un vero e proprio criterio di demarcazione che permetta senza alcun dubbio di distinguere l’una dall’altra. Anzi, sarebbe più corretto dire che queste linee si susseguono secondo una continuità temporale che rende difficile individuarle, se non esercitando un continuo sforzo di attenzione che tenga conto sia della storia, sia del modo in cui la storia è formalmente scritta. In fondo, il modo più efficace che Wallace ha adottato per trattare l’oblio è radicato nell’esercizio di attenzione che viene richiesto continuamente a chi decide, con consapevolezza, di dedicarsi al testo. Attraverso la scrittura letteraria, si esercita la possibilità di accedere alla parte più profonda dell’umano, non più di un solo essere, bensì di una comunità di viventi che condividono pratiche per imparare ad abitare uno spazio e un tempo. Su tutte queste pratiche domina quella del linguaggio adottato come strumento per comunicare gli uni con gli altri.

Il tentativo di spiegare come funziona il linguaggio (la posizione di una domanda filosofica intorno ai limiti e alle aperture del linguaggio) si trova alla base di tutti i racconti di Oblio e, in particolare, di Caro vecchio neon, un racconto che “parla di diversi tipi di solitudine” (Un antidoto contro la solitudine, p. 240). Neal, il personaggio che si presenta come il narratore della storia, sin dall’incipit del racconto afferma di essere stato “per tutta la vita” un impostore. Poco dopo, il senso dell’espressione “per tutta la vita” si chiarirà in maniera drammatica e paradossale: “lo so che questa parte è noiosa e probabilmente ti annoia, ma si fa assai più interessante quando arrivo alla parte in cui mi uccido e scopro quello che succede subito dopo che una persona muore” (ivi, p. 171). Chiarisco subito che il punto non è comprendere se il narratore stia dicendo o meno il vero, e non lo è perché il testo è costruito su una serie di paradossi che rende possibile la compresenza di due situazioni antitetiche: di conseguenza, Neal è un impostore, ed è sincero quando ci racconta la sua storia. È morto suicida, ma è vivo quando in prossimità della fine del racconto e della fine di Neal, interviene un’altra voce – la stessa voce evocata in più punti del racconto, un “tu” o un “voi” al quale il narratore spesso si rivolge – che gli dice: “Ma cambiare idea non avrebbe fatto di te un impostore. Sarebbe stato triste farlo perché sei convinto di doverlo fare” (ivi, p. 213).

È ancora in virtù di questa dimensione paradossale – che è comune a tutti gli individui che si trovano a fare i conti con l’impossibilità di vivere con coerenza ogni istante della rispettiva vita – che Neal è David Wallace, il personaggio che appare quando il protagonista scompare dal racconto per guardarci dalla sua foto nell’annuario scolastico che David Wallace sta sfogliando mentre “cerca, attraverso il piccolissimo buco della serratura di se stesso, di immaginare cosa possa essere successo per portarmi [sc. portare Neal] a morire tra le fiamme dell’incidente d’auto di cui aveva letto nel 1991” (ivi, p. 214) e, allo stesso tempo, tenta di “riconciliare quello che quel tipo radiante era parso dall’esterno con la cosa che all’interno lo aveva indotto a suicidarsi in modo così teatrale e indubbiamente doloroso” (ivi, p. 215). Neal incarna una forma di esistenza più paradossale delle altre: è incapace di esercitare la forma di oblio che, in maniera automatica, salva dall’esattezza di un pensiero ricorsivo che non fa altro che metterci di fronte ai limiti umani e all’impossibilità di vivere di una sola verità. La più profonda libertà è quella di comprendere che la verità non è quasi mai necessaria.

In questo modo, l’eco della voce di Wallace in Oblio è un modo possibile per svincolarsi dal paradosso del linguaggio che si verifica ogniqualvolta si comprende che le parole sono spesso inadeguate quando si tratta di esprimere ciò che profondamente si sente e, allo stesso tempo, si avverte la certezza di non avere altro che il linguaggio per poterne denunciare la carenza. Dal paradosso del tempo, vale a dire dalla perenne discrasia tra la percezione interna dettata dalle emozioni e la misurazione di un tempo esterno che viene calcolato in successione da un insieme di dispositivi costruiti per poterci dire e collocare nelle rispettive vite. Dal paradosso dello spazio, cioè dall’essere fisicamente in un luogo pur esercitando la facoltà di proiettarsi altrove – accedendo al ricordo o passando dalla veglia al sonno –, eppure non avere la capacità di essere realmente “da una parte e dell’altra” (come suggerisce il titolo di uno dei primi racconti di Wallace, dedicato a Gödel). E, ancora, dal paradosso di un pensiero incommensurabile, dalla coscienza di una serie di immagini che si producono all’interno della mente, senza che noi riusciamo a registrarne la successione, e tantomeno a riportarne l’ordine perché i pensieri, giunti alle labbra, si incrociano con il linguaggio e con il tempo che impieghiamo per dirle, nello spazio in cui ci troviamo.

Infine, emanciparsi dal paradosso dell’oblio e imparare a vivere nella consapevolezza di un corpo che non si può ridurre (per semplificarne la comprensione), né classificare (per esclusione da un sistema e inclusione in un altro), eppure non smettere di parlarne perché questo è l’unico modo per non perdere il contatto con i desideri, le necessità, le ruvidità e le manie che ci rendono così come siamo. Esseri umani disposti a dimenticare di avere un corpo per non avere timore di mangiare il frutto del loto, quando si tratta di continuare a vivere. Questo accade perché l’oblio è una traccia che rimane confusa se non si decide di rivolgerle la giusta attenzione. Anzi, l’oblio è la possibilità più essenziale dell’essere umano che, nel mondo, si trova spesso di fronte a situazioni che non possono essere comprese né con il pensiero, né con il corpo, specialmente nei momenti in cui la testa chiede riposo e la carne di non essere nemmeno sfiorata. Sarà sufficiente, allora, cercare di prestare ascolto a questa eco fino a riuscire a decrittare i suoni confusi che, nel loro farsi parole, dicono una sola cosa. Andrà tutto bene fino in fondo all’Oblio.

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