‘Noi’ il popolo. Io lirico collettivo nella poesia del ventunesimo secolo
di Carlos A. Pittella
[La presente inchiesta sulla prima persona plurale in poesia è nata nell’estate del 2022 dalle riflessioni condivise dopo una presentazione congiunta dei libri di poesia Obelisks di Gianluca Rizzo e Soggetti a cancellazione di Lorenzo Mari. Come ricostruito in seguito, nello stesso periodo usciva sulla prestigiosa rivista di poesia online di lingua inglese «Jacket2» un saggio su tematiche analoghe del poeta e studioso Carlos Pittella ‘We’ the people. Collective lyric self in twenty-first-century poetry, che qui presentiamo in traduzione italiana, a cura di Gianluca Rizzo e Lorenzo Mari, per gentile concessione dell’autore.]
1. Alterità in prima persona
Parlando di lirica può sembrare il quesito più ingenuo di tutti, ma, volendo correre il rischio, che cosa pensiamo di una poesia contemporanea in lingua inglese scritta in prima persona? Che impatto ha la scelta di questa prima persona, singolare o plurale che sia, sulla nostra relazione con chi parla nel testo? E questa relazione è cambiata nel corso del ventesimo secolo, oppure è ancora dettata dai nostri retaggi modernisti e da come questi ultimi hanno contribuito a codificare la nostra comprensione dell’io lirico?[1]
L’io lirico è senza dubbio una delle marche distintive del genere. Come rilevato da Virginia Jackson nella sua teoria della ricezione della lirica, la costruzione di tale genere ha portato alla rimozione delle poesie dalle loro circostanze di produzione e la loro trasposizione in un vuoto a-temporale e a-spaziale, allo scopo di creare un’illusione di immediatezza tra chi scrive poesia e chi la legge[2]. È un’illusione così pervasiva che, in un importante testo di riferimento, Helen Vendler ha definito la lirica come “il genere della vita privata” (“quello che ci diciamo quando siamo da soli”) e la poesia lirica come “uno script per la performance di chi legge”[3]. Di conseguenza, non accade soltanto che vengano rimosse le circostanze sociali immediate della poesia, ma lo stesso io lirico è presentato come qualcosa di trasparente che permette l’identificazione – «un gemellaggio tra chi scrive e chi legge», stando alla descrizione di Vendler[4]. Questo processo di astrazione dell’io lirico ha determinato il fatto che la “poesia lirica” perdesse ogni altra connotazione e fosse spesso contrapposta alla “poesia politica”, e in particolar modo a quella poesia che rende l’io lirico non trasparente, bensì opaco, fluido, o intrecciato secondo modalità che sfidano i posizionamenti tanto di chi parla quanto di chi legge[5].
Noi, pubblico della poesia del ventunesimo secolo, evitiamo accuratamente di instaurare un’equivalenza tra parlante e poeta. Anche nelle poesie apparentemente più confessionali, riconosciamo una “performance dell’intimità”[6] – per usare la definizione adottata dalla scrittrice Maggie Nelson, che l’ha coniata nel suo studio della poesia di Anne Sexton: “l’io individuale che Sexton, in apparenza, rende oggetto di ‘confessione’ si frantuma in voci polifoniche variamente posizionate rispetto a ciò di cui si parla”[7]. Naturalmente, l’individuazione dell’io lirico in termini di performance non è da intendersi come critica, bensì come consapevolezza della limitazione, della complessità e – per citare di nuovo Nelson, in questo caso a proposito di Sylvia Plath – della “figurazione complessa della relazione tra l’identità in prima persona e l’auto-rappresentazione testuale”[8].
Tale consapevolezza della complessità è un’eredità del primo modernismo. Quando il poeta Fernando Pessoa scrisse “Eu som uma anthologia” (“Io sono una antologia”)[9], diede forma a una frammentazione dell’io lirico – con lo scopo di rappresentare la frantumazione dell’ego – che avrebbe segnato tutto il modernismo[10]. Pessoa esplorò tale polverizzazione forse più radicalmente di qualsiasi altro modernista inventando più di un centinaio di autori fittizi, inclusi i suoi tre famosi eteronimi, e facendo del proprio nome soltanto uno (ma non il più importante) di tale immaginaria consorteria. Il processo poetico di auto-estraniamento o auto-cancellazione non è iniziato con Pessoa; se quest’ultimo è stato un innovatore rispetto alla propria epoca, era in piena sintonia con i cambiamenti estetici della fine del diciannovesimo e inizio del ventesimo secolo, appoggiandovisi per diventare il capofila del modernismo in Portogallo. Era consapevole dell’importanza del verso I contain multitudes di Walt Whitman[11] e del motto di Arthur Rimbaud, Je est un autre[12], una “decostruzione della prima persona singolare”, come ha osservato il critico George Steiner:
‘Je est un autre […] L’io non è più sé stesso. Più precisamente, non è più sé stesso per sé stesso, non si lascia più integrare. […] La decomposizione di Rimbaud non introduce più nel vaso infranto dell’io soltanto l’‘altro’, l’anti-persona del dualismo gnostico e manicheo, ma anche una pluralità senza limiti. […] Rimbaud colloca nel cuore ormai vacuo della consapevolezza le immagini frammentate di altri ‘sé’ momentanei.[13]
Oggi l’opera di Pessoa sembra essere influente come non mai, con la pubblicazione, e a un ritmo esponenziale, di nuove traduzioni, edizioni e numeri di rivista monografici. Il suo auto-estraniamento ha generato diversi lignaggi poetici. La molteplicità dell’io lirico messa in scena da Pessoa ha acquisito nuovi significati; le fa eco una poetica non-binaria come quella di Paige Lewis, che – a differenza di Pessoa – non sente il bisogno di ridurre il proprio nome per far spazio alla pluralità, poiché il loro Io è abbastanza ampio per includere vari sé, anche contraddittori tra loro[14]. In ogni caso, la pluralità dell’io di Pessoa è più un loro che un noi – più alterità che collettività. Di conseguenza, anche un caso così radicale come quello di un io lirico plurale in prima persona – quello di Pessoa – non equivale necessariamente a un io lirico collettivo. Forse possiamo distinguere la plurale prima persona di Pessoa dalla prima persona plurale; poi però, nemmeno il solo uso del noi ci può garantire una vera collettività, poiché si potrebbe trattare di un noi maiestatico, o anche di un noi coloniale ed escludente.
2. Collettività di prima persona
Come fare a definire qualcosa di tanto vago quanto il noi colonialista, un aggregato egoista capace di parlare anche (e soprattutto) attraverso il silenzio? E come fare a riconoscere quel noi in una lingua colonialista come l’inglese, abituata com’è a non sentirsi parlare proprio perché sente sempre e solo sé stessa? Questa difficoltà è collegata a quello che lo studioso Dylan Robinson ha chiamato “l’orecchio di latta” del colonialismo di insediamento.[15] Forse il noi coloniale si esperisce meglio quando si sfilaccia, quando si stira ed allunga per includere tutto quello che aveva precedentemente connotato come “altro”. Per citare un esempio da una lingua coloniale diversa, lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo racconta di come i coloni francesi insegnassero ai ragazzini africani le vicende dei “nos ancêtres les Gaulois,”[16] nel tentativo di assimilare gli studenti all’interno del noi coloniale.
Questioni di accessibilità e posizionamento permeano le poetiche del ventunesimo secolo, e sembra che giungano ad una impasse quando considerano l’inclusione/esclusione deliberata del lettore nella scelta del pronome lirico da parte del parlante, specialmente quando si tratta del pronome noi. Nel suo saggio “Insegnare poesia nell’apocalisse palestinese,” sottotitolato “Verso un io lirico collettivo”, il poeta George Abraham medita su alcuni dei modi in cui la prima persona plurale si manifesta nella poesia contemporanea, distinguendo un noi coloniale ed esclusivo da un noi che si può considerare veramente collettivo:
Così, forse, con un “io” molteplice propongo non tanto un “noi” lirico (universale) quanto piuttosto un noi lirico: un noi che sia indeterminatamente espansivo, eppure preciso, e sempre al di là della mia (e mia (e mia (e di tutti i miei mia))) capacità di possesso. Un noi-lirico che oserei definire impossibile anche solo per indicare come siamo sempre impegnati in un lavoro di (ri(s))diventare. L’essenza di questo noi-lirico va ricercata nella solidarietà: essere lì a dare una mano nel linguaggio, sia dentro sia fuori la pagina. Una poetica che non contempli solo un’insurrezione teorica, ma che pretende dal poeta, dai lettori, e da tutti gli ascoltatori, la trasformazione della poesia in azione in ciascuna delle nostre vite.[17]
Questa solidarietà, sia dentro sia fuori la pagina, ricorda il modo in cui Judith Butler interpreta la frase “noi il popolo”: “sia che sia scritta in un testo, sia che venga pronunciata per strada, questa frase denota un’assemblea nel momento in cui è impegnata a formare e definire sé stessa.”[18] Si tratta di una definizione chiaramente diversa dalla solidità e presunta invisibilità del noi coloniale. “Noi il popolo” è un atto linguistico costituzionale ma anche costitutivo, il prodotto di una citazione ma anche un processo in continua evoluzione, un enunciato deittico che è allo stesso tempo linguistico e corporeo; e fa differenza chi è a pronunciarlo, dal momento che i corpi da cui fuoriesce si rendono visibili e perciò vulnerabili, tutt’altro che astratti e inseparabili da quel loro pronome “noi”:
Quando qualcuno prova a mobilitare “noi, il popolo,” ci si volta da quella parte per vedere chi è a dirlo, per capire se hanno il diritto di dirlo, ma anche per vedere se, nel pronunciarlo, il loro atto linguistico sia efficace e riesca a suscitare proprio quel popolo di cui si parla.[19]
La lettura di Butler, che implica assemblee in carne e ossa, ci può aiutare a pensare il noi lirico nella poesia contemporanea, forse anche come una rubrica temporanea: possiamo leggerci 1) chi dice “noi,” 2) il modo in cui il parlante implica il suo posizionamento nel pronunciarlo, ma anche 3) la sua efficacia nell’implicare o mobilitare i lettori. Seguendo la stessa linea tracciata da Butler, la poeta Tracy K. Smith si è chiesta “cosa succede all’io lirico se le poesie non sono riflessioni ma piuttosto messe in pratica”? Smith suggerisce che
di recente [l’io lirico] sembra impegnato nella ricerca di rivelazioni che non nel privato, ma in comunità. Non nelle meditazioni della mente, ma fra corpi in movimento all’interno di spazi condivisi, fra le transazioni che segnano e danneggiano i nostri corpi fisici. In questo momento l’io lirico non è da solo […]. Piuttosto, parla ad un’assemblea numerosa, in movimento, contraddittoria, plurivalente, e che non si può dire se sia in ascolto oppure se sia in accordo con quanto si dice.[20]
Volendo raccogliere la sfida lanciata da George Abraham, e cioè ripensare la poesia lirica attraverso l’idea di solidarietà, propongo di indagare tre concezioni di lirico che sembrano fluide, complesse, e lontane dalla pluralità frammentaria dell’io modernista: 1) il noi seriale che Nathaniel Mackey sviluppa nel “Canto di Andoumboulou” [“Song of Andouboulou”]; 2) il noi di voci evocate creato da Alexis Pauline Gumbs; e 3) il noi implicato da Solmaz Sharif nella relazione stratificata che crea fra il parlante e un tu/voi molto specifico. Questa indagine di tre incarnazioni molto diverse del noi lirico non è, e non vuole essere, esaustiva; né si presenta come una tipologia, ma intende solo evidenziare alcuni approcci diversi a un sé collettivo.[21] Anche sotto questo aspetto, il noi lirico sembra riflettere il potere dell’assemblea, nel senso che entrambi risultano inesauribili; come nessuna elezione o manifestazione può esaurire il potere del popolo,[22] allo stesso modo non si dà, e non si può dare, nessuna tipologia del noi lirico che sia completa, dal momento che la poesia continua a rigenerarsi senza posa. In aggiunta, come ogni assemblea che dichiari “noi il popolo,” questo noi solidale non può rimanere neutrale, né del resto fa finta di esserlo: la sua visibilità e vulnerabilità sono una sfida alla presunta trasparenza e neutralità della poesia lirica.
3. Noi seriale
Nella “Song of the Andoumboulou” che ricorre all’interno di Splay Anthem (2006) di Nathaniel Mackey, l’of è ambiguo, potendo essere sia “a proposito di” sia “cantata da”, riferendosi, quindi, a un tema o a un personaggio. Se si interpreta “dell’Andoumboulu” come la descrizione di un tema, si avrà a che fare con una poesia seriale, assai peculiare, sull’Andoumboulou: una serie di variazioni jazz su un tema che definisce/ridefinisce “Andomboulou” senza giungere a una conclusione o a un punto di arrivo; nessuno dei canti, o delle iterazioni dello stesso Canto, può vantare una parola finale sul tema, né una posizione gerarchicamente superiore all’interno della serie nella sua interezza. Se si interpreta “dell’Andoumboulou” come l’affermazione di un personaggio collettivo – come a dire, cantata dall’Andoumboulou – si avrà una voce poetica che rappresenta o che è inclusa all’interno di un noi lirico; di conseguenza, le ridefinizioni seriali della voce che canta saranno anche un’indagine su un sé collettivo.
Che si interpreti l’«of» come indicativo di un’appartenenza oppure come un’indagine, se si ritiene che il titolo “Song of the Andoumboulou” attribuisca il canto a un popolo la serialità complica tale relazione. “Andoumboulou” è, oppure sono, sempre la stessa cosa nel tempo, nello spazio, e da poesia a poesia? Anche a livello fonetico, Andoumboulou sembra essere un significante erratico, che assomiglia ad alcune etimologie, proprie delle lingue occidentali, relative al camminare (al latino ambulare, all’italiano andare).
Andoumboulou non è soltanto un “soggetto” ambiguo (soggetto, tra l’altro, inteso come chi parla e anche come tema), ma il suo infinito processo di autodefinizione rende difficile qualsiasi discorso al riguardo. Come si può analizzare una poesia che rifiuta ogni closure, quando cioè si finisce per avere più domande che risposte? È possibile arrivare a una definizione quando una poesia non lo fa? O è forse il processo stesso che porta a cercare continuamente di definire l’unica possibile “definizione” (aperta), sia per chi scrive poesia sia per chi la legge?
La scrittura di “Song of the Andoumboulou” è profondamente consapevole di questo problema; “Song and Cerement” (“Canto e sudario”; la cinquantanovesima sezione di questo Canto seriale) esprime tutta la scivolosità di una prima persona plurale che cerca di definire sé stessa attraverso un movimento costante, che diventa una “interminabile deriva”:
[…] It was all
a wrong
turn or we took a wrong turn. All the
roads ran off to the side and we as
well, we of the interminable skid … We
were they of the imagined exit[23]
“Andoumboulou” (o anche Andumbulu) è una parola che i Dogon del Mali usano per identificare un’entità mitico-spirituale connessa al mondo ultraterreno. Mackey la utilizza come denominazione di un parlante plurale, un “demonimo” poetico, un’identità collettiva sempre in transito fra spazio esterno e interno. Esternamente: il paesaggio cambia da poesia a poesia, evocando la grande stratificazione della deportazione schiavista chiamata Middle Passage. Internamente: il noi è riconfigurato da una serie di ri-definizioni a spirale che arrivano fino alla perdita di identità di un popolo schiavo e alla sua infinita ricostruzione dopo/attraverso il progetto coloniale – la perdita di identità di aver attraversato “la porta del non ritorno”[24]. Citando un monumento eretto sull’isola di Gorée in Senegal nel 1962, Dionne Brand ci ricorda che questa “porta è un luogo, reale, immaginario e immaginato. […] La porta attraverso cui venivano catturati gli africani, caricati sulle navi dirette al Nuovo Mondo” [25]. In A Map to the Door of No Return (“Mappa per la Porta del Non Ritorno”) la prosa di Brand inserisce il potere simbolico di quel monumento in una mappa sempre provvisoria, analogamente a quanto fa la poesia di Mackey:
La porta esiste come assenza. Una cosa che a tutti gli effetti non conosciamo, un luogo che non conosciamo. Esiste, tuttavia, proprio come il terreno su cui camminiamo. Ogni gesto che i nostri corpi fanno segnala, in qualche modo, questa porta. Ciò che prima di tutto mi interessa è sondare la Porta del Non Ritorno come coscienza. La porta lancia un incantesimo inquietante sulla coscienza personale e collettiva nella Diaspora.[26]
Il verso già citato di Mackey “they of the imagined exit” (“loro, quelli dell’uscita immaginata”) evoca uno spostamento forzato che possiamo solo immaginare, e nemmeno bene – le parole non riescono a trasmetterlo a causa delle mostruose assenze dell’archivio, delle insufficienze del linguaggio e dei limiti della memoria. Pur difendendo il metodo della fabulazione critica per affrontare tali lacune, indicibili nella nostra immaginazione storica, Saidiya Hartman lo descrive come “ascolto del non detto, traduzione di parole fraintese e rimodellamento di vite sfigurate – e intento a raggiungere un obiettivo impossibile”[27] – parole che sembrano applicabili anche alla definizione sempre in progress del noi di Mackey:
[…] The sun was one of
us it said. What it meant by us lay
cloaked
in peal, ping, fado, world wanted only
for the sound it shook loose, Portuguese
tremor,
trill… What wasn’t us we had no way of
knowing. What it meant by us was
unclear, us included so much[28]
Il sole (sun) è incluso qui nel “noi” (us), ma in un “noi incluso così tanto” che “cosa volesse dire noi” elude qualsiasi definizione. Quando, in un altro passaggio, Mackey scrive: “not limbo where we were, a kind of / loop we were in … It wasn’t lost we’d / have said we were, we reconnoitered”[29], cosa si intende con il noi e con il suo movimento? Si nega il “limbo” (affinché il sé non resti bloccato) per affermare nel contempo un “loop”, nella circolarità del jazz, un incessante processo di divenire (ma divenendo cosa?). Il sé è fluido, ma quanto è stabile/poroso, personale/collettivo? Oppure chi parla è un recipiente, definito solo dai passaggi attraverso sé stesso: un Orisha che canta attraverso una voce umana?[30]
Nella sua prefazione a Splay Anthem, Mackey presenta “il noi del poema” come “una sorta di tribù perduta, una banda di viaggiatori nervosi, [che] non conoscono altro che il disagio del luogo, finito sotto terra”[31]. Questa definizione identificare, in primo luogo, i sopravvissuti al Middle Passage e i loro discendenti. Ma quando, nella pagina successiva, gli Andoumboulou vengono rappresentati “non semplicemente come una precedente forma di essere umano fallita o imperfetta, ma come una bozza approssimativa di essere umano, il work in progress che continuiamo a essere”[32], siamo forse di fronte a un noi più (onni)comprensivo?
La dicotomia inclusione/esclusione sembra giocare un ruolo cruciale nel guidare l’erranza del o degli Andoumboulou, venendo talvolta esplicitamente definita come tale: “A republic of none the one included / us / no word to speak it with”[33]. Invocando una voce plurale storicamente segnata dall’esclusione e rifiutando la sua assimilazione in un’unica parola stabile/finale, Mackey crea un Canto collettivo molto diverso da quello modernista di Pessoa o Whitman. Invece del “Canto di me stesso” whitmaniano, forse Mackey lo chiamerebbe “Canto di noi stessi”, del “nostro” Sé, sul “nostro” Sé, sul diventare continuamente il “nostro” Sé… il vero scopo è la ricerca di un’autodefinizione collettiva. Una conclusione del genere non è del tutto diversa da ciò che altri lettori hanno visto nelle pubblicazioni della serie che va sotto il titolo di “Song of the Andoumboulou” e che hanno preceduto Splay Anthem: “sforzi per riassemblare il collettivo attraverso pratiche d’insieme” [34]; “la possibilità di un’identità collettiva interculturale che […] andrebbe oltre la logica del “noi” e del “loro” così spesso alla base delle attuali concezioni del multiculturalismo letterario e sociale”[35].
4. Un noi tracimante
E se invece di definire e ridefinire un “noi” in continuo movimento una poeta evocasse una “lei” dopo l’altra, fino a trasformare un accumulo di voci anonime e dimenticate in un collettivo impossibile da ignorare? Il percorso di Sversamento: scene di fugitivity femminista e nera [Spill: Scenes of Black Feminist Fugitivity], di Alexis Pauline Gumbs, è intimamente collegato allo sforzo monumentale di Mackey, e allo stesso tempo gli è complementare. Si tratta di un libro che sfida qualsiasi definizione, che come ogni sversamento è già un’evasione da uno spazio chiuso. Si dispiega in una lunga processione di voci evocate. E perfino la sua grammatica è uno sversamento. Si tratta di una sintassi di continuità, nella quale gli oggetti diventano inaspettatamente transitivi, e le frasi vengono spinte fino al loro limite, e anche oltre:
nessuno ha fatto fotografie ma io la vedo. un piede su un gradino, un piede sul portico. rivolta all’indietro, con le mani che afferravano la definizione più recente di quello che le mani potevano afferrare. col gomito rivolto verso l’alambicco dove la grappa e il suo uomo avrebbero affogato la loro incredulità fino a raggiungere una gradazione così alta da disinfettare tutto, o almeno così sembrerebbe.[36]
La prima frase qui sopra sembra suggerire quell’archivio mancante che Gumbs cerca di ricostruire, l’invisibilità stessa resa visibile, udibile, toccabile[37]. Le voci contenute in Spill danno peso al trauma: qualche volta è un fardello troppo pesante, altre volte non pesa abbastanza da costringere a restare. Queste voci evocano incantesimi di invisibilità che trasformano la debolezza in potere, derivando forza dall’oblio sistematico. Questo passo è tratto dalla terza di dieci sezioni, intitolata “Come se n’è andata”; quasi tutti i titoli delle sezioni assomigliano a domande giornalistiche e, nell’indice[38], formano una specie di poesia in forma di sversamento:
UNA NOTA / xi, Come l’ha saputo /1, Come l’ha scritto/ 17, Come se n’è andata / 31, Come è sopravvissuta fino a quel momento / 45, Cosa non ha detto / 61, Cosa pensava lui / 75, Dove è andata a finire / 91, Il testimone il ribelle e l’attesa / 111, Come lo sappiamo / 125, La via / 141, RINGRAZIAMENTI / 151, NOTE / 153, BIBLIOGRAFIA / 161[39]
In aggiunta, ogni sezione comincia con una definizione diversa, tratta dal dizionario, della parola “spill” [sversamento, fuoriuscita, perdita, etc.]. Fin dalla dedica, il libro si presenta come una convocazione. La dedica coinvolge direttamente un mentore di modo da creare un’opera che sia allo stesso tempo “alla maniera di e insieme a / Nero Bianco e a Colori / di Hortense Spillers”[40]. Qui Spillers, come avveniva per l’Andoumboulou di Mackey, assume il significato di un nome collettivo, un demonimo, una genealogia, il lavoro/origine di chiunque sversi. Ciascuna poesia comincia con un verso o una frase scritta da Hortense Spillers, per poi seguire la sua strada (mentre tutte le indicazioni bibliografiche sono fornite alla fine del libro). Spillers è semplicemente la prima ad essere convocata all’interno di quella collettività create da Gumbs che, per prima cosa, chiarisce le radici femministe di Spill, per poi aprire la poesia a una miriade di voci di donne nere. La prima poesia è un appello necessariamente incompleto, un incantesimo, una nominazione biblica di ciò che è ancora senza nome, solo che questa volta a parlare non è Adamo:
the ground shakes with us
the gathering women […]
the graceful stomping women heading home
ungrateful women populating poems […]
the fire is full of the all-out women
the walk-out women the sweet
the fire is finding the love-lost women
the worth-it women the ones
fire is blazing the brash blues women
the black-eyed women
the wiry women with guns
the fire is becoming the sun
our work here is not done[41]
A un certo punto Gumbs invoca Eshu (o Exu), l’Orisha degli incroci[42], in aggiunta ad altri Orisha, creando uno sversamento fra mondi “when she lets god through”.[43]
Il movimento generale del libro diventa più chiaro man mano che cresce, alla maniera di un rizoma: donne senza nome ricevono una voce, scene e storie si accumulano presentando una “lei” dopo l’altra a creare un “noi” straripante. C’è una fonte inesauribile, un pozzo profondo di coscienza trascurata, una logica da acqua, che ha enormi poteri lustrali: “I will softly explain that years are not measured by light they are measured by water”[44]. C’è lo sversamento del caso, della marcia di protesta, della rivoluzione strutturale:
Picture the house. The house is spilling. There are hands out the window but the doors have barricades. Picture the hands. The hands are crucial. The hands are eloquent they are spelling back their hair. Picture the hair. The hair is heaping. The hair is helping. The hair will overtake. Picture the help. The help are horrified. Their children are learning to dismantle the state.[45]
Accostando Spill e “Song of Andoumboulou” si possono identificare diversi punti di contatto: entrambi formano una collettività attraverso processi di serializzazione, accumulando poesie fino a formare un noi che straripa superando un silenzio annientante; entrambi si ricollegano alla fabulazione critica di Saidiya Hartman, con impennate sconcertanti dell’immaginazione per figurare l’inimmaginabile, ciò che è andato perso, ciò che è rimasto insepolto nell’oceano della memoria collettiva. Entrambi cercano di fare l’impossibile e rappresentano quell’impossibilità a un livello concettuale, “traducendo in azione l’impossibilità”, per dirla con Hartman, chiedendosi “come si raccontano storie impossibili […] che sono state escluse dall’archivio”?[46] Hartman osserva che “il risultato di questo metodo è una ‘narrazione ricombinante’ che ‘annoda i fili’ di testimonianze incommensurabili e intreccia presente, passato e futuro”[47].
Le opere ricombinanti di Mackey e Gumbs mostrano le limitazioni dell’archivio attraverso la ripetizione e il riposizionamento di un vocabolario volutamente circoscritto. Per questo, le voci suonano familiari, ma l’attenzione di cui sono investite sembra strana, fuori luogo, riconfigurata in maniere sorprendenti. Questo avviene forse anche perché le voci, spesso de-umanizzate e sottovalutate come non-poetiche, vengono ora impiegate proprio per mostrare la povertà della nostra immaginazione, destabilizzando il canone attraverso parole d’uso quotidiano. È un modo di mettere in evidenza la non neutralità del noi canonico (perlopiù coincidente con il noi coloniale), mostrando tutto quello che viene escluso da ogni canone, tutto quello che rimane da dire e da ascoltare, tutto quello che non possiamo articolare perché non ci riesce di immaginarlo: “she has no one to describe it to. she would say wave crash but she has not seen the ocean. would say lightning, would say wait and come back, i’ll show you.”[48] Facendo implodere la temporalità attraverso un raccontare e riraccontare, sia Mackey che Gumbs creano opera che sono allo stesso tempo estemporanee e contemporanee, mitiche e quotidiane, drammatizzando un noi che, fluido come acqua, persevera e trasgredisce.
5. Verso un noi
Sono numerosi i critici che hanno prestato attenzione allo sforzo di Solmaz Sharif in Look (2016) di riumanizzare un linguaggio che è diventato sempre più militarizzato, “[s]anificato e distaccato dalla realtà brutale in cui si inscrive”[49], come dice Taleghani. Di certo, il nostro linguaggio quotidiano ha da tempo accolto tutti i tipi possibili di metafore violente normalizzate, quali “difendere una tesi”, “duellare su un punto” e molti altri esempi della metafora “LA DISCUSSIONE È GUERRA” che Lakoff e Johnson decostruiscono in Metafora e vita quotidiana – “espressioni dal vocabolario della guerra, ad esempio, ‘attaccare una posizione’, ‘indifendibile’, ‘strategia’, ‘nuova linea di attacco’, ‘vincere’, ‘guadagnare terreno’, ecc.”[50]. In Look, Sharif contesta in particolare gli eufemismi e il linguaggio incorporeo nel Dictionary of Military and Associated Terms, pubblicato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (DOD): “È proprio questo sforzo di distacco, disumanizzazione e cancellazione delle ferite e dei danni perpetrati contro i corpi umani in guerra che Solmaz Sharif sfida e affronta con la sua poesia”[51].
Analogamente a Taleghani, Anderson descrive il lavoro di Sharif come “un’indagine sulla deturpazione della parola all’interno di un mondo sempre più militarizzato”, e osserva come il poeta (nelle note finali di Look) sottolinei “la scomparsa di ‘drone’ da una versione aggiornata del Dictionary of Military and Associated Terms”[52]; ciò significa, secondo le parole di Sharif, che “la definizione militare non è più un supplemento alla lingua inglese, ma la lingua inglese stessa”[53]. Le parole del linguaggio quotidiano (come ad esempio il termine drone, che indica il maschio dell’ape) risultano, infatti, cooptate dal gergo militare per significare qualcos’altro, offuscandone così le implicazioni letali; ma il processo non si ferma qui, poiché i termini vengono poi riassorbiti dal mondo militare nel linguaggio quotidiano, rimuovendo le connotazioni belliche (e forse anche il valore denotativo, nel caso di drone). E tuttavia, chi usa le parole senza metterne in discussione lo scopo, cosa che il poeta, invece, mette in luce? La risposta è la stessa che si può dare alla domanda su chi finanzia l’esercito: il popolo, i contribuenti, gli oratori. In questo modo, Look coinvolge il lettore nella costruzione di un noi complicato. Quando ci giustifichiamo per aver dato ripetutamente per scontato il significato di drone come “macchina volante assassina senza esseri umani”, siamo diversi dai soldati che lo utilizzano in sicurezza, a distanza?
Non possiamo semplicemente incolpare il dizionario del DOD per aver militarizzato le parole senza tenere in considerazione di chi sta usando la lingua e come. Lo sguardo di Sharif, in un testo che, d’altronde, si intitola Look, è potente; Raza Kolb lo ritiene “un ritorno del linguaggio della guerra al terrorismo verso le scene dell’intimità in cui necessariamente si infiltra”[54]. Due sequenze poetiche in Look – “Reaching Guantánamo” [“Verso Guantánamo”] e “PERSONAL EFFECTS” [“EFFETTI PERSONALI”] – portano in scena quell’intimità e coinvolgono il lettore in modi che sembrano diversi (o più complessi) rispetto ad altri testi singoli del libro, principalmente incentrati sulla riappropriazione di termini militarizzati.
In “Reaching Guantánamo”, Sharif scrive una serie di sette brevi lettere che, a prima vista, sembrano essere state censurate, perché in esse troviamo tante parole sparse quanti spazi che denotano “lacune”. È interessante notare come quegli spazi vuoti non siano le cancellature in nero che si associano ai documenti top secret resi pubblici dopo una censura governativa, né sembra esserci alcuna informazione qui che meriti tale censura, poiché si tratta di lettere intime scritte dal personaggio di una moglie a un marito di nome Salim. Considerando il titolo, presumiamo che Salim sia imprigionato nel campo di detenzione di Guantánamo Bay, nel contesto della “guerra al terrorismo” degli Stati Uniti che è seguita agli attacchi dell’11 settembre. Le parti della lettera che non sono bianche sembrano essere ciò che è riuscito a raggiungere effettivamente Guantánamo dopo un processo di cancellazione: Raza Kolb osserva come “Reaching” nel titolo “parli di un gesto di speranza, un tentativo di toccare, una mano tesa, e anche all’impossibilità di riuscita letteraria in condizioni di estrema sorveglianza, abuso e isolamento”[55].
Salim non ha altri antroponimi, ma codifica il destinatario come musulmano, suggerendo quindi una dimensione collettiva e rappresentando un qualsiasi potenziale bersaglio delle visioni distorte intrinseche alla “guerra al terrorismo”. Eppure, questo Salim è basato su un individuo reale, come spiega Anderson: “Sharif immagina di scrivere all’ex prigioniero di Guantánamo Salim Hamdam dal punto di vista di sua moglie, rendendo questo atto di cancellazione particolarmente inquietante poiché è stato messo in atto su un testo che è stato nessuna relazione evidente con la violenza o l’insurrezione; si tratta, come sottolinea Andrea Brady, di una ‘mutazione dell’intimità’”[56]. La quinta e la più breve di queste lettere – proporzionalmente quella con lo spazio vuoto più vasto – recita:
Dear Salim,
have made a nest
under our . And now
the nestlings always .
The of eggs has gone .
And rice. And tea. I don’t know who
decides things.[57]
Come sottolinea anche Raza Kolb, “[il] lettore non può fare a meno di colmare le lacune, suggerendo parole per dare senso alla lettera”[58]. È così che ci buttiamo a capofitto nei primi spazi vuoti che incontriamo: (1) è stato forse un qualche uccello ad “aver fatto il nido”? (2) “sotto il nostro” davanzale forse? Presto subentra la perplessità, poiché siamo incapaci di restringere tutte le opzioni che traboccano da quel silenzio: (3) “la covata sempre” cosa? (4) e (5) cosa “delle uova è andato” e poi cosa? L’ultimo spazio vuoto, nel suo tono pratico, trasmette una fragilità particolarmente straziante: (6) “Non so chi / decide [ ] le cose”, con lo spazio vuoto che funziona come un pronome impossibile, indirizzabile, per la moglie non sa chi decide cosa – presso chi lamentarsi, ai vertici della burocrazia carceraria, chi sia in ultima analisi responsabile della detenzione di suo marito – e il silenzio che ne risulta trasmette il pathos di quell’impotenza meglio di qualsiasi parola visibile.
La fragilità della situazione è amplificata dal nido osservato, una casa fuori casa, che raddoppia l’ambiente domestico da cui la moglie scrive. Inoltre, qualcosa “delle uova è andato” (andato a male? derubato? perduto?); sembra, cioè, che manchi qualcosa, con possibilità tristi, o tragiche, che si riverberano ulteriormente con l’altrettanto insondabile assenza del marito da casa.
Raza Kolb legge “la scelta di Sharif del vuoto al posto del segno oscurante” come qualcosa che “riorienta la nostra relazione con il referente” e “[in] contrasto con l’estetica della segretezza e della trattenuta, […] suggerisce che potrebbe non esserci alcun interno-testo, nessuna verità da svelare, nessun argomento da portare alla luce”[59]. La stessa Sharif fa eco a questa lettura in un’intervista:
ciò che è vuoto per te è vuoto per me. Ho scritto con quelle lacune. Per me, questo era importante perché non stavo cercando di replicare la violenza commessa dalla Joint Task Force. Stavo cercando di aggiungervi un carico di afflizione, in realtà. E stare accanto al lettore in quell’assenza e in quel non sapere.[60]
Il “non sapere” unisce poeta e lettore, creando un noi complesso che intercetta e tenta di leggere le lettere spezzate di una moglie al marito imprigionato. Questo a prima vista potrebbe sembrare estraneo alle dinamiche di potere che hanno portato alla rottura delle lettere (dopo tutto, deve esserci qualcuno che sa cosa è successo alle parole mancanti); tuttavia, una volta che cominciamo a chiederci il motivo, tutte le risposte possibili sembrano coinvolgere noi lettori della lettera stessa, noi intercettatori di messaggi intimi pieni di buchi, noi contribuenti in ultima analisi responsabili del finanziamento dell’apparato responsabile delle cancellazioni dell’intimità, sia della lettera che della coppia che è stata separata.
Raza Kolb attira la nostra attenzione sul fatto che “la lettera finale della sequenza non è firmata – manca il ‘Tuo’ delle lettere precedenti – come se fosse scritta da un essere onnisciente, o da una collettività di massa, o da nessuno”[61]. Siamo anche noi all’interno di quella collettività? Cosa possiamo fare se ci riconosciamo come esseri interiori? E cosa dovremmo fare se ci riteniamo al di fuori? Se in un modo o nell’altro emarginati dai poteri statali, potremmo ritrovarci dentro e immediatamente simpatizzare con la coppia nella loro corrispondenza interrotta. Se relativamente privilegiati, potremmo trovarci fuori, meno vulnerabili alla logica censoria dello Stato, ma ora profondamente consapevoli del nostro vantaggio. In ogni caso, questa poesia dalla qualità interattiva non ci lascia fuori dal problema, perché cercare di completare gli spazi vuoti incompletabili porta a chiedersi in primo luogo perché esistono e chi è responsabile della lingua e della guerra, con tutti i parlanti e i contribuenti implicati. Se inizialmente la poesia rende il lettore profondamente consapevole della propria posizione interna/esterna, presto confonde tutti i lati, perché non esiste un “testo interno” come sostiene Raza Kolb, e nessun esterno neutrale o al di là della responsabilità. Forse questa è la solidarietà lirica proposta da George Abraham, o la nuova forma di poesia politica notata da Tracy K. Smith: una poesia lirica che punta meno alle divisioni e più agli intrecci.
6. Effetti collettivi
Se in “Reaching Guantánamo” il personaggio-moglie e il destinatario-Salim intrecciano fra di loro un noi che coinvolge anche il lettore, le trentuno pagine di “PERSONAL EFFECTS” aumentano ulteriormente la complessità, data la prossimità fra parlante e poeta. Qui una parlante/poeta con connotazioni di autofiction interroga una serie di fotografie che mostrano un membro della famiglia realmente esistito, morto in guerra. Anderson introduce così “PERSONAL EFFECTS”:
Meditando sulle sue radici iraniane, Sharif sonda i ricordi di uno zio morto di recente, combattendo in Iran, a partire da alcune fotografie e conversazioni con membri della sua famiglia sparpagliati dalla diaspora e produce quello che lei chiama un ‘altare sbilenco, da naufraghi, fatto di detriti linguistici che speravo mi avrebbero permesso di avvicinarmi a [mio zio]’”.[62]
I “detriti linguistici” si manifestano attraverso le diverse configurazioni della poesia, che “mescola prosa, versi e registri linguistici,”[63] disponendoli di volta in volta in posizioni diverse all’interno della pagina. La poesia segue e si sostituisce al pugno di fotografie descritte dalla poeta, aggiungendo un altro livello di significato a “PERSONAL EFFECTS”, espressione del resto inclusa nel Dizionario DOD a indicare un altro eufemismo militare (e aggiungendosi ad altri ventidue termini in minuscolo sparsi per tutto il poemetto). L’espressione “PERSONAL EFFECTS” significa velatamente la morte di un soldato i cui oggetti d’uso quotidiano vengono restituiti alla famiglia come disiecta membra, souvenir, memento mori. Taleghani nota che in quanto “elegia commovente e lirica dello zio, ucciso nella Guerra Iran-Iraq, a cui, nella poesia, ci si riferisce affettuosamente col nome di ‘Amoo’ [questi] “effetti personali […] non sono semplicemente oggetti precedentemente posseduti da un morto, ma piuttosto gli effetti e le conseguenze sofferte da quell’individuo, dalla famiglia, e dalla comunità cdi chi è morto in guerra, in tutte le guerre”[64]; conseguenze (effetti) che si manifestano attraverso gli occhi del poeta.
Leggendo le fotografie che un tempo erano appartenute ad Amoo, la parlante-poeta occupa una posizione simile a quella che noi lettori avevamo sperimentato messi davanti alle lettere di “Reaching Guantánamo”, che precedono gli “PERSONAL EFFECTS” in Look. La parlante-poeta si trova ora nella posizione di dover indovinare per riempire le righe vuote, dando così una dimostrazione di quanto sia impossibile questo tipo di progetto:
What I see are your hands
peeling apples, the skin curling
to the floor in one long unravel,
a spit-up film reel
loosened from its canister, and
I’m not even sure they are apples, quince[65]
La descrizione fotografica ben presto cede il passo a domande senza risposta, silenzi incolmabili come quelli di “Reaching Guantánamo”, con il lettore che si ritrova a condividere il modo interrogative del poeta, segnato da esitazioni trasparenti e presupposizioni confessate: “I assume you are feeding // the other men in your tent”; “Maybe the cameraman // asked you to look at him / and you couldn’t stomach / it.”[66] Data la quantità di dettagli mancanti, la parlante deve scegliere che posizione prendere prima di poter andare avanti (con la narrazione, con il lutto, con quello che non si sa):
I decide you are happy
for the knife
in your hands,
the white dust
on your bare feet. I am happy
to see your bare feet
in this photo.[67]
E così la poesia pratica una giustizia poetica: un equilibrismo che cerca di riconciliare il racconto della verità con la quantità spropositata di lacune archivistiche, di volta in volta decidendo, in modo deliberato, cosa si possa dire:
I think it’s fair to say
you want to do something
with your hands, whether
or not the photographer
placed the apples in front of you
whether or not they are
apples, whether or not
earlier that day you saw
a friend’s lungs peeking
out the back of his throat.[68]
Questo passo si conclude con la questione etica del dar voce ai morti, fino a che punto sia possibile e quanto si possa o sia lecito ricostruire a partire da un pugno di effetti personali. Siamo proprio al limite dell’affabulazione critica descritta da Hartman e che Sharif denuncia citando un altro membro della famiglia di un veterano, che dice quello che probabilmente moltissimi lettori pensano: “‘How can she write that? / She doesn’t know,’ a friend, a daughter / of a Vietnam vet, told another friend, // another daughter of a Vietnam vet.”[69]
Dal momento che il parlante, la sua amica, e l’amica dell’amica sono tutti parenti di un veterano, ecco che si mette in evidenza una collettività, anche se essere figlia di un veterano della guerra in Vietnam non è lo stesso che essere parente di un soldato ucciso nella guerra fra Iran e Iraq; una linea di demarcazione che suggerisce dislocazioni e affiliazioni culturali differenti che possono in parte spiegare i diversi approcci alle enormi lacune presenti nell’archivio. Ancora una volta, non si danno soluzioni facili o comode alla dinamica di inclusione/esclusione nella collettività implicitamente predisposta dalla poesia.
In questo passo, molto citato, di “PERSONAL EFFECTS,” la relazionalità fra io/loro/noi/tu/voi non può essere ridotta a semplice equazione:
Daily I sit
with the language
they’ve made
of our language
to NEUTRALIZE
the CAPABILITY of LOW DOLLAR VALUE ITEMS
like you.[70]
L’io-parlante e il tu-zio sono anche abbastanza chiari, ma non è così per il loro e in nostro, come scrive Anderson: “Questo disagio linguistico e culturale viene cristallizzato attraverso la giustapposizione di pronomi, ‘loro’ e ‘nostra’: l’elemento determinante, ‘la lingua,’ che appartiene a loro, denota una padronanza formale e autoritaria della lingua, che stride contro l’aggettivo possessivo isolato ‘nostra’, che allo stesso tempo significa una collettività e la sua esclusione.”[71] Abbiamo tutti una responsabilità nei confronti della nostra lingua, ma quando la usiamo per farne uno strumento di esclusione (non importa se intenzionalmente o meno), possiamo ricadere sul lato opposto, fra i loro. Anderson sottolinea l’importanza del “mettercisi davanti ogni giorno”, rinviando a un’intervista in cui Sharif dichiara: “Bisogna che uno ci dedichi un bel po’ tempo,” intendendo la fotografia sgranata riprodotta come copertina di Look:
Bisogna che uno ci dedichi un bel po’ di tempo. È un’immagine di tetti “veri”, ma è anche un’immagine impossibile da contemplare nella vita reale. […] Quell’intersezione fra la rappresentazione del “reale” – e l’ovvia impossibilità di farlo – e quel modo in cui la fotografia rivela di non essere vera è un fatto cruciale per la mia pratica di poeta documentarista.[72]
Nonostante le limitazioni dell’archivio e quelle, correlate, del lavoro di poeta documentarista come testimone della storia e delle sue lacune, Anderson qui rileva “una chiamata ad essere presenti”[73] – un modo di contemplare insieme quelle limitazioni, dal di dentro di una lingua condivisa, sentendosi abbastanza coinvolti da riconoscere il proprio potere. Qualunque parlante ha il potere di mettersi davanti alla lingua, metterla in discussione, e includersi in quel noi critico che fa da intermediario e in ultima analisi rende possibile qualsiasi comprensione reciproca fra un io e un tu. Se la lingua può essere uno strumento usato dal potere per escludere, può anche servire a diagnosticare e riparare relazioni che la guerra da interrotto, ma anche a reinventare cosa vogliamo intendere per collettività. In un altro passo di “PERSONAL EFFECTS”, messo in evidenza anche da Taleghani, Sharif ci ricorda che “Language and its expectations / teaches us / about the relationship // we would have had”[74].
7. Verso un noi intrecciato
Le conclusioni di questa riflessione sui poeti che stanno riscrivendo il significato della collettività nel XXI secolo non possono che essere provvisorie. Il loro invito aperto a lasciarsi coinvolgere dalla loro concezione del noi deve rimanere aperto. Per riassumere quell’invito, possiamo evocare un’altra voce, quella della poetessa Cynthia Dewi Oka. Nata in Indonesia e attualmente residente negli Stati Uniti, Oka ha parlato del rapporto tra storia e poesia con una modalità che sembra particolarmente utile per illuminare la considerazione di Sharif di un possibile noi nelle “relazioni // che avremmo potuto avere”.
Avendo scritto Fire Is Not a Country ([“Il fuoco non è una nazione”], 2021) come regalo per il diploma di scuola superiore per suo figlio[75], a Oka è stato chiesto, in un’intervista con Danez Smith e Franny Choi per il VS Podcast, perché fosse importante trasmettere a suo figlio quel testo e non soltanto la storia familiare:
Perché l’impulso lirico porta a costruire collegamenti […]. Vengo da un paese in cui secoli di storia sono andati persi; abbiamo avuto una dittatura autoritaria che per molti anni ha represso la ricerca, messo al bando scrittori, tutto quel genere di cose, per cui c’è un vuoto, come una lacuna; riempita poi di propaganda. […] Per questo ho divorato, quasi come un’ossessa, le storie che altri hanno scritto di loro stessi. Ma poi mi sono accorta che anche quello non era abbastanza, dal momento che ci sono questi schemi profondi che riemergono ripetutamente, a prescindere dalla comunità: il potere vuole sempre propagarsi, rimettendo in piedi i suoi troni, costantemente. E io penso che la lirica – l’invito della lirica, per dire meglio – è di mettere da parte il principio di causa-effetto; piuttosto, cerchiamo di inventarci nuove possibili relazioni.[76]
Potremmo paragonare il modo in cui le collettività definite da Mackey, Sharif e Oka si rapportano al passato e al futuro: se, per esempio, Sharif scrive “PERSONAL EFFECTS” rivolgendosi allo zio morto, riparando una relazione con un’assenza nel passato, Oka scrive a suo figlio, vivo e vegeto, proiettando la rete delle loro relazioni verso il futuro – e anzi, rendendo possibili nuovi relazioni dal momento che osano immaginarle, creando così un noi. Queste nuove relazioni possibili fra io lirico e lettore presuppongono non tanto un parlante trasparente, in attesa di essere occupato dai lettori (come teorizzava Vendler), quanto piuttosto un riconoscimento di posizionamenti non neutrali all’interno di/intorno a/attraverso quel noi. Può darsi che l’io lirico collettivo sia un processo infinito di auto-determinazione (come nel caso della poesia di Mackey), un’evocazione di presenze come spettri che mettono in discussione i canoni (come nel caso di Gumbs), oppure una comunicazione intercettata nella quale i lettori sono sempre già implicitamente presenti (come nel caso di Sharif), ma queste non sono né le uniche, né le sole modalità attraverso cui si può manifestare il noi in poesia. Sia come poeti sia come lettori, ci rendiamo ormai conto che siamo coinvolti con gli altri, anche quando non sappiamo cosa fare di queste relazioni, né che nome esattamente dar loro. Si tratta di nuove forme di solidarietà? Una poesia intitolata “Though we’ve no chance of escape, encore” [“Anche se non abbiamo possibilità di fuga, daccapo”], dalla seconda raccolta di Oka, comincia con una domanda: “And does it matter that we do not know / what to call ourselves?”[77] Quello che importa è porre la domanda, dal momento che la questione è ineludibile.
Note
[1] Data la dissimmetria tra la terminologia in lingua inglese e quella in lingua italiana, si è scelto di tradurre “self” alternativamente come “io” e “sé”, e “lyrical self” come “io lirico”. Si è optato per un simile approccio anche nel caso di altri termini, di non agevole traduzione in italiano, utilizzati in altri passi del saggio, per favorire la leggibilità del testo. Per un riscontro con l’esatta terminologia impiegata da Pittella, che pure dimostra flessibilità nel corso dell’argomentazione, si rimanda all’articolo in inglese, leggibile online sul sito di Jacket2. [N.d.T.]
[2] V. Jackson, Dickinson’s Misery: A Theory of Lyric Reading, Princeton University Press, Princeton/Oxford, 2005. Jackson ha mostrato il ruolo di non-neutralità di editori e critici nella descrizione dell’opera di Emily Dickinson come paradigmatica della poesia lirica – un paradigma subordinato alle peculiarità stesse della presentazione dei testi di Dickinson, sempre rimossi dalle loro circostanze sociali, materiali e storiche di produzione. [Come già in questo caso, anche nel resto dell’articolo si forniscono traduzioni di servizio di tutti quei testi che non siano stati immediatamente reperiti in traduzione italiana, N.d.T.]
[3] H. Vendler, Poems, Poets, Poetry: An Introduction and Anthology, Bedford Books, Boston, 1997, pp. x-xi. Ci sono varie edizioni del testo; nella terza edizione del 2018, i brani citati sono identici, anche se con una differente numerazione di pagina.
[4] Ivi, p. xi. Nella sua introduzione alla poesia lirica, Vendler non connota in alcun modo quella capacità di identificazione che è propria della lirica, limitandosi a problematizzare il “gemellaggio tra chi scrive e chi legge” nel caso in cui l’identità di chi parla sia connotata come esplicitamente diversa da quella di chi idealmente legge: “Talvolta, ovviamente, chi parla è identificato in modo più specifico, come un certo tipo di persona, o anche come un individuo”. Tuttavia, nella frase seguente, Vendler difende la generalizzazione dell’empatia: “In ogni caso, anche quando c’è una chiara disparità nella caratterizzazione individuale– come quando io, donna americana e bianca, nata nel ventesimo secolo, leggo la lirica di Blake in cui a parlare è un ragazzino nero nell’Inghilterra del XVII secolo [il riferimento è alla poesia di Blake ‘The Little Black Boy’, da Songs of Innocence, N.d.T.] – l’aspettativa del poeta lirico è che io mi metta nella posizione del ragazzino nero, e faccia mie le sue parole” (p. xi). Oltre a mettere in discussione il posizionamento dello stesso Blake come capace di parlare per “un bambino nero”, la poesia contemporanea sfida la trasparenza nell’identificazione di chi legge e di chi parla – e, di conseguenza, la presunta neutralità della lirica.
[5] Nell’articolo “Political Poetry Is Hot Again”, pubblicato sul New York Times il 10 dicembre 2018, la poeta laureata Tracy K. Smith propone una riflessione molto simile, a proposito dei cambiamenti intervenuti sui confini tra poesia lirica e poesia politica a partire dalla metà degli anni Novanta. In primo luogo, Smith si chiede se “a predisporre la poesia statunitense verso la lirica sia stato l’individualismo americano, con la sua enfasi sul primato della voce singola e della sua politica intima, interna, invisibile”. In seguito, Smith osserva come, a partire dall’11 settembre 2001, la poesia politica “sia diventata un mezzo per rispondere alla complessità dei nostri problemi, accettando la possibilità che anche noi, persone virtuose, possiamo essere coinvolti o, per certi aspetti, complici di quegli stessi mali che deprechiamo”.
[6] Ritengo l’espressione “performance dell’intimità” un antecedente delle espressioni autofiction e autotheory, etichette che oggi sono spesso utilizzate per parlare dell’opera della stessa Maggie Nelson.
[7] M. Nelson, “The Performance of Intimacy”, honors thesis, Wesleyan University, 1994, p. 126.
[8] Ivi, p. 63.
[9] “Eu sou uma anthologia” è l’incipit di un manoscritto di Pessoa datato 17 dicembre 1832; modernizzando l’ortografia in “antologia”, Pizarro e Ferrari ne hanno fatto il titolo di un volume da loro curato (pubblicato per Tinta-da-China, Lisbona, 2013), con le note biografiche e le opere dei 136 autori fittizi inventati da Pessoa.
[10] Per un’analisi del sé frammentato di Pessoa nel contesto modernista, si veda il saggio di seminale importanza di A. A. Lourenço: Identidade e Alteridade em Fernando Pessoa e António Machado: Álvaro de Campos e Juan de Mairena, Angelus Novus, Braga, 1995.
[11] W. Whitman, Leaves of Grass, Cassell and Company, Ltd., Londra, 1909, p. 95. Nel 1915, l’eteronimo futurista di Pessoa Alvaro de Campos ha firmato la sua “Saudação a Walt Whitman” (“Saluto a Walt Whitman”); cfr. F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos, a cura di Cleonice Berardinelli, Nova Fronteira, Rio de Janeiro, 1999, pp. 66-77.
[12] L’espressione è contenuta in una lettera mandata da Rimbaud a Paul Demeny e datata 15 maggio 1871, nota come “lettre du voyant” (“Lettera del veggente”) per ricordare l’imperativo della veggenza nella poetica di Rimbaud. Nell’archivio di Pessoa c’è una bozza di poesia intitolata “A Vida de Rimbaud” (“La vita di Rimbaud”), datata 26 novembre 1913, cfr. F. Pessoa, Apreciações Literárias, a cura di Pauly Ellen Bothe, INCM, Lisbona, 2013, pp. 312-13.
[13] G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, Milano, 2006 [1989], p. 100-101.
[14] P. Lewis, Space Struck, Sarabande Books, Louisville, 2019. Quando gli è stato chiesto delle sue diverse personae nel corso del VS Podcast, Lewis ha risposto: “Penso però che in tutte le me poesie gli io siano soltanto versioni diverse di me stessa”, una ars poetica che fa eco al proposito di Pessoa di sentire tutto in tutti i modi possibili. P. Lewis, “Paige Lewis vs. Tiny Things”, intervista di Franny Choi e Danez Smith, VS Podcast, Poetry Foundation, 2 giugno 2020 (min. 00:20:41-00:20:47).
[15] D. Robinson, Hungry Listening: Resonant Theory for Indigenous Sound Studies, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2020. L’espressione “orecchio di latta” era stata impiegata dal Giudice McEachern per spiegare la sua obiezione, nel corso di un processo tenutosi in Canada nel 1987, ad accogliere come prova una canzone Gitksan. Si tratta di “un’incapacità o di un esplicito rifiuto” che Robinson indica come “un ennesimo esempio dei tanti modi in cui l’ascolto è guidato dalla posizione che si occupa, intesa come intersezione fra abiti percettivi, abilità e pregiudizi” (p. 37).
[16] J. Ki-Zerbo, Éduquer ou Périr”, UNICEF-UNESCO, Parigi, 1990, p. 20. Per citare più estesamente: “Certes les Français, quant à eux, enseignaient aux petits Africains, ‘nos ancêtres les Gaulois’”.
[17] G. Abraham, “Teaching Poetry in the Palistinian Apocalypse”, Guernica, 27 settembre, 2021.
[18] J. Butler, “‘We the people’: Thoughts on Freedom of Assembly”, in A. Badiou et al., What is a People?, Columbia University Press, New York, 2016, p. 57.
[19] Ivi, p. 54.
[20] T. Smith, “Political Poetry Is Hot Again”, cit.
[21] Per una tipologia, si veda A. Marcus, “Dialogue and Authoritativeness in ‘We’ Fictional Narratives: A Bakhtinian Approach,” Partial Answers, 8.1, 2008, pp. 135-61. Marcus propone una tipologia bachtiniana del “noi” per le finzioni narrative (“autoritaria, disorientante, e polifonica”) che potrebbe tornare utile anche in poesia.
[22] Per dirla con Butler: “certamente la sovranità popolare si traduce in potere eletto in occasione del voto, ma non si tratta mai di una traduzione perfetta. Rimane sempre qualcosa di intraducibile” (J. Butler, “‘We the people’”, cit., p. 50).
[23] “[…] È stata tutta / una svolta / sbagliata oppure abbiamo preso una svolta sbagliata. Tutte le / strade portavano fuori strada e noi / anche, noi dell’interminabile deriva… Noi /eravamo loro, quelli dell’uscita immaginata…”. N. Mackey, Splay Anthem, New Directions, New York, 2006, p. 115. Si è cercato di riprodurre la stessa veste grafica della pagina originale.
[24] Il costante movimento del noi di Mackey attraverso gli spazi interni ed esterni rende indiscernibile il confine tra corpo e paesaggio, come osserva il professor Nathan Brown: “A volte si ha la sensazione che il corpo stesso sia il mondo attraverso il quale questi corpi passano, o più semplicemente potrebbe essere il mondo ad attraversarli. La frammentazione del corpo si inserisce in uno strano continuum con la ‘composizione’ del mondo” (Nathan Brown, messaggio email all’autore, 5 dicembre 2021). Ringrazio il professor Brown per aver letto e commentato una versione preliminare di questo saggio.
[25] D. Brand, A Map to the Door of No Return: notes to belonging, Vintage Canada, Toronto, 2011, p. 19.
[26] Ivi, p. 25.
[27] S. Hartman, “Venus in Two Acts,” Small Axe, 12.2, 2008, pp. 2-3.
[28] “Il sole era uno di / noi ha detto. Cosa volesse dire noi rimase / nascosto/ nello scampanio tintinnio fado, il mondo voleva soltanto / che si liberasse il suono, terremoto / portoghese, / trillo. Cosa noi non fossimo non potevamo in alcun modo / saperlo. Cosa volesse dire noi non era / chiaro, noi conteneva così tanto…”. N. Mackey, Splay Anthem, cit., p. 116.
[29] “non limbo dove eravamo, una sorta di / loop in cui eravamo… Non perduti avremmo / detto che eravamo, eravamo in perlustrazione”. Ivi, p. 74.
[30] Questa ipotesi di lettura dell’Andoumboulou come recipiente corrisponde con la fluidità di un corpo nomadico/errante i cui confini si collocano in continuità con il paesaggio in via di trasformazione, o con un sé in continua riconfigurazione attraverso il paesaggio sia interiore sia esteriore… la configurazione di un sé poroso (cfr. la già citata comunicazione del professor Nathan Brown).
[31] N. Mackey, Splay Anthem, cit., p. x.
[32] Ivi, p. xi.
[33] “Una repubblica di nessuno quella che includeva / noi / nessuna parola per dirla”. Ivi, p. 116.
[34] R. Quinn, “The Creak of Categories: Nathaniel Mackey’s Strick: Song of the Andoumboulou 16-25”, Callaloo, 23.2, 2000, p. 620.
[35] M. Simpson, “Trickster Poetics: Multiculturalism and Collectivity in Nathaniel Mackey’s Song of the Andoumboulou”, MELUS, 28.4, 2003, p. 52.
[36] A. P. Gumbs, Spill: Scenes of Black Feminist Fugitivity, Duke University Press, Durham, 2016, p. 35.
[37] Il concetto di archivio dimenticato è cruciale per il lavoro di Gumbs che, dopo Spill, ha pubblicato M Archive: After the End of the World, Duke University Press, Durham, 2018.
[38] A. P. Gumbs, Spill, p. vii.
[39] Si rimanda all’articolo online in inglese per un’immagine che riproduce questo indice, disposto sulla pagina a formare una sorta di arco o sezione di cerchio” [N.d.T.].
[40] Ivi p. v.
[41] “la terra tram sotto di noi /donne che si radunano […] / donne dirette verso casa che aggrazziate pestano i piedi / donne ingrate che affollano le poesie […] / il fuoco è pieno di donne che non si sono morse la lingua / donne che non se ne stavano ferme quelle dolci / il fuoco sta per raggiungere le donne dell’amore perso / donne che ne vale la pena quelle / che il fuoco le avvampa donne avventate del blues / donne dagli occhi neri / donne secche con le pistole / il fuoco diventa sole // qui c’è ancora tanto lavoro da fare.” Ivi, p. xi.
[42] Ivi, p. 113, p. 117.
[43] “quando lascia attraversare dio.” Ivi, p. 114.
[44] “Spiegherò a voce bassa come gli anni non vadano misurati in luce, ma in acqua.” Ivi, p. 97. Questo potere lustrale ricorda i versi di Mackey: “Non / era il ronzio ma la sensazione del lavaggio che / io / volevo”. Ringrazio il Professor Nathan Brown per avermi fatto notare questo collegamento.
[45] “Immaginati la casa. La casa sta tracimando. Ci sono mani fuori dalle finestre ma le porte sono sbarrate. Immaginati le mani. Le mani sono fondamentali. Le mani sono eloquenti stanno traducendo a segni i capelli. Immaginati i capelli. I capelli si stanno ammucchiando. I capelli stanno aiutando. I capelli prenderanno il sopravvento. Immaginati i servi. I servi inorridiscono. I loro figli stanno imparando a smantellare lo stato.” A. P. Gumbs, Spill, cit., p. 135.
[46] S. Hartman, “Venus”, cit., pp. 10-11.
[47] Ivi, p. 12. L’autore indica in nota come il concetto di “narrazione ricombinante” si debba a NourbeSe Philip e Stan Douglas.
[48] “lei non ha nessuno cui descriverlo. lei diceva onda che si infrange senza aver mai visto l’oceano. diceva fulmine, diceva aspetta e torna fra un po’, te lo faccio vedere io.” A. P. Gumbs, Spill, cit., p. 19.
[49] R. S. Taleghani, “‘Personal Effects’: Translation, Intimacy and Domestication in the Poetry of Solmaz Sharif,” MEJCC, 13.1, 2020, p. 50.
[50] G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, University of Chicago Press, Chicago, 1981, p. 7.
[51] R. S. Taleghani, “‘Personal Effects’, cit., p. 50.
[52] L. Anderson, “‘Daily I Sit / with the Language’: Solmaz Sharif’s and Philip Metres’s Documentary Poetics of War,” The Cambridge Quarterly, 49.4, 2020, p. 374.
[53] S. Sharif, Look: Poems, Graywolf Press, Minneapolis, 2016, p. 95.
[54] A. F. Raza Kolb, Epidemic Empire: Colonialism, Contagion, and Terror, 1817-2020, University of Chicago Press, Chicago, 2021, p. 281.
[55] Ivi, p. 282.
[56] L. Anderson, “‘Daily I Sit,’” cit.., p. 388. La citazione interna proviene da: A. Brady’s “Drone Poetics,” New Formations, 89/90, 2016, pp. 116-36. In quel saggio, Brady nota come nel testo di Sharif si ritrovi una “cancellazione dei termini dell’intimità dalle lettere censurate dei prigionieri di Guerra” e “la mutazione dell’intimità in presenza dello sguardo militare” (p. 123).
[57] “Caro Salim, / aver fatto il nido / sotto il nostro . E ora / la covata sempre… / Il … delle uova è andato / E riso. E tè. Non so chi decide le cose”. S. Sharif, Look, cit., p. 49.
[58] A. F. Raza Kolb, Epidemic Empire, cit., p. 283.
[59] Ibid.
[60] S. Sharif, “Afterwords // ‘Make It as Intimate as Possible’ – Solmaz Sharif at Seattle Arts & Lectures,” Poetry Northwest, 28 agosto 2019 (cfr. anche L. Anderson, “‘Daily I Sit,’” cit., p. 389).
[61] A. F. Raza Kolb, Epidemic Empire, cit., p. 284.
[62] L. Anderson, “‘Daily I Sit,’” cit., p. 374, dove si cita Solmaz Sharif, “The Kenyon Review Conversations: Solmaz Sharif,” Kenyon Review, primavera 2013.
[63] Cfr. R. S. Taleghani, ‘“Personal Effects”, cit., p. 60.
[64] Ibid.
[65] “Vedo le tue mani che / pelano mele, le bucce s’arricciano / sul pavimento in un lungo srotolarsi, // una bobina sputata via / scucita dalla sua custodia, e / non sono nemmeno sicuro fossero mele, cotogne “ S. Sharif, Look, cit., p. 79.
[66] “Do per scontato che tu stia sfamando // gli altri uomini della tua tenda”; “Forse il cameraman // ti ha chiesto di girarti dalla sua parte / e a te la cosa proprio non andava / giù.” Ibid.
[67] Decido che sei felice / con quel coltello // in mano, / la polvere bianca / sui tuoi piedi nudi. Sono felice // di vedere i tuoi piedi nudi / in questa foto.” Ibid.
[68] “Credo che si possa dire / che tu voglia fare qualcosa // con le tue mani, a prescindere / dal fatto che il fotografo / ti abbia messo davanti quelle mele // a prescindere dal fatto che siano / mele, a prescindere dal fatto che poco / prima quello stesso giorno tu abbia visto // i polmoni di un tuo amico fargli / capolino dal fondo della gola.” Ivi, p. 80.
[69] “Ma come fa a scrivere queste cose? / Lei non ne sa niente,’ un’amica, figlia / di un veterano del Vietnam, disse a un’altra amica, // un’altra figlia di un veterano del Vietnam.”Ibid.
[70] “Ogni giorno mi metto / davanti alla lingua / in cui hanno trasformato // la nostra lingua // per NEUTRALIZZARE / la CAPACITÀ di ARTICOLI A BASSO VALORE MONETARIO / come te.” Ivi, p. 64.
[71] L. Anderson, “‘Daily I Sit,’” cit., p. 379.
[72] Sharif, in “Afterwords”, citato anche in L. Anderson, “‘Daily I Sit,’” cit., p. 393.
[73] “La lingua e le sue aspettative / ci insegnano / qualcosa sulle relazioni // che avremmo potuto avere.”Ibidem. [With-ness, nell’originale: in inglese “testimone” si dice “witness”, mentre la preposizione “con” si dice “with”; da qui il gioco di parole: “with-ness” che aggiunge, all’idea di testimonianza, una di compresenza, n.d.T.]
[74] S. Sharif, Look, cit., pp. 84-85; citato in R. S. Taleghani, ‘“Personal Effects,’” cit., p. 61.
[75] C. Dewi Oka, Fire Is Not a Country: Poems, TriQuarterly Books/Northwestern University Press, Evanston, 2021.
[76] Cynthia Dewi Oka, “Cynthia Dewi Oka vs. Spectacle”, intervista a cura di Franny Choi e Danez Smith, VS Podcast, Poetry Foundation, 6 luglio 2021, 00:17:00-00:18:52.
[77] “Ma importa che non sappiamo / che nome dare a noi stessi?”C. Dewi Oka, Salvage: Poems, TriQuarterly Books/Northwestern University Press, Evanston, 2018, p. 7.
Carlos A. Pittella è un poeta Latinx che nel 2022 ha ricevuto il Frontier Global Poetry Prize. Nato a Rio de Janeiro, in Brasile, vive a Montréal/Tiohtià:ke, dove ha completato un master in letteratura e creative writing presso la Concordia University. È dottore di ricerca in studi letterari e ha difeso una tesi sui sonetti di Fernando Pessoa. I confini sono un tema costante della sua scrittura, che è stata recentemente ospitata da Jacket2, The Capilano Review, e nella plaquette footnotes after Lorca (above ground press, 2024).