di Fabio Pusterla
[LPLC si prende qualche giorno di pausa e augura a tutte le sue lettrici e i suoi lettori buone e serene feste. Verso il 31 dicembre, proporremo la consueta playlist di fine anno].
Stefano Raimondi chiude con il suo nuovo libro (L’Atalante, Valigie rosse, 2024) il lungo cammino della sua trilogia dell’abbandono, iniziata nel 2013 con Per restare fedeli (Transeuropa), continuata quattro anni più tardi con Il cane di Giacometti, e giunta ora al suo pieno compimento, proprio quando l’autore milanese compie sessant’anni. Naturalmente, come sanno i lettori di poesia, il percorso di Raimondi è molto più ampio: inizia a manifestarsi sullo smorire del secolo scorso, e prosegue poi negli ultimi vent’anni con una nutrita serie di titoli, tanto in prosa quanto sul versante critico, e con una fitta e meritoria attività di promotore e organizzatore culturale, sempre svolta a Milano o nei suoi immediati dintorni. Molto presto, almeno a partire da La città dell’orto (Casagrande, 2002), Raimondi è riuscito a definire una propria riconoscibile voce, modellata su alcuni autori italiani e stranieri, ma fondata soprattutto su un particolare modo di essere dentro la parola e dentro la vita, che appunto in questo nuovo libro appare con chiarezza.
L’abbandono che origina la trilogia sarà, come sempre accade nella poesia di Raimondi, un’esperienza concreta, dolorosamente vissuta dall’autore; e tuttavia nulla c’è in questi libri di eccessivamente soggettivo, poiché la scrittura non ha nessuna intenzione di farsi confessione o esibizione; al contrario, essa ambisce a trasformare il dato soggettivo in terreno comune, il pegno pagato dall’io in riflessione sull’essere di tutti, come suggerisce la prima strofa di un testo bellissimo, contenuto nella quarta sezione della raccolta (È questo il tempo, la mandorla meno buia):
E siamo tutti qui
per allevare e cresce qualcuno
che duri, che resti, che faccia
qualcos’altro delle nostre ossa
del nostro bianco triturato a colpi d’aria
che dica tutto a qualcuno che venga
ancora e dopo e dopo ancora sappia
raccontarci dei profili delle cose
tolte a poco a poco dal sangue
dal rimbombo di un bacio sceso
dalla bocca alla gola.
Una spia evidente di questo tentativo è di natura linguistica: la frequenza dei costrutti impersonali, in cui l’esperienza dell’io stempera la propria soggettività in un sentire di tutti: sono decine le occorrenze di un simile costrutto: «non lo si sapeva», «si tengono», «si giunge», «E non si osava», «si tremava», «Lo si faceva», Le cose non si indovinano di notte» e così via. Ma invece di un elenco completo, che sarebbe lunghissimo, basterà affidarsi a un testo in cui la suddetta trasformazione è esplicita:
È come se non fosse mai stato nostro
questo stare in concordia con le cose
con le linee della meridiana puntate
dentro i cuori. E dagli occhi appena aperti
si guarda increduli, le scorte della luce.
Crederci possibili da qui è sapere
da che parte stare fieri. Si disfano così
i nostri due nomi assenti dagli appelli.
Il motivo del bacio, che appare spesso nell’opera, insieme ai riferimenti all’acqua, sostanzia il dialogo serrato con il film di Jean Vigo, da cui deriva il titolo stesso del libro, e che viene richiamato costantemente, come un basso continuo o un orizzonte dentro il quale il dolore dell’abbandono sia in grado di tramutarsi in gioia, riscoperta e finalmente conquistata: Ma ora raccontami, te ne prego, una storia che si avveri, di quelle che non finiscono mai o che finiscono bene, come quel bacio d’acqua sì, nell’”Atalante” (così il testo in limine). Al centro di questa metamorfosi sta tuttavia una parola-concetto, che appare sin dall’apertura della prima sezione (Credere ai fondali, con evidente riferimento alla scena più celebre del film di Vigo): l’idea di perdono: A volte non ci si perdona all’inizio, ma alla fine, dagli occhi aperti dentro il sale. Due pagine più in là, riecco la parola, accolta con stupore:
…eppure non lo si sapeva
di essere perdonati, di tornare
a fare i conti con le ore serene
con i respiri perduti tra le gambe
che non fossero le nostre, quelle
sbandate vero il basso, verso l’inferno.
«Non lo si sapeva / di essere perdonati»: difficile non pensare, ma con un netto rovesciamento di segno, a un verso di Franco Fortini, dalla Prima lettera da Babilonia, di Una volta per sempre: «Non è vero che saremo perdonati». Ed è appunto nella radicale contraddizione della memoria fortiniana che affonda forse le radici il modo particolare di situarsi dentro la parola e dentro la vita a cui si accennava prima: Raimondi tende, forse da sempre, a spostare la propria attenzione dalla dall’antagonismo etico-politico alla conciliazione etico-morale, cioè al piano dell’esistenza in cui è ancora possibile o almeno sperabile costruire una forma di armoniosa condivisione. Il perdono, come risultato ultimo di un cammino attraverso la distruzione e oltre la distruzione, è il risultato più estremo di questo libro, che si lascia alle spalle le scorie metalliche e urticanti dell’abbandono:
Lasciamolo il male del perdono
Il rancore, con il suo secondo
In più per l’odio.
La coscienza del perdono, finalmente possibile e ormai avvenuto, si allea del resto a un altro ingrediente linguistico-stilistico, non certo nuovo nel linguaggio poetico di Raimondi, cioè la risemantizzazione, si potrebbe dire così, di termini che derivano dal linguaggio del sacro, come «preghiere», «battesimo», «benedizione», «miracoli» e altri ancora, qui messi al lavoro laicamente, come per disegnare il cerchio di una sacralità esistenziale, di un atteggiamento che accoglie le cose e le situazioni, anche le più aspre, in modo benevolo e stupito.
E se sulla benevolenza non sarà necessario insistere, lo stupore è invece un’altra caratteristica di questo libro: nella luce soffusa del perdono, ogni cosa appare ora come nuova, oggetto imprevisto di ammirazione e meraviglia. Anche questo aspetto si traduce in operazione linguistica: un’altra costruzione molto presente, soprattutto negli attacchi dei componimenti, è la semplicissima «ci sono»: «ci sono sogni», «ci sono volti», «ci sono giornate», «ci sono cose», «ci sono istanti». Ogni volta, la formula del «ci sono» sembra esprimere lo stupore della coscienza che si affaccia a una nuova dimensione dell’essere, a una nuova apertura della realtà e sulla realtà:
Ci sono istanti che a capirli
non raccontano più nulla
ma fanno strade, piazze, facciate
dove appendere finestre, balconi
ringhiere e non sapere quale sia
la porta, il modo di fare stanza, bocca:
l’abbraccio che fa restare stretti
fino al mattino, senza chiedersi niente
semplicemente, senza niente.
Il «ci sono» (o, altrove, «esistono») corrisponde a un sguardo disarmato e ammirato che abbraccia la vita e le sue infinite forme quotidiane; come mostra con forza l’ultima poesia del libro, a cui si può ora affidare la conclusione del discorso:
Ho visto cose strane dentro il giorno
respiri portati a mano, doglie gentili
sguardi scambiati per carezze
e una donna seduta all’Ipercoop
che allatta senza date, marche
senza scontrino e di continuo
preme la mammella con le dita
e non suona nessun allarme
quando esce, quando
non ha rubato niente.
È così l’amore.
“Raimondi tende, forse da sempre, a spostare la propria attenzione dalla dall’antagonismo etico-politico alla conciliazione etico-morale, cioè al piano dell’esistenza in cui è ancora possibile o almeno sperabile costruire una forma di armoniosa condivisione. ” (Pusterla)
E già, I poeti in tempi di guerra dell’antagonismo etico-politico se ne sbarazzano volentieri, senza rimorsi. E, come preti – ah, la “sporca religione dei poeti”! – mirano alla conciliazione etico-morale. Si perdonano, ma saranno perdonati? Temo e spero di no. Anche perché fingono di non sapere che è impossibile costruire questa benedetta “forma di armoniosa condivisione” esclusivamente sul “piano dell’esistenza”. A meno di non contentarsi di coltivare il proprio giardino poetico-esitenziale-quotidiano (se lo hai) disinteressandosi a fatti come questi: ” I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare”.