di Nicoletta Vallorani

 

A guardarlo, il viso di questa donna, sembra che finalmente sia possibile.

Che si possa cioè smascherare l’imbroglio e rimandare la vergogna al mittente. Ridurre al silenzio chi dice frasi come “Te la sei cercata” e “Se fossi stata brava non sarebbe successo”, e “A casa tua saresti stata al sicuro”.

A casa tua.

La vicenda di Gisèle Pelicot si consuma tutta nel nido protetto che si pensa sia, appunto, la tanto celebrata famiglia tradizionale. Alla fine di questa storia (che fine non è, perché Gisèle Pelicot non guarirà mai da questa ferita) è lampante che di tradizionale la famiglia ha solo il rischio di farsi custode consacrata di uno sporco segreto. Essa appare come il luogo simbolico e fattuale in cui, per un marito, è possibile drogare la moglie e darla in usufrutto a una quantità di uomini. Gli utilizzatori finali di questo corpo inerte sul quale viene esercitata la finzione di un dominio assoluto sono amici, gente per bene, carnefici insospettabili. E il marito amorevole assiste con regolarità guardinga a una violazione orrenda e compiaciuta, prezzolata, e mai interrotta.

 

Drogare.

Usufrutto.

Utilizzatori finali.

Violazione.

Prezzolata.

Mi verrebbe di evidenziare tutte queste parole chiave, come si fa su un libro che si sta studiando. Il fatto è che queste parole designano una vicenda che è accaduta, qui e ora, e quel che ne è seguito riscrive il senso stesso di termini come viltà e coraggio.

 

È una storia, quella di Gisèle Pelicot, che abbiamo sentito raccontare altre volte. Non spesso, non con l’enfasi di un fatto reale, ma l’abbiamo già sentita. È il genere di storia che sorprende, scandalizza, addolora, ma poi alla fine sappiamo che quello che stiamo leggendo è un libro, e nella vita le cose non vanno così. Persino quando ci viene detto che la vicenda è tratta da un fatto reale, tendiamo a pensare che il filtro della narrazione ne alteri i contorni: perché si sa, le donne molestate sono tutte un po’ isteriche, vedono pericoli e scandali dove non ci sono.

Esagerano.

Non bisogna mai prenderle troppo sul serio.

 

Poi succede che una di queste storie arrivi in tribunale, svelata quasi per caso. Ci arriva scivolando su quella che sembra quasi una marachella, non fosse che chi la mette a segno non ha più l’età per gli scherzi “sporchi” (ammesso che ce ne sia una). È un uomo anziano, che si presume rispettabile e che invece viene sorpreso a filmare sotto le gonne delle donne in un centro commerciale. Sembra, questa, una di quelle innocue sciocchezze che certi uomini fanno spacciandole per cosucce non troppo gravi. Ma una cosa tira l’altra, e la marachella è la punta di un iceberg. La famiglia che sembrava felice, o quanto meno serena, si svela come una trappola infida per la donna che pensava di potersi fidare di suo marito.

 

Non è la prima volta che un caso di molestie finisce sulle pagine dei giornali e in tribunale. Quel che cambia, qui, è che la vittima non si accontenta del ruolo che le viene assegnato. Non tace. Non urla neanche. È lucida. Esibisce con dignità inflessibile il peccato di Eva: disobbedisce e guarda in faccia il male nella persona dell’uomo che ha sposato e con il quale ha avuto tre figli. In lei, della fragilità che si poteva prevedere non c’è traccia. Tuttavia non bisogna fraintendere: arrivare a quella cristallina integrità è stato un lavoro durissimo, e ha significato per la donna in questione sopravvivere a una forma di morte, che le rimarrà attaccata addosso come un vestito non voluto. A seguire il processo, si comprende bene che Gisèle Pelicot osserva ogni cosa, replica a ogni domanda. Si rifiuta cioè di fare quel che enfaticamente si chiede sempre a ogni donna molestata: provare vergogna per quello che altri le hanno fatto, e per questa vergogna, tacere. Perché infrangere l’equilibrio di una famiglia? In fondo, se un parente ti molesta, probabilmente è colpa tua.

 

Vergogna è un’altra parola chiave. Disegna una prigione dalla quale non si esce.

A meno che chi si deve vergognare non sia chi ha subito la violenza, ma chi l’ha messa in atto. Però vederla così richiede una svolta radicale, e implica una perdita di controllo, il deragliamento definitivo di un’idea di famiglia alla quale ci siamo talmente abituati da trovare impensabile rimodellarla.

Quanto risulti difficile scardinare questo modello di pensiero penso siano in pochi ad averlo chiaro. Ci verrà detto che non c’è niente di nuovo: storie come quelle di Gisèle Pelicot sono già state raccontate, nei romanzi e nelle memorie di altri. Neige Sinno, per esempio, ne traccia un quadro dettagliato in Triste tigre (2023), spiegando con una sorta di gelida ineluttabilità come abbia continuato a subire violenza da parte del patrigno dai 7 (o 9, Sinno non lo ricorda bene) anni fino a quando, diciannovenne, non ha scelto di andarsene di casa. Ha impiegato tantissimo a decidere di raccontare la sua storia. Lo ha fatto allontanandosi emotivamente e geograficamente dalla sua famiglia di appartenenza, e dopo essersi costruita la sua, di famiglia, ma senza riuscire davvero a salvarsi. Il segno è rimasto, e la cicatrice sta lì, a ricordarle che qualcuno le ha tolto un diritto di scelta che non le verrà restituita. Tutte le persone che hanno subito violenza in famiglia lo dicono: è un segno che non si cancella, qualunque sia la soluzione immaginata. Lo scrive anche Neige Sinno stessa: “Ho voluto crederci, ho voluto sognare che il regno della letteratura mi avrebbe accolta come una delle tante orfane che vi trovano rifugio, ma neppure attraverso l’arte si può uscire vincitori dall’abiezione. La letteratura non mi ha salvata. Io non sono salva”.

 

In Becoming Abigail (2006), Chris Abani racconta la storia di un’altra violenza ritenuta ovvia e scontata: quella subita dalla protagonista, ancora bambina, da parte del cugino, che consuma lo stupro quasi fosse un rituale di passaggio, segreto eppure tacitamente condiviso dagli uomini del contesto domestico. Abigail, con una madre morta mettendola al mondo e un padre troppo addolorato per accorgersi della sua esistenza, cataloga questa molestia come la prima di una serie interminabile di violazioni. Anche per lei, quel che è accaduto è avvolto nel bozzolo di un silenzio comprato con appena un sacchetto di caramelle e mantenuto con una minaccia di morte. E in questo silenzio Abigail, come molte donne, lentamente muore. Intanto, in quel che resta della sua esistenza, la violenza si ripete, dalla Nigeria all’Europa, nella teoria di repliche che nel suo caso non può essere interrotta se non privandosi della vita.

 

Joyce Carol Oates racconta con una cifra diversa un fatto simile, anche quello pescato dal mondo reale e trasformato in narrazione. In Sorella mio unico amore (2008), la bambina violata è già morta all’inizio della storia. Bliss viene raccontata da Skyler, ormai più che ventenne, straziato dall’amore inconfessabile per la sorella e incapace persino di renderne la morbosità soffocante. Di Bliss resta il ricordo di un crimine orrendo, mai risolto, e il dubbio fin troppo trasparente che di quel crimine sia responsabile proprio chi in famiglia l’ha amata di più.

Un altro fratello è l’incubo di Fraya, fragile bambina e poi ragazza, che Leland ama e imprigiona, nella consapevole volontà di tenerla morbosamente agganciata alla sua passione perversa. In Il caos da cui veniamo (2020), Tiffany McDaniels racconta in parte la sua, di famiglia, dunque di nuovo narrazione visionaria e autobiografia si mescolano nello sforzo di raccontare quello che non può essere racconta e che tuttavia deve essere raccontato. “Il tuo silenzio” scrive significativamente Audre Lorde, “non ti proteggerà”.

 

E tuttavia resta la diffusa la convinzione che queste siano tutte storie, come lo sono quelle di mille altre donne mai credute e perciò esposte alla violenza dei loro uomini. Il caso Pelicot è un cambiamento enorme in questo contesto: dopo, viltà e coraggio si scambiano di posto, e la vergogna diventa un boomerang per chi ha voluto finora attribuirla alla donna che ha subito abusi.

Occorre partire da qui per riuscire a capire che non bastano qualche prima pagina di giornale e la foto di una donna coraggiosissima. C’è anche e soprattutto bisogno di una svolta culturale, un processo che credo già iniziato e che richiede un autentico impegno istituzionale e una tensione collettiva verso il cambiamento. Serve coltivare la consapevolezza della irreparabilità del danno che le persone come Gisèle Pelicot hanno subito, accompagnata dalla capacità di riconoscere che quel che è stato ucciso dalla molestia non potrà essere recuperato. Non ci sarà alcuna restituzione: semmai, uno svelamento necessario.

E servirà a chi può ancora provare a salvarsi. Non è poco.

6 thoughts on “Gisèle Pelicot. Il posto del coraggio

  1. Scusi ma non è stata la polizia a scoprire gli stupri e non Gisele Picot a denunciarli ?

  2. Certo! Ma Pelicot ha testimoniato a lungo al processo, e non si è mai nascosta. € questo il senso del ragionamento.

  3. ARCHEOLOGIA DELL’ECONOMIA E DELLA TEOLOGIA-POLITICA DOMESTICA DELLA CIVILTA’ TERRESTRE:
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    UNA DONNA E UNA MADRE ROMPE MANDA IN FRANTUMI LA “MITICA” ALLEANZA DELLA “TRAGEDIA” (“EDIPO”) E DELLA “AGRICOLTURA” (“CAINO”).
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    CRITICA DELLA “CI-VILTÀ” E DELLA “STORIA” DELLA “AGRI-COLTURA”: J.-J. ROUSSEAU. All’inizio della seconda parte del suo “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno. […]” (cfr. Jean-Jacques Rousseau, Sull’origine dell’ineguaglianza, Roma, Editori Riuniti,1968 ).
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    SE E’ VERO, COME E’ VERO, CHE “[…] Non è la prima volta che un caso di molestie finisce sulle pagine dei giornali e in tribunale. Quel che cambia, qui, è che la vittima non si accontenta del ruolo che le viene assegnato. Non tace. Non urla neanche. È lucida. Esibisce con dignità inflessibile il peccato di Eva: disobbedisce e guarda in faccia il male nella persona dell’uomo che ha sposato e con il quale ha avuto tre figli. In lei, della fragilità che si poteva prevedere non c’è traccia. Tuttavia non bisogna fraintendere: arrivare a quella cristallina integrità è stato un lavoro durissimo, e ha significato per la donna in questione sopravvivere a una forma di morte, che le rimarrà attaccata addosso come un vestito non voluto. […]”,
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    è ALTRETTANTO VERO CHE, per capire meglio la portata della riflessione e “rivelazione” epocale di Rousseau, bisogna rileggere quanto meno i poeti tragici dell’antica Grecia (Eschilo, Sofocle, ed Euripide, oltre che il libro del “Genesi”, e riconsiderare la “interpretazione” del Nome della dea Artemide data da Platone nel suo dialogo “Caratilo”:
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    “Ἄρτεμις” δὲ ‹διὰ› τὸ ἀρτεμὲς φαίνεται καὶ τὸ κόσμιον, διὰ τὴν τῆς παρθενίας ἐπιθυμίαν· ἴσως δὲ ἀρετῆς ἵστορα τὴν θεὸν ἐκάλεσεν ὁ καλέσας, τάχα δ’ ἂν καὶ ὡς τὸν ἄροτον μισησάσης τὸν ἀνδρὸς ἐν γυναικί· ἢ διὰ τούτων τι ἢ διὰ πάντα ταῦτα τὸ ὄνομα τοῦτο ὁ τιθέμενος ἔθετο τῇ θεῷ.
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    “Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l’artemes (’l’integrità’) per l’ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù (“aretes histora”) o forse anche che detesta l’aratura (“ton aroton misesases”) del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea” (406b).
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    PER RENDERE OMAGGIO a pieno a Gisèle Pelicot e a Nicoletta Vallorani, che ha “condiviso” e “condivide” con Lei, “Il posto del coraggio”, mia opinione, credo sia opportuno “scendere” nelle profondità “oceaniche” (quantomeno nella Fossa delle Marianne o nella Foresta delle Amazzoni) per meglio vedere quanto grande sia l’iceberg, di cui è stata mostrata “qui e ora”, nel cuore dell’Europa, la punta: la questione è antropologica, mitica e storica, e sollecita a uscire velocemente fuori dall’inferno e, finalmente, a riprendere il cammino (con Dante e Virgilio) e la navigazione nell’ “oceano celeste” (con Galileo e Keplero).
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    Federico La Sala

  4. P. S. UNA “NOTA” DI “RISCHIARAMENTO” SUI “RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE”, SULL’ECONOMIA POLITICA, SULLA STORIA, E SULL’ ANTROPOLOGIA …
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    “Pioniere. Ester Boserup e il ruolo delle donne in agricoltura:
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    […] Nel 1970 pubblica il suo Woman’s role in economic development, quasi un manifesto per ciò che diventerà il programma Women in development (Wid) delle Nazioni Unite.[3] Boserup descrive per i paesi in via di sviluppo un sistema di produzione agricolo in cui gradualmente le donne passano da sistemi di produzione autogestiti che le vede economicamente indipendenti, a sistemi all’europea in cui finiscono con l’essere alle dipendenze dei coniugi, senza essere retribuite. L’attacco nei confronti dei colonizzatori europei è diretto e senza mezzi termini. […]” (Marcella Corsi, “inGenere.it”, 02 Agosto 2016: https://www.ingenere.it/articoli/pioniere-ester-boserup-e-il-ruolo-delle-donne-agricoltura).
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    Federico La Sala

  5. P.S. – 2 “SAPERE AUDE!” – UN “INVITO” DELLA SECONDA META’ DELL’ OTTOCENTO A RIPRENDERE CRITICA- MENTE LE INDICAZIONI DI KANT,
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    AD USCIRE DA UN LETARGO “COSMOTEANDRICO” DI MILLENNI SUL PIANO SCIENTIFICO (FILOLOGICO, FILOSOFICO, TEOLOGICO, E SOCIOLOGICO) E A SVEGLIARSI DAL “SONNO DOGMATICO” :
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    “QUESTO antropomorfismo psicologico lo riconosciamo nelle idee di Platone come nella dialettica immanente al processo universale di Hegel e nella volontà inconscia di Schopenhauer” (HERMANN VON HELMHOLTZ, “Il pensiero della medicina”, 1877).
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    Federico La Sala

  6. P. S. -3 RIEQUILIBRARE IL CAMPO E PORTARSI OLTRE L’ ALLEANZA “ANDROCENTRICA” PLATONICO-HEGELIANA: “ESSERE, O NON ESSERE” (SHAKESPEARE), “SOCIALISMO O BARBARIE” (ROSA LUXEMBURG).
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    RIPRENDERE IL FILO DI “ARIANNA” E PORTARSI FUORI DALL’INFERNO CON DANTE E MARX. Una “indicazione” dai “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, per misurare il “disagio della civiltà” e nella civiltà (con Freud) e, possibilmente, ripensare il fondamento antropologico della stessa matematica (con Franca Ongaro Basaglia, Voce: “Donna”, Enciclopedia Einaudi, 1978):
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    “[…] La comunità non è altro che una comunità del lavoro e l’uguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta dalla comunità.
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    Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
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    Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
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    In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità. […]” (K. Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, “Proprietà privata e comunismo”, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/proprietacomunismo.html#topp).
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    Federico La Sala

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