di Gilda Policastro
[Walter Pedullà aveva 94 anni. Lascia dietro di sé un’attività indefessa e il magistero di diverse generazioni di studiosi e critici. La nostra redazione lo ricorda con un’intervista di Gilda Policastro, uscita sul trimestrale “il Reportage” nel 2017, in occasione della curatela del Meridiano dedicato a Luigi Malerba, aperto da un saggio militante e vivacissimo, com’era nello stile di uno dei massimi studiosi della letteratura comica (e non solo) del Novecento italiano].
Abbiamo incontrato Walter Pedullà nella sua casa romana, in occasione dell’uscita del “Meridiano” di Luigi Malerba, che si apre con un suo lungo e ricco saggio interpretativo. Malerba fu apprezzato da Pedullà sin dagli esordi e qui lo ricorda come critico ed estimatore della prima ora: ne esce un ritratto non solo dell’autore, ma di anni cruciali, quelli tra i Sessanta e i Settanta, della nostra letteratura e storia culturale.
Lei ha svolto molti “mestieri” legati alla cultura (critico letterario, saggista, docente universitario, finanche presidente della Rai) come oggi forse non sarebbe più possibile. Pensa sia stato merito di quei tempi o demerito degli attuali?
Non ero certamente solo, io forse ho esagerato perché avevo più bisogno, più voglia, più energia. Ero assistente alla cattedra di Debenedetti, quando mi venne affidata la rubrica di critica letteraria a “Mondo Nuovo”, il settimanale della sinistra socialista. Facevo già il professore incaricato in un Istituto Tecnico, ma accettai, malgrado il parere contrario del Maestro: preferiva che io mi dedicassi interamente all’Università. Cominciai con un’intervista a Pasolini. Nella mia vita si lega tutto quello che in rapporto alla letteratura ho fatto, compreso il teatro e la televisione. Un arcipelago di linguaggi per raccogliere i messaggi che arrivavano dalle arti alla società e così diventare cultura politica, quella che conosce la realtà per cambiarla. Io ho fatto sempre giocare in coppia letteratura e politica da quando parteggiavo per l’arte socialmente impegnata a quando mi è parso utile sperimentare forme inedite incaricate di esprimere una realtà che spesso ancora non esiste.
In effetti non solo ha disobbedito al suo maestro, ma anche nel merito della sua attività critica si è poi discostato dalle sue scelte, per esempio privilegiando la via del comico rispetto ad autori più canonici o al romanzo “monumentale”.
Il miglior modo di restare fedele a una lezione senza copiarla è l’eresia e io sono un debenedettiano eretico, peraltro con la sua benedizione. “Non devi scrivere la mia critica”, mi diceva, “bensì la tua”. E io scelsi il versante opposto: lui era dalla parte della tragedia, io, considerando la tragedia morta, ho optato per la comicità come via alla conoscenza dell’attualità. È tempo di umorismo, scrive Pirandello nel saggio omonimo, e io ho aderito alla linea, sia pure fermandomi allo stadio precedente all’umorismo, cioè al comico, il riso che smaschera le imposture. Questo mi ha portato a preferire in autori cari a Debenedetti come Bontempelli e Palazzeschi la fase giovanile, quella che accoppia il riso all’avanguardia futurista. Per intenderci, le due Vite di Bontempelli e Perelà uomo di fumo di Palazzeschi. Di recente da un inedito ho scoperto che a Debenedetti piaceva come a me il Savinio monello in cui il surrealismo e la comicità vanno a nozze feconde di opere leggere e profonde.
Poi negli anni Sessanta irrompe la Neoavanguardia…
Sono stato un compagno di strada, non un seguace della Neoavanguardia. Ci sono arrivato attraverso il neoespressionismo del vecchio Gadda e dei giovani Testori, Pasolini, Arbasino, nonché Fenoglio e D’Arrigo, che per me restano con Calvino i maggiori narratori del secondo Novecento. Quindi la Neoavanguardia, che per me è la poesia di Pagliarani e Rosselli e la narrativa di Malerba, Manganelli, Balestrini, Ferretti, Todini, Ceresa. Dovendo scegliere non ho mai avuto dubbi: il narratore sperimentale maggiore è Malerba. Lui, come dire, è un narratore-narratore, laddove Arbasino scrive romanzi-conversazione e Manganelli trattati pseudoscientifici. Mi sono riconosciuto nella strategia gnoseologica che lui riassume nella formula paradossale: “scrivo per sapere cosa penso”. Questo è infatti per me lo sperimentalismo: partire da una forma vuota per approdare ai significati con cui la letteratura comunica ai contemporanei la realtà più urgente da contestare.
Nella sua introduzione al “Meridiano” di Malerba, esordisce in modo polemico tanto con il Neorealismo che con la Neoavanguardia, in particolare in merito alla grande questione della riconversione della realtà in narrazione.
Il Neorealismo aveva fatto il suo tempo e lo aveva fatto bene in polemica col novecentismo e con l’ermetismo. Malerba lo colpisce nel tema più caro a entrambi, la civiltà contadina. Malerba la irride col linguaggio che nello stesso momento la santifica come madre di ogni civiltà. In quanto alla polemica verso la Neoavanguardia, se c’è, è nei confronti dell’ala aideologica (Giuliani, Manganelli, il primo Balestrini). A quella ideologica appartengono Pagliarani, Sanguineti e altri. Ebbene, Malerba, che tutti pongono sul versante del formalismo più radicale, a me, leggendolo per sapere cosa penso veramente di lui, risulta il narratore politico più indignato del suo ventennio magico, cioè gli anni Sessanta e Settanta. Il mio Malerba è un grande moralista che ha annegato nelle risate più strazianti la città in cui trionfa l’incomunicabilità più assurda (leggi Il serpente), l’industrializzazione più devastante (Salto mortale), l’autoritarismo più efferato (Le rose imperiali nonché Il fuoco greco e Le maschere), l’ossessione per il sesso (Il protagonista), l’architettura moderna (Fantasmi romani). La differenza tra il primo e l’ultimo Malerba? Il nostro narratore più esilarante (con Jonesco, Campanile e Zavattini) ritrova la tragedia come grottesco.
E allora il realismo, più che un punto di partenza ideologico può valere come approdo, esito?
È questo il punto: Malerba produce il più alto di realismo che si attribuisce alla Neoavanguardia ideologica. Per lui non esiste romanzo senza ideologia, nel senso però che questa bisogna andare a cercarsela dentro linguaggi che paiono non possederla. Quindi il comico, quindi il fantastico, quindi il paradosso, insomma tutto ciò che si allontana oltre l’orizzonte visibile per colpirti di sorpresa come una risata, uno scoppio d’ira, un attacco di angoscia. Un realismo dunque che non conferma l’ideologia di partenza, bensì quella assurda cui si arriva attraversando la selva delle sciocchezze che ci andiamo trasmettendo parlando.
Lei dice a un certo punto del saggio introduttivo: «almeno la sobrietà, se non è possibile il silenzio». A cosa si riferisce?
Essere sobri significa usare solo le parole indispensabili, il resto va ridotto in silenzio, cosa che meglio di tutti fa il riso. Che, come si sa, può essere voltairiano o metafisico. Un contadino butta nel pozzo la moglie che parla troppo e che pretende da lui che parli di tutto. Saggio sarebbe tacere, ma non essendo possibile, risparmiamo. Tuttavia la sobrietà è polivalente, cioè comunica molti più significati dei discorsi che rompono il silenzio. Il suo riferimento? La Bibbia o l’I Ching cinese, poche parole che esprimono idee e sentimenti diversi in relazione al lettore che le interroga.
Quali sono stati i modelli di Malerba?
All’analisi dell’inchiostro risulta presenza di Ruzzante o del Croce di Bertoldo, in maggiore percentuale Zavattini, qualcuno ha trovato tracce di Sherwood Anderson, Beckett, Kafka ma la ricerca continua. Malerba è un generatore di domande. Non è un caso se nella sua interpunzione è tanto frequente il punto interrogativo.
Malerba diceva di volersi dimettere da romanziere, per non sottostare al mercato. Lei ha mai pensato di dimettersi da critico e magari diventare romanziere?
Non ho mai scritto una poesia né un racconto: e così sia. Mi servirebbe un po’ di abilità narrativa per scrivere l’autobiografia che Rizzoli mi ha proposto e che pubblicherà alla fine del prossimo anno.
[Foto di Dino Ignani].