di Jesper Svenbro
[Da qualche settimana è uscita una riedizione del volume del filologo e poeta Jesper Svenbro, Phrasikleia. Antropologia della lettura nella Grecia antica (La vita felice), edito per la prima volta nel 1991 e da tempo fuori commercio. Il volume è a cura di Tommaso Di Dio ed è corredato da una prefazione del filosofo Carlo Sini. Pubblichiamo un estratto della nota del curatore, dal titolo Il lettore è immortale.]
Il lettore è immortale
di Tommaso Di Dio
[…] La strategia di Svenbro è semplice e potentissima e si compone sostanzialmente di due mosse. La riassumiamo qui, prima di procedere con alcune riflessioni personali. Dapprima Svenbro propone uno spostamento prospettico: partire dall’esperienza della lettura e non da quella della scrittura. Approfondendo così «il lato dell’emissione»,[1] Svenbro è in grado di ricostruire una «microsociologia della comunicazione scritta»[2] che gli permette di approdare a una tesi che l’autore riassume in queste parole:
Al momento della lettura, il lettore cede la sua voce allo scritto, allo scrittore assente. Ciò vuol dire che durante la lettura la sua voce non gli appartiene: al momento in cui rianima le lettere morte, egli appartiene allo scritto. Il lettore è lo strumento vocale di cui si serve lo scritto (lo scrittore) affinché il testo possa prendere corpo, corpo sonoro.[3]
Svenbro ha guadagnato così un punto di vista originale su di una vastissima area di documenti che erano già a conoscenza della filologia classica, ma che erano «male intesi»[4] a causa dell’abitudine di privilegiare l’esperienza della scrittura su quella della lettura, la graphé invece della phoné. Il secondo passaggio è a questo punto capitale: grazie a questa mutata prospettiva, Svenbro è in grado di inanellare, in una sola proficua collana, usi della parola scritta diversissimi fra loro, ma tutti connessi da un radicale comune, un identico cominciamento e comando[5] che presiede ovunque alla pratica della parola scritta e agisce in campi remoti dei quali Svenbro è ora in grado di mostrare la struttura portante. La scrittura non è solo lo strumento per rendere presente chi non è più,[6] sia esso il defunto o il legislatore, ma, più precisamente, è il mezzo per riarticolare la presenza dell’assente in un vero e proprio esercizio di dominio, che conquista e guida il corpo dell’esecutore e gli conferisce una peculiare soggettività. La scrittura emerge, insomma, fin dall’inizio in Grecia, come dispositivo di controllo biopolitico: è il corpo della vita (del lettore) che è catturato dalla scrittura e mosso a distanza, secondo una precisa assiologia, non solo dal governo dell’autore assente, ma dal mezzo stesso che diviene così, via via, creatore della scena entro cui il lettore può esistere. La scrittura è così lo spazio dinamico e rituale di una vera e propria trasformazione. Come emerge con chiarezza dalle pagine di Svenbro, il mondo dei morti e il mondo dei vivi, il mondo degli assenti e quello dei presenti è così reso contiguo grazie proprio al medio ambiguo e potente di una scrittura in azione. A essere scritto, di conseguenza, è letteralmente il corpo del lettore che diviene così la pagina prima, il supporto ultimo e arcaico di ogni scrittura: luogo di una penetrazione fra il visibile dei corpi (il soma, il sema) e l’invisibile di un’interiorità (la psyché) la cui giunzione è capace di generare vita al pari – se non in grado ancora maggiore – della sessualità. Svenbro ci proietta così in un universo di relazioni dove l’onomastica e la pederastia, le pratiche funerarie e la scultura, la poesia, il teatro e il tatuaggio e l’esercizio stesso della legge si sono riflessi nella pratica della scrittura e sono stati modificati dagli effetti che produce nel corpo di chi la esegue e in chi partecipa del suo nomos, ovvero della distribuzione vocale della sua cogenza.
La potenza di questa tesi e evidente, così come l’origine: Svenbro si colloca nel solco aperto dalla scuola di Costanza, che ha messo l’accento sulla dimensione del lettore e sul lavoro di ricezione del testo (Wolfgang Iser, Hans Robert Jauss); fa tesoro sia dalla grande scuola degli oralisti (Milman Parry, Albert Lord, Gregory Nagy, ma ovviamente anche Eric A. Havelock a cui il volume è dedicato), sia della tradizione antropologica e filologica francese di cui è erede diretto (Jean-Pierre Vernant, Marcel Detienne), ma anche della prospettiva dispiegata dalla filosofia, in particolare da Michel Foucault e Jacques Derrida. Pur restando aderente ai metodi di un’ineccepibile disciplina filologica, Svenbro mostra come la compromissione fra i saperi non sia in antitesi con l’approfondimento disciplinare: la contaminazione reciproca fra studi sull’immagine e sulla parola, fra storia dell’arte, filosofia, filologia, poesia e antropologia, quando sapientemente uniti, genera una visione inedita e capace di immettere in circolo nuove dimensioni della conoscenza. Non è un caso che alla riedizione del volume si sia felicemente deciso di accostare un contributo di Carlo Sini che testimonia come il saggio di Svenbro abbia agito proficuamente nella ricerca di uno dei massimi pensatori italiani, che proprio a partire da una meditazione sulla pratica della scrittura e sui suoi effetti ha fondato un cammino di conoscenza fra i più straordinari degli ultimi decenni. Ma i lettori di questo volume potranno ampliare la conoscenza degli effetti di questo saggio, leggendo le pagine che l’antropologo Carlo Severi ha dedicato a Svenbro e alla sua interpretazione della statua di Phrasikleia che apre il volume.[7] Come pochi altri, Carlo Severi ha rivoluzionato lo studio dello sciamanesimo e ha approfondito la semiotica della parola in azione nella dimensione rituale, la sua capacità di costruire identità metamorfiche nella interazione fra memoria, immagine e parola. Nella sua ricerca sulla “parola prestata” non poteva non incontrare il saggio di Svenbro e darne una lettura originale.
Ma la raggera di slanci che questo saggio innesca non finisce qui. Infatti la forza della tesi di Svenbro mi sembra possa agire anche oggi su chi scrive: e in particolare su chi scrive poesia. Svenbro se ne occupa direttamente nel nostro volume quando fa interagire la propria tesi con uno dei testi più celebri di Saffo, ovvero il frammento 31 Lobel-Page.[8] L’opera di Saffo si pone fin da subito come un luogo d’eccellenza per l’esercizio ermeneutico di Svenbro, in quanto vi appare fin dal primo verso il pronome di prima persona singolare «io». Come nota l’autore, con Saffo ci situiamo in una fase di transizione, in un ambiguo crepuscolo che vede il passaggio fra una tradizione poetica orale più che consolidata e la consapevolezza nascente degli effetti innovativi delle pratiche di scrittura. Tanto che Svenbro può scrivere: «la poesia è un campo decisamente pericoloso per chi vuole studiare gli effetti della scrittura sull’enunciazione».[9] Ci troviamo in un contesto in cui la scrittura è ancora un’innovazione tecnica rara, posseduta (e presidiata) da un’élite ristretta; per cui, nei testi di questa epoca, i segnali dell’enunciazione («io», «qui», «ora») sono quasi sempre quelli della poesia orale, ovvero trascrivono direttamente «la voce viva del poeta o dell’aedo che parla in prima persona».[10] La parola poetica scritta è per lo più del tutto vicaria e accessoria (hypomnémata) di quanto è avvenuto nella parola viva di una performance. Con Saffo però, come dimostra Svenbro, ci troviamo in un crinale di trasformazione.
La poesia per la poeta di Lesbo inizia a essere anche scritta, non solo letta e l’atto della scrittura e i suoi potenziali effetti divengono dunque presenti alla sua consapevolezza mentre sta componendo il tessuto della parola e ne modificano radicalmente la forma e il contenuto. Il testo di Saffo insomma è proprio un testo: non più solo mera trascrizione di una performance orale che è accaduta nel passato, ora il testo si colloca e si offre come vero e proprio mezzo di un’esecuzione futura, che sarà contemporanea a suoi lettori e non più a chi l’ha predisposta e scritta. Quello che accade nella poesia Saffo, in questo senso, ci riguarda da vicino. Saffo si situa in un’alba che non ha smesso di illuminare la nostra epoca: e che è, anzi, più presente che mai. Per via della rivoluzione mediatica del Novecento, radiofonica prima, televisiva e digitale poi, la dimensione orale della scrittura è tornata a diffondersi ovunque nella nostra esperienza con sempre maggiore forza. Se siamo tutti figli della scrittura, siamo anche – e sempre più – figli di una scrittura oralizzata e condivisa mediante pervasivi strumenti audiovisivi, che trasportiamo ovunque dentro le nostre tasche e che incontriamo dappertutto sugli schermi in cui ci imbattiamo costantemente. Le voci sono ovunque e si intrecciano alle scritture in una sorta di groviglio di serpenti: viviamo in un contesto di costante riproduzione delle voci scritte e di scrittura delle voci udite, in cui assenti e presenti, passati e contemporanei, vivi e morti, si mischiano gli uni agli altri e alternano le loro apparizioni intrecciandosi sulla scena della nostra mente.[11] In questo senso la poesia di Saffo ci mostra una consapevolezza arcaica, archetipica, iniziale e iniziatica, che può esserci utile.
Se per noi, alfabetizzati fin dai primi anni dopo la nascita, la scrittura è divenuta uno strumento neutrale e inavvertito, a tal punto integrato con la nostra vita da diventare invisibile nei suoi effetti, per Saffo non lo è mai: si avvicina al dispositivo della scrittura con piena consapevolezza di ciò che è capace di fare. Secondo Svenbro, Saffo sente la scrittura, ne avverte la paura, i rischi, la potenza; per Saffo, la scrittura ha una consistenza fisica e palpabile che fa sì che non smetta mai di avvertirla come strumento e corposo frammezzo fisico fra gli agenti del linguaggio, ora divisi non solo dallo spazio fisico di un’esecuzione dal vivo, ma anche inesorabilmente da un tempo che separa ciò che è stato (scritto) da ciò che ora è (letto). Proprio in virtù della consapevolezza fisica del diaframma della scrittura, come dimostra Svenbro, Saffo predispone attivamente il campo della sua azione poetica. L’articolazione retorica del frammento 31 è così tutta prodotta a partire da questa consapevolezza, consapevolezza terribile e angosciosa, che le si dispiega proprio in quanto generata della potenza stessa della scrittura, a cui nondimeno essa non rinuncia. Scrive Svenbro: «Saffo capisce che sarà assente, addirittura morta, per il fatto stesso di scrivere».[12] La scrittura consegna la vita di chi scrive a un destino fatalmente passato, a essere un factum che non è più in fieri. «Scrivendo la poesia, Saffo perde la voce» e per questo, mentre scrive, avvertendo il transito verso la morte a cui la scrittura la consegna, dice di sé che «non riesce più a parlare». Il testo di Saffo, in questo senso, non è più la trascrizione vicaria di una performance, ma non è più nemmeno l’incisione su pietra di un’epigrafe che prende parola al posto del morto e che lo indica come «egli». Pur provenendo da entrambe queste dimensioni aurorali della scrittura greca, il testo di Saffo, la sua peculiare grafia, si dispone già a essere qualcosa di completamente diverso: lo strumento di una rievocazione futura in cui chi dice «io» sa che avrà bisogno di un esecutore della propria scrittura e, al contempo, sa che quell’egli che pronuncerà l’«io» del testo avrà di fronte non più Saffo rediviva nella voce che le ha prestato, ma solo i segni della sua scrittura che rimandano fatalmente alla Saffo che fu. Nel momento in cui l’autrice trascrive la propria voce, il mezzo stesso genera così un effetto duplice. Da un lato, la scrittura assegna la vita dell’autrice a un futuro e così procrastina la sua forza, la rilancia: le dà una vita sonora inaspettata e sorprendente, capace di vincere la durata precaria assegnata ai corpi umani; eppure, nel medesimo tempo, la scrittura la consegna inesorabilmente alla morte, a una morte saputa nella parola e grazie a essa: Saffo, scrivendo, piegandosi al potente mezzo della grafia, diviene così l’autrice morta di un brano che, ora e nel futuro, sarà letto da un egli che, dicendo «io», ne constaterà l’assenza. […]
Note
[1] Jesper Svenbro, Phrasikleia. Storia della lettura nella Grecia antica, La vita felice, Milano, 2024, p. 20.
[2] Ivi, p. 22
[3] Ivi, p. 21.
[4] Ivi. p. 22
[5] È la celebre espressione di Derrida: «archè, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano – principio fisico, storico o ontologico – ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato»; in Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Milano, 1996, p. 11.
[6] Da questo punto di vista Svenbro riprende direttamente Vernant e i suoi studi sul kolossus. Si veda Vernant, La figura dei morti II, in Figure, idoli, maschere, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 77.
[7] Carlo Severi, La parole prêtée. Comment parlent les images, in Parole en actes, Cahiers 05 d’anthropologie sociale, L’Herne, Paris, 2009, pp. 11-41.
[8] Svenbro cit., p. 224.
[9] Ivi, p. 223.
[10] Ibidem.
[11] È la nota tesi di Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 191 e seguenti. Si veda anche Gabriele Frasca, La lettera che muore, Luca Sossella Editore, Roma, 2005.
[12] Svenbro cit., p. 228.
ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. DAL DIALOGO (DALLA CULTURA ORALE), ALLA (CIVILTA’ DELLA) SCRITTURA, E ALLA LETTURA (DELLA “IA”). Una indicazione “manzoniana” per dare una ultima “chance” ai “Promessi Sposi”, uscire dall’inferno e vincere la morte..
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CHI LEGGE UN TESTO PUO’ RISALIRE LA CORRRENTE E COME UN SALMONE PUO’ RITROVA LA VIA DELLA SORGENTE E LA MEMORIA STESSA DEL SUO “LOGOS” DI NASCITA, AL DI LA’ DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO!
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A quanto sembra di poter capire, dalla nota di Tommaso Di Dio, curatore dell’opera di Jesper Svenbro, “Phrasikleia. Storia della lettura nella Grecia antica” (La vita felice, Milano, 2024: https://www.lavitafelice.it/scheda-libro/jesper-svenbro/phrasikleia-9788893468237-618928.html), un brillante commento della ragione antropologica (“arche-o-logica”) di questa teoria della “lettura” è rintracciabile in una scena memorabile del film di Steven Spielberg, intitolato “AMISTAD”. “Provare”, per vedere, che significa “scrivere” e non saper più “leggere”!
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“AMISTAD” (STEVEN SPIELBERG (1997): IL PROCESSO. La sequenza relativa a “Ciò che siamo è ciò che eravamo – Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci” (https://www.youtube.com/watch?v=LccwgP3s2vI).
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A mio parere, inoltre, la ricerca di Jesper Svenbro riapre la strada, per ricomprendere meglio non solo l’opera di Dante Alighieri e di Ferdinand de Saussure, ma anche dello “Eric A. Havelock a cui il volume è dedicato”, “Preface to Plato” (Oxford 1963: https://monoskop.org/images/0/0d/Havelock_Eric_A_Preface_to_Plato.pdf), e dello stesso Platone e della intera civiltà della “scrittura” sacra e profana, atea e devota.
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Federico La Sala