di Jesper Svenbro

 

[Da qualche settimana è uscita una riedizione del volume del filologo e poeta Jesper Svenbro, Phrasikleia. Antropologia della lettura nella Grecia antica (La vita felice), edito per la prima volta nel 1991 e da tempo fuori commercio. Il volume è a cura di Tommaso Di Dio ed è corredato da una prefazione del filosofo Carlo Sini. Pubblichiamo un estratto della nota del curatore, dal titolo Il lettore è immortale.]

 

Il lettore è immortale

di Tommaso Di Dio

 

[…] La strategia di Svenbro è semplice e potentissima e si compone sostanzialmente di due mosse. La riassumiamo qui, prima di procedere con alcune riflessioni personali. Dapprima Svenbro propone uno spostamento prospettico: partire dall’esperienza della lettura e non da quella della scrittura. Approfondendo così «il lato dell’emissione»,[1] Svenbro è in grado di ricostruire una «microsociologia della comunicazione scritta»[2] che gli permette di approdare a una tesi che l’autore riassume in queste parole:

Al momento della lettura, il lettore cede la sua voce allo scritto, allo scrittore assente. Ciò vuol dire che durante la lettura la sua voce non gli appartiene: al momento in cui rianima le lettere morte, egli appartiene allo scritto. Il lettore è lo strumento vocale di cui si serve lo scritto (lo scrittore) affinché il testo possa prendere corpo, corpo sonoro.[3]

 

Svenbro ha guadagnato così un punto di vista originale su di una vastissima area di documenti che erano già a conoscenza della filologia classica, ma che erano «male intesi»[4] a causa dell’abitudine di privilegiare l’esperienza della scrittura su quella della lettura, la graphé invece della phoné. Il secondo passaggio è a questo punto capitale: grazie a questa mutata prospettiva, Svenbro è in grado di inanellare, in una sola proficua collana, usi della parola scritta diversissimi fra loro, ma tutti connessi da un radicale comune, un identico cominciamento e comando[5] che presiede ovunque alla pratica della parola scritta e agisce in campi remoti dei quali Svenbro è ora in grado di mostrare la struttura portante. La scrittura non è solo lo strumento per rendere presente chi non è più,[6] sia esso il defunto o il legislatore, ma, più precisamente, è il mezzo per riarticolare la presenza dell’assente in un vero e proprio esercizio di dominio, che conquista e guida il corpo dell’esecutore e gli conferisce una peculiare soggettività. La scrittura emerge, insomma, fin dall’inizio in Grecia, come dispositivo di controllo biopolitico: è il corpo della vita (del lettore) che è catturato dalla scrittura e mosso a distanza, secondo una precisa assiologia, non solo dal governo dell’autore assente, ma dal mezzo stesso che diviene così, via via, creatore della scena entro cui il lettore può esistere. La scrittura è così lo spazio dinamico e rituale di una vera e propria trasformazione. Come emerge con chiarezza dalle pagine di Svenbro, il mondo dei morti e il mondo dei vivi, il mondo degli assenti e quello dei presenti è così reso contiguo grazie proprio al medio ambiguo e potente di una scrittura in azione. A essere scritto, di conseguenza, è letteralmente il corpo del lettore che diviene così la pagina prima, il supporto ultimo e arcaico di ogni scrittura: luogo di una penetrazione fra il visibile dei corpi (il soma, il sema) e l’invisibile di un’interiorità (la psyché) la cui giunzione è capace di generare vita al pari – se non in grado ancora maggiore – della sessualità. Svenbro ci proietta così in un universo di relazioni dove l’onomastica e la pederastia, le pratiche funerarie e la scultura, la poesia, il teatro e il tatuaggio e l’esercizio stesso della legge si sono riflessi nella pratica della scrittura e sono stati modificati dagli effetti che produce nel corpo di chi la esegue e in chi partecipa del suo nomos, ovvero della distribuzione vocale della sua cogenza.

 

La potenza di questa tesi e evidente, così come l’origine: Svenbro si colloca nel solco aperto dalla scuola di Costanza, che ha messo l’accento sulla dimensione del lettore e sul lavoro di ricezione del testo (Wolfgang Iser, Hans Robert Jauss); fa tesoro sia dalla grande scuola degli oralisti (Milman Parry, Albert Lord, Gregory Nagy, ma ovviamente anche Eric A. Havelock a cui il volume è dedicato), sia della tradizione antropologica e filologica francese di cui è erede diretto (Jean-Pierre Vernant, Marcel Detienne), ma anche della prospettiva dispiegata dalla filosofia, in particolare da Michel Foucault e Jacques Derrida. Pur restando aderente ai metodi di un’ineccepibile disciplina filologica, Svenbro mostra come la compromissione fra i saperi non sia in antitesi con l’approfondimento disciplinare: la contaminazione reciproca fra studi sull’immagine e sulla parola, fra storia dell’arte, filosofia, filologia, poesia e antropologia, quando sapientemente uniti, genera una visione inedita e capace di immettere in circolo nuove dimensioni della conoscenza. Non è un caso che alla riedizione del volume si sia felicemente deciso di accostare un contributo di Carlo Sini che testimonia come il saggio di Svenbro abbia agito proficuamente nella ricerca di uno dei massimi pensatori italiani, che proprio a partire da una meditazione sulla pratica della scrittura e sui suoi effetti ha fondato un cammino di conoscenza fra i più straordinari degli ultimi decenni. Ma i lettori di questo volume potranno ampliare la conoscenza degli effetti di questo saggio, leggendo le pagine che l’antropologo Carlo Severi ha dedicato a Svenbro e alla sua interpretazione della statua di Phrasikleia che apre il volume.[7] Come pochi altri, Carlo Severi ha rivoluzionato lo studio dello sciamanesimo e ha approfondito la semiotica della parola in azione nella dimensione rituale, la sua capacità di costruire identità metamorfiche nella interazione fra memoria, immagine e parola. Nella sua ricerca sulla “parola prestata” non poteva non incontrare il saggio di Svenbro e darne una lettura originale.

 

Ma la raggera di slanci che questo saggio innesca non finisce qui. Infatti la forza della tesi di Svenbro mi sembra possa agire anche oggi su chi scrive: e in particolare su chi scrive poesia. Svenbro se ne occupa direttamente nel nostro volume quando fa interagire la propria tesi con uno dei testi più celebri di Saffo, ovvero il frammento 31 Lobel-Page.[8] L’opera di Saffo si pone fin da subito come un luogo d’eccellenza per l’esercizio ermeneutico di Svenbro, in quanto vi appare fin dal primo verso il pronome di prima persona singolare «io». Come nota l’autore, con Saffo ci situiamo in una fase di transizione, in un ambiguo crepuscolo che vede il passaggio fra una tradizione poetica orale più che consolidata e la consapevolezza nascente degli effetti innovativi delle pratiche di scrittura. Tanto che Svenbro può scrivere: «la poesia è un campo decisamente pericoloso per chi vuole studiare gli effetti della scrittura sull’enunciazione».[9] Ci troviamo in un contesto in cui la scrittura è ancora un’innovazione tecnica rara, posseduta (e presidiata) da un’élite ristretta; per cui, nei testi di questa epoca, i segnali dell’enunciazione («io», «qui», «ora») sono quasi sempre quelli della poesia orale, ovvero trascrivono direttamente «la voce viva del poeta o dell’aedo che parla in prima persona».[10] La parola poetica scritta è per lo più del tutto vicaria e accessoria (hypomnémata) di quanto è avvenuto nella parola viva di una performance. Con Saffo però, come dimostra Svenbro, ci troviamo in un crinale di trasformazione.

 

La poesia per la poeta di Lesbo inizia a essere anche scritta, non solo letta e l’atto della scrittura e i suoi potenziali effetti divengono dunque presenti alla sua consapevolezza mentre sta componendo il tessuto della parola e ne modificano radicalmente la forma e il contenuto. Il testo di Saffo insomma è proprio un testo: non più solo mera trascrizione di una performance orale che è accaduta nel passato, ora il testo si colloca e si offre come vero e proprio mezzo di un’esecuzione futura, che sarà contemporanea a suoi lettori e non più a chi l’ha predisposta e scritta. Quello che accade nella poesia Saffo, in questo senso, ci riguarda da vicino. Saffo si situa in un’alba che non ha smesso di illuminare la nostra epoca: e che è, anzi, più presente che mai. Per via della rivoluzione mediatica del Novecento, radiofonica prima, televisiva e digitale poi, la dimensione orale della scrittura è tornata a diffondersi ovunque nella nostra esperienza con sempre maggiore forza. Se siamo tutti figli della scrittura, siamo anche – e sempre più – figli di una scrittura oralizzata e condivisa mediante pervasivi strumenti audiovisivi, che trasportiamo ovunque dentro le nostre tasche e che incontriamo dappertutto sugli schermi in cui ci imbattiamo costantemente. Le voci sono ovunque e si intrecciano alle scritture in una sorta di groviglio di serpenti: viviamo in un contesto di costante riproduzione delle voci scritte e di scrittura delle voci udite, in cui assenti e presenti, passati e contemporanei, vivi e morti, si mischiano gli uni agli altri e alternano le loro apparizioni intrecciandosi sulla scena della nostra mente.[11] In questo senso la poesia di Saffo ci mostra una consapevolezza arcaica, archetipica, iniziale e iniziatica, che può esserci utile.

 

Se per noi, alfabetizzati fin dai primi anni dopo la nascita, la scrittura è divenuta uno strumento neutrale e inavvertito, a tal punto integrato con la nostra vita da diventare invisibile nei suoi effetti, per Saffo non lo è mai: si avvicina al dispositivo della scrittura con piena consapevolezza di ciò che è capace di fare. Secondo Svenbro, Saffo sente la scrittura, ne avverte la paura, i rischi, la potenza; per Saffo, la scrittura ha una consistenza fisica e palpabile che fa sì che non smetta mai di avvertirla come strumento e corposo frammezzo fisico fra gli agenti del linguaggio, ora divisi non solo dallo spazio fisico di un’esecuzione dal vivo, ma anche inesorabilmente da un tempo che separa ciò che è stato (scritto) da ciò che ora è (letto). Proprio in virtù della consapevolezza fisica del diaframma della scrittura, come dimostra Svenbro, Saffo predispone attivamente il campo della sua azione poetica. L’articolazione retorica del frammento 31 è così tutta prodotta a partire da questa consapevolezza, consapevolezza terribile e angosciosa, che le si dispiega proprio in quanto generata della potenza stessa della scrittura, a cui nondimeno essa non rinuncia. Scrive Svenbro: «Saffo capisce che sarà assente, addirittura morta, per il fatto stesso di scrivere».[12] La scrittura consegna la vita di chi scrive a un destino fatalmente passato, a essere un factum che non è più in fieri. «Scrivendo la poesia, Saffo perde la voce» e per questo, mentre scrive, avvertendo il transito verso la morte a cui la scrittura la consegna, dice di sé che «non riesce più a parlare». Il testo di Saffo, in questo senso, non è più la trascrizione vicaria di una performance, ma non è più nemmeno l’incisione su pietra di un’epigrafe che prende parola al posto del morto e che lo indica come «egli». Pur provenendo da entrambe queste dimensioni aurorali della scrittura greca, il testo di Saffo, la sua peculiare grafia, si dispone già a essere qualcosa di completamente diverso: lo strumento di una rievocazione futura in cui chi dice «io» sa che avrà bisogno di un esecutore della propria scrittura e, al contempo, sa che quell’egli che pronuncerà l’«io» del testo avrà di fronte non più Saffo rediviva nella voce che le ha prestato, ma solo i segni della sua scrittura che rimandano fatalmente alla Saffo che fu. Nel momento in cui l’autrice trascrive la propria voce, il mezzo stesso genera così un effetto duplice. Da un lato, la scrittura assegna la vita dell’autrice a un futuro e così procrastina la sua forza, la rilancia: le dà una vita sonora inaspettata e sorprendente, capace di vincere la durata precaria assegnata ai corpi umani; eppure, nel medesimo tempo, la scrittura la consegna inesorabilmente alla morte, a una morte saputa nella parola e grazie a essa: Saffo, scrivendo, piegandosi al potente mezzo della grafia, diviene così l’autrice morta di un brano che, ora e nel futuro, sarà letto da un egli che, dicendo «io», ne constaterà l’assenza. […]

 

Note

 

[1] Jesper Svenbro, Phrasikleia. Storia della lettura nella Grecia antica, La vita felice, Milano, 2024, p. 20.

[2] Ivi, p. 22

[3] Ivi, p. 21.

[4] Ivi. p. 22

[5] È la celebre espressione di Derrida: «archè, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano – principio fisico, storico o ontologico – ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato»; in Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Milano, 1996, p. 11.

[6] Da questo punto di vista Svenbro riprende direttamente Vernant e i suoi studi sul kolossus. Si veda Vernant, La figura dei morti II, in Figure, idoli, maschere, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 77.

[7] Carlo Severi, La parole prêtée. Comment parlent les images, in Parole en actes, Cahiers 05 d’anthropologie sociale, L’Herne, Paris, 2009, pp. 11-41.

[8] Svenbro cit., p. 224.

[9] Ivi, p. 223.

[10] Ibidem.

[11] È la nota tesi di Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 191 e seguenti. Si veda anche Gabriele Frasca, La lettera che muore, Luca Sossella Editore, Roma, 2005.

[12] Svenbro cit., p. 228.

8 thoughts on “Phrasikleia. Antropologia della lettura nella Grecia antica

  1. ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. DAL DIALOGO (DALLA CULTURA ORALE), ALLA (CIVILTA’ DELLA) SCRITTURA, E ALLA LETTURA (DELLA “IA”). Una indicazione “manzoniana” per dare una ultima “chance” ai “Promessi Sposi”, uscire dall’inferno e vincere la morte..
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    CHI LEGGE UN TESTO PUO’ RISALIRE LA CORRRENTE E COME UN SALMONE PUO’ RITROVA LA VIA DELLA SORGENTE E LA MEMORIA STESSA DEL SUO “LOGOS” DI NASCITA, AL DI LA’ DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO!
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    A quanto sembra di poter capire, dalla nota di Tommaso Di Dio, curatore dell’opera di Jesper Svenbro, “Phrasikleia. Storia della lettura nella Grecia antica” (La vita felice, Milano, 2024: https://www.lavitafelice.it/scheda-libro/jesper-svenbro/phrasikleia-9788893468237-618928.html), un brillante commento della ragione antropologica (“arche-o-logica”) di questa teoria della “lettura” è rintracciabile in una scena memorabile del film di Steven Spielberg, intitolato “AMISTAD”. “Provare”, per vedere, che significa “scrivere” e non saper più “leggere”!
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    “AMISTAD” (STEVEN SPIELBERG (1997): IL PROCESSO. La sequenza relativa a “Ciò che siamo è ciò che eravamo – Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci” (https://www.youtube.com/watch?v=LccwgP3s2vI).
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    A mio parere, inoltre, la ricerca di Jesper Svenbro riapre la strada, per ricomprendere meglio non solo l’opera di Dante Alighieri e di Ferdinand de Saussure, ma anche dello “Eric A. Havelock a cui il volume è dedicato”, “Preface to Plato” (Oxford 1963: https://monoskop.org/images/0/0d/Havelock_Eric_A_Preface_to_Plato.pdf), e dello stesso Platone e della intera civiltà della “scrittura” sacra e profana, atea e devota.
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    Federico La Sala

  2. P. S. – UN PASSO INDIETRO PER SALTARE MEGLIO: DALLA “CIVILTA DELLA SCRITTURA” ALLA “CULTURA ORALE”.
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    UN INVITO A RIASCOLTARE «LA VOCE DELLA SPOLA NEL “TEREO” DI SOFOCLE» (ARISTOTELE), REIMPARARE COME MEGLIO “FARE LA SPOLA”, E, ANTROPOLOGICAMENTE, CONTRIBUIRE A “CONCEPIRE” UN ALTRO MODO DI “TESSERE” IL RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE, «IN GENERALE» …
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    “PHRASIKLEIA” (JESPER SVENBRO, 2024). Per dare maggiore respiro (e comprensione) al lavoro fatto intorno alla “storia della lettura nella antica Grecia”, forse , è opportuno e necessario riprendere il “filo” r-accolto dallo stesso Svenbro, relativo a «una metafora dal “Tereo” di Sofocle: “phoné kerkidos”, la voce della spola» (op. cit, ), e, riportarlo in un “ambiente” e in un “con-testo” più consono all’altezza dei risultati già acquisiti con la sua proposta di “lettura” della Lettura, proprio quello della tessitura (cioè, della “scrittura”, prima della stessa scrittura alfabetica).
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    LA TESSITURA, LA NASCITA DEL CANTO, E L’ ORIGINE DELLA TRAGEDIA . In una interessante nota del “Gruppo di Donna Oltre”, Antonella Piselli sollecita a guardare su un percorso storico di lunga durata e sollecita a riflettere sulla “spola” che corre tra la “tessitura” e la “scrittura”:
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    ” […] Il termine tessile sembra quindi riferirsi, prima ancora dell’invenzione della scrittura, al contenuto che viene messo per iscritto, ma nel tessuto. Cantare il testo era una metafora (testo narrativo e letterario, inteso come tessuto, quindi era costruire un testo, mentre si tesseva).
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    Evel Gasparini, nel suo saggio “chansons à toile”, ha più volte sostenuto la stretta associazione, originaria, tra il tessere e il cantare. Il lavoro di tessitura, quindi, nell’antichità, era accompagnato dal canto.
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    Omero descrive Calipso mentre canta durante la tessitura:
    “Ella cantando con leggiadra voce
    Fra i tesi fili nell’ordita tela
    Lucida spola d’or lanciando andava”
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    Tessendo, canta anche Circe:
    “Circe che dentro
    Canterellava con leggiadra voce
    Ed un’ampia tessea lucida, fina
    Maravigliosa, immortal tela”.
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    Canta anche la tessitrice romana:
    “Adsidue textrix operata minervam cantat, et appulso tela sonat latere”
    (La tessitrice, costantemente al lavoro, canta Minerva, e il rumore dei suoi telai riecheggia lateralmente).
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    Cantano le tessitrici in Russia e nei Balcani. Cantano le tessitrici francesi dell’età cortese, che diviene un genere letterario (chansons à toile).
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    Il latino “carmen” , una “formula ritmica, canto”, non è un caso se coincide con “carmen”, lo strumento per cardare.
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    Anche l’abilissima tessitrice Aracne, la figlia di Idmone, in Ovidio, è il simbolo della composizione storica e poetica. Alla pianta del lino (linon) si fa riferimento al nome di Lino (linos), che fu il più grande musicista tra gli uomini. Ma il Dio Apollo, invidioso della sua abilità, lo uccise. […]” (cfr. Antonella Piselli, “La tessitura e la nascita del canto”, 22 gennaio 2025: https://www.facebook.com/groups/573458883259092?multi_permalinks=1638303653441271).
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    L’indicazione appare essere importante sia antropologicamnte sia storiograficamente, anche alla luce degli studi di Evelino Gasparini, che, analizzando la letteratura russa, “da un punto di vista marcatamente antropologico”, giunse a queste conclusioni degne di attenzione:
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    “La civiltà russa, ma non solo russa, si dispone per il G. in “quattro stratificazioni successive, che non solo si sono sovrapposte, ma sono in parte sfumate l’una nell’altra”.
    Il primo strato è quello della “civiltà primitiva” dalla durata “immensa”; il secondo strato è quello della “civiltà agraria”, caratterizzata da una agricoltura femminile di zappa (è infatti di pertinenza femminile il più antico attrezzo agricolo slavo: la zappa faceva parte del corredo in dote alle spose). La terza fase è contrassegnata dalle trasformazioni dovute alla comparsa degli Indoeuropei: in essa l’uomo, con aratro e carro, si impadronisce delle coltivazioni femminili e le collettivizza affidandole all’opera maschile. L’ultima fase – IX e X secolo d.C. – vede l’acquisizione della civiltà urbana e statale.
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    Alla luce di queste strutture antiche, che non scompaiono ma rimangono vive per riaffiorare in modi e tempi diversi, il G. rivisita tutta la letteratura russa fino ai grandi protagonisti dell’Ottocento. […]” (cfr. Emanuela Sgambati, “Evelino Gasparini”, Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 52, 1999).
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    FILOSOFIA APOLLINEA E SCRITTURA COSMOTEANDRICA. Nel “Cratilo”, Platone, nella lezione sulle etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive e così fa dire al suo #Socrate, a proposito della Diana Efesina:

    “Ἄρτεμις” δὲ ‹διὰ› τὸ ἀρτεμὲς φαίνεται καὶ τὸ κόσμιον, διὰ τὴν τῆς παρθενίας ἐπιθυμίαν· ἴσως δὲ ἀρετῆς ἵστορα τὴν θεὸν ἐκάλεσεν ὁ καλέσας, τάχα δ’ ἂν καὶ ὡς τὸν ἄροτον μισησάσης τὸν ἀνδρὸς ἐν γυναικί· ἢ διὰ τούτων τι ἢ διὰ πάντα ταῦτα τὸ ὄνομα τοῦτο ὁ τιθέμενος ἔθετο τῇ θεῷ.

    “Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l’artemes (’l’integrità’) per l’ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù (“aretes histora”) o forse anche perché detesta l’aratura (“ton aroton misesases”) del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea” (406b).
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    Federico La Sala

  3. P. S. – 2. ANTROPOLOGIA, STORIA, E “PSICOANALISI”: QUALE RAPPORTO TRA IL LEGGERE UNA ISCRIZIONE (COME QUELLA DI DELFI) E IL “LEGGERSI” NEGLI OCCHI, AI FINI DELLA CONOSCENZA DI SE’ (NELL’ANTICA GRECIA)? Una nota a margine della ricerca sulla “Phrasikleia” (Jesper Svenbro, 2024).
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    PER USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA, E, AL CONTEMPO, DA UNA CAPACITA’ DI “LETTURA” DIMEZZATA DELLA REALTA’ E UNA PARZIALE E “”SPECULARE” CONOSCENZA DI SE’,
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    UN “INVITO” A RICONSIDERARE (ANCHE E ANCORA) LA SEGUENTE DISCUSSIONE TRA SOCRATE E ALCIBIADE (Platone, “Alcibiade primo”, XXVII 132c – XXVIII 133b):
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    SOCR. In qual modo potremmo conoscere il più chiaramente possibile la nostra anima? Giacché, con questa conoscenza, potremo evidentemente conoscere noi stessi. Per gli dèi! Comprendiamo bene quel giusto consiglio dell’iscrizione delfica ricordata ora?
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    ALC. Con quale intenzione lo dici, o Socrate?
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    SOCR. Ti dirò cosa sospetto che questa iscrizione ci voglia realmente consigliare. Perché si dà il caso che ad intenderla non vi siano molti esempi di confronto, tranne quello solo della vista.
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    ALC. Cosa vuoi dire con questo?
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    SOCR. Rifletti anche tu. Se l’iscrizione consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: “guarda te stesso”, in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare? Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso?
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    ALC. Certo.
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    SOCR. Ecco: indaghiamo quale oggetto c’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi.
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    ALC. È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili. SOCR. Esatto. Non c’è forse anche nell’occhio, con il quale vediamo, qualcosa dello stesso genere?
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    ALC. Certo.
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    SOCR. Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda.
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    ALC. È vero.
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    SOCR. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso.
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    ALC. Evidentemente.
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    SOCR. Ma se l’occhio guarda un’altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso.
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    ALC. È vero.
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    SOCR. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista?
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    ALC. Sì.
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    SOCR. Ora, caro Alcibiade, anche la psiche, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare una psiche […]».
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    Federico La Sala

  4. P. S. – 3. SCRITTURA, LETTURA, ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E ARTE :
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    “IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI”, L’ ABITUDINE DI CALVINO DI FERMARSI “SEMPRE DAVANTI AI SANGIROLAMI”, E I TAROCCHI. Un omaggio a “Phrasikleia” (Jesper Svenbro, 2024).
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    IN MEMORIA DI “SANTIAGO” ITALO CALVINO…
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    ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Sulla portata antropologica, pedagogica e culturale, delle fiabe (V. J. Propp), delle favole (Esopo, Fedro), e, delle “storie” e delle “leggende auree”, come quella di san Girolamo e il Leone, non c’è alcun dubbio. Tuttavia, oggi come oggi, è da considerare che, nel “quadro” della lunga durata della “propaganda fide” della scrittura (e delle scritture) e della progressiva #alfabetizzazione (anche informatica) dell’Europa, si sono attivate e sovrapposte sicuramente le memorie delle varie tradizioni e, principalmente, della stessa tradizione romana.
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    Sul caso della figura di San Girolamo, in particolare, è bene riflettere di più e, filologicamente, quantomeno ripensare alla favola del pastore e del leone (con la spina nella zampa) accennata già da Seneca (4 a. C. – 65 d. C.), poi ripresa da Aulo Gellio (125 d. C. – 180 d. C.) nelle “NottiAttiche” (V. 14), e, infine, accogliere la brillante indicazione dello stesso Italo Calvino, come sollecita a fare Luigi Spina, nel suo saggio, “Leoni a misura d’uomo” (“I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE” n. 1, 2008 , pp. 217-237 – “Incidenza Dell’Antico” 6, 2008):
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    “Fare uscire delle storie da quadri di musei come da tarocchi messi in fila: questa la sfida o, meglio, «il gioco di prestigio», che proponeva Italo Calvino nelle pagine finali de Il castello dei destini incrociati. Fra gli esempi, «un san Girolamo al posto dell’Eremita» (p. 1).
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    E ancora, volendo, è bene riflettere anche sulle conclusioni del suo stesso lavoro:
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    “[…]. Quello che abbiamo trovato nella vita anonima di Girolamo è […]: la sostituzione di una cultura del mito con una cultura del simbolo teleologico, provvidenziale. La res mirifica atque admiranda raccontata da Androclo alla folla del Circo Massimo è diventata, senza traumi linguistici, miraculum . Con la stessa disinvoltura, il narratore delle vicende di Paolo ad Efeso fa fare strage di spettatori in un anfiteatro ad una violenta tempesta, che lascia però indenni nell’arena Paolo ed un leone: lo stesso leone che aveva riconosciuto l’uomo di #Tarso condannato ad bestias. «Sei tu il leone che ho battezzato?», aveva chiesto qualche minuto prima Paolo. «Sì», gli aveva risposto il leone, confermando il nostro sospetto che, alla fine, una favola e un miracolo non siano così differenti, se riescono entrambi a far parlare gli animali.” (p.15).
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    Federico La Sala

  5. P. S. – 3. PER “PHRASIKLEIA”. RICERCA SCIENTIFICA, “MALOCCHIO”, PSICOANALISI, E CREATIVITÀ:
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    IL “SAPERE AUDE!” DI KANT, IL PROBLEMA DELL’ OCCHIO DI PLATONE, E UNA QUESTIONE DI BELLO. UN INVITO A USCIRE DALLA CAVERNA DI “POLIFEMO” (CON I “DUE SOLI” DI DANTE ALIGHIERI).

    In memoria di Immanuel Kant, Hermann von Helmholtz, e Marcel Proust…

    RIAPRIRE IL PROGRAMMA-SOCRATICO PLATONICO DELLA “CUPIDITA” (“EROS”) DEL VEDERE CON GLI OCCHI E DEL GUARDAR-SI NEGLI OCCHI PER CONOSCER-SI? FORSE, BISOGNA RI-PRENDERE IL CAMMINO PROPRIO DALLA CRITICA DELLA “RAGIONE PLATONICA”.
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    “DOPO NIETZSCHE”. Se è vero, come è vero, che Giorgio Colli inizia il suo cammino di ricerca da una rilettura attenta del “Simposio” e dall’ “Alcibiade primo” e che, poi, giunga a tradurre la “Critica della ragion pura” di Kant (Alfonso M. Iacono, “Giorgio Colli: la dismisura nella misura”, “Doppiozero”, 04 Febbraio 2025), c’è da pensare che, per realizzare l’antichissimo desiderio «di fare, di due, uno», e così, di «guarire la natura umana» (Platone), probabilmente, voglia “dire” che si dovesse andare a fondo con Kant e reimpostare la questione.

    “CHIUDERE UN OCCHIO” O “APRIRE GLI OCCHI”?! CON FREUD, #OLTRE: CREDO CHE SIA UNA OTTIMA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA, RIPARTENDO da alcune domande poste in “An Inquiry into Beauty” (Vincent De Luise, Fbook, 02 febbraio 2025):
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    Chiedersi se “La bellezza è negli occhi di chi guarda? O la bellezza è nel cervello di tutti coloro che la guardano?”; e, al contempo, accogliere come validi i dati disponibili, che “suggeriscono la seconda ipotesi” (cit.), da una parte si richiamano antiche questioni che risalgono almeno a Platone (appunto, con tutte le conseguenze del caso) e, dall’altra, si rinvia quantomeno a una rilettura del “Manuale di Ottica fisiologica” di un “discepolo” di Kant: Hermann von Helmholtz.

    DUE OCCHI E UNA SOLA “IDEA” (“VISIONE”). Helmholtz, nel varco aperto epistemologicamente da Kant, si porta sia al di là della dimensione euclidea dello spazio e del tempo (aprendo con Bernhard Riemann la via alle geometrie non euclidee e alla fisica di Mach e Einstein), e, ancora, sia sulla strada di studi “galileianamente” intesi sulla fisiologia della percezione, in ottica e in acustica, entro cui si colloca la stessa neuroestetica…
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    Già solo capire, oggi, che Nietzsche, proprio dalla conoscenza delle ricerche di Helmholtz (mediata dalla lettura dell’opera di Friedrich A. Lange, “Storia del materialismo e critica del suo significato nel presente”), scrive “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali” (1881), sollecita a ripensare meglio il suo rapporto non solo con Kant, ma anche con lo stesso Socrate e Platone (il cristianesimo storico e la tradizione illuministica e scientifica) e il suo “Crepuscolo degli idoli”.
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    Federico La Sala

  6. P. S. – 4. PER “PHRASIKLEIA”. ARCHEOLOGIA DEL SAPERE E ANTROPOLOGIA DELLA #LETTURA:
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    IL “LUPO NEL DISCORSO” DEL “FEDRO” DI PLATONE, LA “VOLPE E LA MASCHERA TRAGICA” NELLE “FAVOLE” DI ESOPO E DI FEDRO, E IL “CANTO DEL CAPRO” (“LA NASCITA DELLA TRAGEDIA”)..
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    UN “LECTOR IN FABULA” PER PORTAR-SI OLTRE LA TRAGEDIA (DEL “MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE” PLATONICO ) E LIBERARE SOCRATE DALLA APOLOGIA (“CAVERNA”) DELLA RETORICA DEL PLATONISMO (“SERVO-PADRONE”) E RIPRENDERE LA SMARRITA “DIRITTA VIA” DELLA COMMEDIA (DANTE ALIGHIERI).
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    “IL LUPO E L’AGNELLO”. NEL “FEDRO” DI PLATONE, a conclusione del suo primo intervento, Socrate dice parole fortemente critiche contro il caso di un filosofo-sofista che pretendA di “leggere” (o di essere una “persona che vuole amare”, essere un “amante”, un “erastès”) un “libro” (una “persona che vuole essere amata”, un “amato”, un “eròmenos”) interpretandolo egoisticamente: “Dunque o ragazzo mio, devi comprendere e convincerti che l’amicizia di un innamorato non nasce da affetto, ma è fame che cerca di saziarsi, e che come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti adorano il fanciullo” (“Fedro”, 241 d: “ὡς λύκοι ἄρνας ἀγαπῶσιν, ὣς παῖδα φιλοῦσιν ἐρασταί”).
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    Che cosa questa considerazione “esopica” ed “esotica” ci dice? Non, forse, che, dopo i famosi “venticinque secoli” di “letargo”, calcolati da Dante (Par. XXXIII, 94), l’umanità è ancora “bloccata” nell’orizzonte antropologico di un “compromesso olimpico” che non è né un patriarcato né un matriarcato, ma solo una naturalistica alleanza “edipica” (zoppa e cieca, sia dal lato femminile sia maschile)?
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    Benché Platone e Socrate e tutta la società greca avesse già acquisito consapevolezza che “comportarsi da filosofi” significava, come già Eraclito e Parmenide avevano ben chiarito, seguire il “Logos” ed essere pari di fronte alla “Legge”, dopo millenni, si vorrebbe sentire anche un suono di festa e di liberazione dal giogo e dal gioco del “servo-padrone”, ma all’orecchie continua a giungere solo il frastuono assordante del “canto del capro” (quello a cui rinvia l’origine stessa della tragedia: https://www.treccani.it/enciclopedia/tragedia_(Enciclopedia-Italiana)/), e nient’affatto e non ancora il suono del corno dell’ariete (https://it.wikipedia.org/wiki/Giubileo_universale_della_Chiesa_cattolica#Le_origini ), quello di un vero giubileo – altro che quello di Bonifacio VIII.
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    “DE TE FABULA NARRATUR” (ORAZIO). Esopo, e anche Fedro, forse, quando sollecitavano a riflettere sul caso della “volpe e la maschera ” ( http://www.poesialatina.it/_ns/greek/tt2/Esopo/Esopo027.html), a questo alludevano: a una tragedia di lungadurata. Una “#volpe” (famosa per la sua capacità di sciogliere nodi e risolvere enigmi ), vistasi allo “specchio” di una bellissima “maschera tragica [“personam tragicam”], perse il suo stesso “cervello” (testa, intelligenza e astuzia) e divenne una onorata e famosa “persona”, nello spettacolo fatale della tragedia della tradizione “giocastolaia” del platonismo occidentale (e planetario).
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    Federico La Sala

  7. P. S. -5. LA PRODUZIONE DEL GRANO, L’ARATRO, LA TERRA, LA SCRITTURA ALFABETICA, E LA “INTELLIGENZA ARTIFICIALE” DELLA “TRAGEDIA” DELLA GRECIA ANTICA.
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    UNA NOTA SULLA “AGRICOLTURA” DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA PLATONICO-COSTANTINIANA (NICEA, 325-2025).
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    Un omaggio a “Phrasikleia” (Jesper Svenbro, 2024).
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    A PARTIRE DALL’ ALFABETO, DALL’ ALFA E DALL’OMEGA. Se si considera che già Democrito era riuscito (non solo a ridere, ma anche) a concepire una cosmologia fondata su atomi-lettere e, quindi, la possibilità di costruire una macchina che potesse “rac-contare” automatica-mente la “storia del cosmo”, o, che è lo stesso, che un giorno fosse facile ottenere esatte mappe del cielo del passato, questo ci dice che fino ad oggi è stato portato avanti un programma “scientifico”, imbozzolato nelle coordinate di un vecchio “storytelling” cosmoteandrico.
    Whitehead (con Bertrand Russell, autore dei “#Principia Mathematica”) aveva molte ragioni dalla sua: “Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone”.
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    Se è così, che fare, “qui” ed “ora”, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella “macchina” di “scrittura” della tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione “cinematografico” platonico-hegeliano?
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    La narrazione di un “mondo come volontà e rappresentazione” cosmoteandrica di un Autore Sovrano, a tutti i livelli, è finita, e, se non si vuole restare asfissiati nella sua “caverna”, non si può non seguire “Dante Alighieri” e cercare di ritrovare la diritta via della Commedia!
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    LA PRODUZIONE DEL GRANO (ARATURA, SEMINAGIONE, SARCHIATURA, E TREBBIATURA) E IL “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE” (“PRENDETE E MANGIATE”).
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    Considerato che la nascita dell’agricoltura e l’invenzione dell’aratro “camminano insieme” e, ancora, che la stessa “direzione di scrittura dei Greci fu dapprima bustrofedica (cioè con una direzione alterna: una riga da destra verso sinistra e la successiva da sinistra verso destra, come il tracciato che un aratro trascinato da un bue disegna sul campo) e in seguito essa divenne solamente destrorsa, cioè da sinistra verso destra” (cfr. Francesco De Renzo, “Alfabeto”, Treccani, 2005: https://www.treccani.it/enciclopedia/alfabeto_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/), è bene ricordare lo stravolgimento epocale prodotto dall’aratro nella storia dell’eco-nomia e dell’ecologia del Pianeta Terra (nella “casa” degli esseri umani):
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    “L’uomo primitivo usava bastoni per forare il terreno e apporvi il seme, in seguito modificò lo strumento per creare zappette che erano inefficienti nel garantire la preparazione del #letto di semina. Pertanto l’invenzione dell’aratro, che ha luogo in Mesopotamia nel IV millennio a.C. ad opera dei Sumeri, è un evento rivoluzionario perché aumenta in modo rilevante la produttività dell’agricoltura consentendo la creazione di quelle eccedenze di cibo che sono alla base della genesi di società complesse basate sulla divisione del lavoro. L’aratura è una pratica antica, il poeta latino Virgilio lo considerava “lavoro dell’uomo e dei buoi in grado di rivoltare la #terra” […]” (cfr. SDS Archivio Storico: https://archiviostorico.sdfgroup.com/racconti/due-grandi-rivoluzioni-la-nascita-dellagricoltura-e-linvenzione-dellaratro/ ).
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    ANDROCENTRISMO DELLA GRECIA ANTICA E ANTROPOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA NELL’EUROPA RINASCIMENTALE:
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    a) GLI UOMINI COME”CHICCHI” DI GRANO E LE DONNE COME “TERRA” DA ARARE E SEMINARE: “[,,,] In una cultura che concepisce il matrimonio come attività agricola, fatica, semina, la contiguità fra una giovane nubile e i chicchi di grano è marcata in senso forte. La formula tradizionale, pronunciata in occasione del fidanzamento dal padre della fanciulla da maritare, suona infatti: «D’ora in poi ti fidanzo a mia figlia, ragazzo, per la semina («ep’arotoi») di figli legittimi.» Il genero è il «lavoratore» o il «seminatore» di una «terra» identica alla figlia: il suo seme assicurerà la nascita di figli legittimi. Grazie al seme, la rigenerazione è assicurata. Il padre di una figlia «epìkleros» è assimilato a una spiga di grano priva di chicchi, tagliata alla radice durante la mietitura: manca dei semi necessari alla rigenerazione della sua stirpe. Non ha un figlio maschio, e lascia dopo di sé solo una «terra»” (Jesper Svenbro, “Storia della lettura nella Grecia antica” [“Phrasikleia, 1988], Laterza, 1991, p. 99);
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    b) “ANATOMIA” (VALVERDE, 1560): “I TESTICOLI DELLE DONNE […] Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo […]”: così inizia il cap.15 dell’Anatomia di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne” (p. 91).
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    Federico La Sala

  8. P. S. 6 – LA TERRA, LA SCRITTURA ALFABETICA E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (NICEA, 325-2025): SAN BENEDETTO, “CON LA CROCE, CON IL LIBRO E CON L’ ARATRO”. Un invito a a riconsiderare storiograficamente e antropologicamente la “tenuta” dell’architettura costituzionale della “casa comune” europea e terrestre …
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    Una nota in memoria di Galileo Galilei e di Immanuel Kant…
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    CULTURA E SOCIETA’. SE NEL “LONTANO” 1610, GALILEO GALILEI PUBBLICA IL SUO “MESSAGGERO CELESTE” (“SIDEREUS NUNCIUS”), nel non troppo “recente” 1964, il 24 ottobre, nel secondo anno del suo Pontificato, papa Paolo VI, con la “Lettera apostolica”, intitolata “PACIS NUNTIUS” (“MESSAGGERO DI PACE”), proclama SAN BENEDETTO, PATRONO D’EUROPA.
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    “LETTERA APOSTOLICA” (PAOLO VI, 1964): “Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà, e soprattutto araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in Occidente: questi i giusti titoli della esaltazione di san Benedetto Abate. Al crollare dell’Impero Romano, ormai esausto, mentre alcune regioni d’Europa sembravano cadere nelle tenebre e altre erano ancora prive di civiltà e di valori spirituali, fu lui con costante e assiduo impegno a far nascere in questo nostro continente l’aurora di una nuova èra. Principalmente lui e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l’aratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia (Cf AAS 39 (1947), p. 453).
    Con la croce, cioè con la legge di Cristo, diede consistenza e sviluppo agli ordinamenti della vita pubblica e privata. A tal fine va ricordato che egli insegnò all’umanità il primato del culto divino per mezzo dell’«opus Dei», ossia della preghiera liturgica e rituale. Fu così che egli cementò quell’unità spirituale in Europa in forza della quale popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire l’unico popolo di Dio; unità che, grazie allo sforzo costante di quei monaci che si misero al seguito di sì insigne maestro, divenne la caratteristica distintiva del Medio Evo [ …]” (cfr. Paolo VI, Lettera apostolica “Pacis nuntius”, 24 ottobre 1964 – ripresa parziale: https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_letters/documents/hf_p-vi_apl_19641024_pacis-nuntius.html).
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    Federico La Sala

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