di Slavoj Žižek
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Cominciamo col primo intervento pubblicato da Le parole e le cose. È uscito l’8 settembre 2011].
Invece di concepire ciò che attualmente si sta realizzando in Cina come una distorsione oriental-dispotica del capitalismo, vi si dovrebbe vedere una ripetizione del processo che ha caratterizzato lo sviluppo del capitale in Europa. Nella prima modernità, gran parte degli Stati europei non erano assolutamente democratici – o, se lo erano (come nel caso dei Paesi Bassi), lo erano solo per quanto riguardava le élite liberali, non per i lavoratori. Le condizioni per l’affermazione del capitalismo furono create e mantenute tramite una brutale dittatura statale, molto simile a quella della Cina di oggi: lo Stato che prima legalizza la violenta espropriazione della gente comune rendendola proletariato, e che successivamente la disciplina nel suo nuovo ruolo. Tutte le caratteristiche che possiamo oggi identificare con la liberal-democrazia (sindacati, suffragio universale, istruzione obbligatoria, libertà di stampa ecc.) furono conquistate dalle classi subalterne con una lunga e ardua lotta nell’arco di tutto il XIX secolo; erano tutto fuorché “naturali” conseguenze dei rapporti capitalistici. Riandiamo alla lista di richieste con cui si conclude il Manifesto del Partito Comunista: gran parte di esse, a eccezione dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, è oggi universalmente accettata nelle democrazie “borghesi” come risultato delle lotte popolari.
Ricordiamoci di un altro fatto ignorato: oggi, l’uguaglianza tra bianchi e neri viene celebrata come parte integrante del Sogno Americano, è percepita come un assioma politico-etico autoevidente – eppure, negli anni ’20 e ’30 l’UNICA forza politica che appoggiava la completa uguaglianza tra le razze era rappresentata dai comunisti. Chi sostiene che tra capitalismo e democrazia ci sia un collegamento naturale bara allo stesso modo della Chiesa Cattolica, quando si presenta come la “naturale” paladina della democrazia e dei diritti umani contro la minaccia del totalitarismo. Come se la Chiesa non avesse accettato la democrazia che alla fine del XIX secolo, per giunta a denti stretti, come un disperato compromesso e una concessione ai tempi nuovi, facendo chiaramente capire che avrebbe preferito la monarchia. La Chiesa Cattolica come faro di libertà e del rispetto della dignità umana? Facciamo un semplice esperimento mentale. Fino ai primi anni ’60 la Chiesa compilava il (tristemente) famoso Indice dei libri la cui lettura era proibita ai (semplici) fedeli; non ci si può neanche immaginare come sarebbe potuta essere la vita artistica e intellettuale dell’Europa moderna senza tutte quelle opere che, di volta in volta, sono state messe all’Indice. Sarebbe un’Europa senza Cartesio, Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Kafka, Sartre, per non parlare della stragrande maggioranza dei classici della letteratura moderna.
Non c’è dunque niente di esotico nella Cina di oggi: quello che sta succedendo laggiù è semplicemente una ripetizione del nostro passato dimenticato. Che dire allora delle considerazioni a posteriori di alcuni critici liberali occidentali, che si chiedono quanto sarebbe potuto essere veloce lo sviluppo della Cina se si fosse abbinato alla democrazia politica? Qualche anno fa, in un’intervista alla televisione, Ralf Dahrendorf mise in relazione la crescente diffidenza nei confronti della democrazia con il fatto che, dopo ogni cambiamento rivoluzionario, la strada verso la nuova prosperità deve attraversare una “valle di lacrime”. Dopo il crollo del socialismo, non si può direttamente passare all’abbondanza di una florida economia di mercato. Prima bisogna smantellare il benessere e la sicurezza, reali ancorché limitati; un passaggio necessariamente doloroso. La stessa cosa si può dire dell’Europa occidentale, dove il passaggio dallo Stato sociale a una nuova economia globalizzata implica rinunce dolorose, minore sicurezza e meno servizi sociali garantiti. Per Dahrendorf, sarebbe meglio inquadrare la questione a partire dalla semplice constatazione che tale doloroso attraversamento della “valle di lacrime” dura più a lungo del periodo medio che intercorre tra un’elezione (democratica) e l’altra, cosicché si è fortemente tentati di posporre i cambiamenti difficili in cambio di un consenso elettorale a breve termine. Paradigmatica, da questo punto di vista, la delusione di larghe fasce della popolazione dei paesi post-comunisti nei confronti dei risultati economici del nuovo ordine democratico: durante i giorni gloriosi del 1989, avevano equiparato la democrazia all’abbondanza delle società consumistiche occidentali, e ora, dieci anni dopo, con l’abbondanza ancora di là da venire, incolpano di questo la democrazia in quanto tale… Sfortunatamente il nostro autore non prende in esame la tentazione opposta: se la maggioranza resiste ai necessari aggiustamenti strutturali in campo economico, una delle (possibili) conclusioni logiche non potrebbe forse essere che per una decina d’anni un’élite illuminata prenda il potere, in maniera anche non democratica, per introdurre le misure necessarie a porre le basi di una democrazia realmente stabile? Muovendosi in questa prospettiva, Fareed Zakaria fa notare che la democrazia può “prendere piede” solo in paesi economicamente sviluppati. Quando paesi in via di sviluppo vengono “democratizzati prematuramente”, il risultato è un populismo che porta alla catastrofe economica e al dispotismo politico; non è un caso se gran parte dei paesi economicamente sviluppati del Terzo Mondo (Taiwan, Corea del Sud e Cile) hanno adottato la democrazia solo dopo un periodo di regime autoritario.
Questo tipo di argomentazione non è forse la miglior difesa della via cinese al capitalismo in contrapposizione alla via russa? Dopo il crollo del comunismo, la Russia adottò una “terapia shock” lanciandosi a testa bassa verso la democrazia e scegliendo la strada più breve per il capitalismo; il risultato fu la bancarotta economica. I cinesi invece hanno seguito la strada del Cile e della Corea del Sud utilizzando il potere assoluto dello Stato autoritario per controllare i costi sociali della transizione al capitalismo e hanno così evitato il caos. In breve, la bizzarra combinazione di capitalismo e comunismo, lungi dall’essere una ridicola anomalia, si è dimostrata una benedizione sotto (non tanto) mentite spoglie; la Cina si è sviluppata cosi velocemente non a dispetto dell’autoritarismo comunista, ma grazie a esso. Dunque, per concludere in maniera un po’ maliziosamente stalinista: e se coloro che si preoccupano dell’assenza di democrazia in Cina fossero in realtà preoccupati del suo alto tasso di sviluppo che la candida a essere la prossima superpotenza globale, insidiando cosi il primato occidentale? È qui all’opera un ulteriore paradosso: al di là di facili sarcasmi e analogie superficiali, esiste una profonda omologia strutturale tra l’autorivoluzione permanente maoista, la lotta continua alla sclerotizzazione degli apparati dello Stato e la dinamica propria del capitalismo. Si sarebbe tentati di parafrasare la battuta di Brecht: “Che cos’è la rapina di una banca rispetto al fondarne una nuova?” Che cosa sono le violenze e le distruzioni perpetrate dalle Guardie Rosse nell’impeto della Rivoluzione Culturale a confronto con la reale Rivoluzione Culturale e la continua dissoluzione di ogni forma di vita richiesta dalla riproduzione capitalista? Oggi, la tragedia del Grande Balzo in Avanti si sta ripetendo come commedia del rapido Grande Balzo in Avanti nella modernizzazione capitalista, per la quale il vecchio slogan “una fonderia in ogni villaggio” si traduce in “un grattacielo in ogni strada”.
[Estratto da S. Žižek, Dalla democrazia alla violenza divina, trad. it. di A. Aureli, in AA.VV., In che stato è la democrazia?, Roma, Nottetempo, 2010, pp. 160-65].
[Immagine: C’est la lutte des classes, metropolitana di Parigi, settembre 2011 (foto di Guido Mazzoni)].
Come mai solo il testo di Žižek non ha avuto finora alcun commento? Perché l’immagine della Cina che viene proposta ci abbacina e sfugge a tutti i luoghi comuni e alle semplificazioni. Ipercapitalismo a direzione comunista, modernizzazione e arricchimento selvaggio sotto le bandiere rosse, repressione degli studenti “libertari” e “occidentali”, rimozione e imbalsamazione di una cultura millenaria, disastro ecologico e modernizzazione coatta, lotta alla fame e cementificazione…La prima pagina di “Gomorra” svela allegoricamente come e dove vengano prodotte le merci che ci sembrano sorte intorno a noi come per magia. Žižek mostra come alcune forze in atto, nel vecchio occidente declinante e nell’oriente ascendente, siano ciecamente telluriche, possiedano la forza muta delle combustioni stellari: la tragedia del Grande Balzo in Avanti si sta ripetendo come commedia del rapido Grande Balzo in Avanti nella modernizzazione capitalista. Guardando questi fenomeni il nostro sguardo si abbaglia. Non abbiamo parole. Eppure, mai come oggi, le scosse della storia si sono rimesse in moto, mai come ora ci sarebbe bisogno di capire.
Nella sua ispirazione storica, il testo di Zizek è talmente paradossale da risultare, a mio modo di vedere, difficilmente commentabile, se non per ricordare che, nell’epoca a cui Zizek fa riferimento, le Province Unite erano non solo l’unico paese dotato di istituzioni parzialmente democratiche, ma anche quello dove, grazie alla presenza di Spinoza, e di esuli come Locke, Bayle e molti altri, la rivendicazione dei diritti su cui si fonderanno le moderne democrazie liberali poté avere una prima, solida formulazione. Guarda a caso, le Province Unite furono anche la culla storica del fenomeno dell’accumulazione capitalistica. Ed erano, fra l’altro, il paese con la maggiore mobilità sociale in Europa, e con le migliori condizioni materiali di vita delle classi subalterne.
Il 12 novembre il Partito comunista cinese ha approvato un piano decennale di riforme economiche, dopo un incontro a porte chiuse durato quattro giorni, dal 9 al 12 novembre 2013. […] Su China Files Zhang Ming, vicedirettore di due istituti di ricerca dell’Accademia delle scienze sociali cinesi, spiega quali cambiamenti porterà questa riforma: “Il concetto di ‘riforma basata sul mercato’ sottintende tre cambiamenti cruciali: il primo consiste nell’accelerare l’implementazione della riforma affinché sia il mercato a determinare i prezzi dei fattori produttivi; il secondo è rappresentato dalla necessità di infrangere il monopolio delle imprese statali in un certo numero di servizi; il terzo corrisponde a ridurre l’intervento del governo nelle attività economiche, rafforzando la capacità di innovare dei soggetti economici di piccole dimensioni”. (12 novembre 2013 14.19, Wu Ming, Internazionale)
È di poche ore fa un’altra notizia rilevante:
“14:45 – In Cina è partito l’esame del pacchetto di riforme, annunciate a novembre dopo il summit del Partito Comunista Cinese, che dovrebbero portare tra le altre cose all’abolizione della politica del “figlio unico” e dei campi di lavoro. Le riforme saranno discusse in settimana dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, l’organo legislativo più alto del Paese.” (24 dicembre 2013, TgCom24).
Riporto questi frammenti solo per dare conferma di quanto è stato detto – tre anni fa – da Žižek: “quello che sta succedendo laggiù è semplicemente una ripetizione del nostro passato dimenticato”.