di Michele Cecchini

 

Io pensavo di avere maturato almeno una certezza nella vita. Cioè che il pomeriggio alla Casa del Popolo c’è sempre un gran casino, per via dei vecchi che giocano a carte. I quali non è che si confrontano, dialogano, interagiscono e tutti questi verbi belli. No, loro litigano ferocemente. Si inalberano. Abbaiano. Insultano. Minacciano. Qualcuno si alza e se ne va imbestialito tirando calci alle sedie. Dopo lunghe, estenuanti trattative viene riammesso al tavolo per finire la partita e magari anche il torneo, che rischia più volte di saltare per le intemperanze di persone che nel nostro immaginario vorremmo miti, fragili e indifese.

Ecco, l’ingaglioffamento al gioco delle carte, per dirla con Machiavelli, è una certezza che mi si è scardinata l’altro giorno quando il mio amico Tofani Roberto da Lastra Signa mi ha portato alla Casa del Popolo di Tripetetolo. Ci teneva proprio a portarmi lì. Tra quelle mura lui c’è cresciuto e ci s’è svezzato umanamente, politicamente e sentimentalmente. Come tutte le Case del Popolo che si rispettino, anche quella di Tripetetolo è imponente, austera eppure capace di accoglierti e farti sentire a casa, come un gigante buono, sovrabbondante di anime perse che la frequentano, di iniziative, soprattutto di spazi: sala biliardo, pista per il pattinaggio, pista per il liscio, salone per la videoproiezione delle partite della Fiorentina – anzi della Viola, come usa dire qui – e poi la zona bar, naturalmente, e una tavola calda, dove abbiamo consumato un pranzo a prezzi ultrapopolari (per i fissati di cuochi e fornelli: s’è mangiato benissimo, tra lasagne, lampredotto e verdure grigliate).

 

E insomma, avviandoci al bar per il caffè, abbiamo attraversato uno stanzone strapieno di anziani tutti intenti al gioco. Sparpagliati ai vari tavoli, qualcuno stava rannicchiato a raccogliere tutta la concentrazione, altri sventolavano spavaldi le carte prima di scaraventarle giù, altri ancora, seduti un poco discosti dai tavoli, vigilavano in qualità di ammessi solamente a guardare. Ma la cosa assurda era che tutto questo si consumava nel più completo, totale, religioso, assoluto, devastante silenzio. Un silenzio irreale e ingiustificato, come quando al cinematografo improvvisamente non funziona l’audio. Il Tofani, che prontamente ha registrato la mia aria meravigliata, non ha aspettato la domanda, in modo da lasciare inviolata la sacralità di quel silenzio. Ci siamo allontanati e mi ha detto sottovoce: “Qui a Tripetetolo si gioca la belotta. È vietatissimo parlare, fare ammicchi o roba simile. Qui si gioca zitti”.

Arriviamo al bancone. L’odore del bar alla Casa del Popolo è inconfondibile: un misto di caffè, anice, rum e legno. Al bancone, davanti al bicchierino di vetro che strina di caffè, il Tofani mi spiega che gli unici posti in Toscana dove si gioca la belotta è la zona delle Signe: Signa, Lastra a Signa, Ponte a Signa. “Belotta” deriva da “belot”, la briscola francese. Più raffinata, più complicata della nostra briscola, con cui ha poco o nulla a che vedere.

 

Il Tofani sostiene che a portarla a Lastra a Signa fu un tizio detto Il Drago, giocatore assai incallito nelle carte e nei cavalli. Il Drago una sera uscì a comprare le sigarette e se la prese comoda, visto che fece ritorno una ventina di anni dopo. In questa pausa non proprio breve, ebbe tempo di recarsi in Francia, dietro alle corse di galoppo, e lì si appassionò alla belot. Tornato, la diffuse da queste parti. Ora, nella Casa del Popolo di Tripetetolo, la belotta è l’unico gioco praticato. Solo un incauto forestiero oserebbe proporre una partita a tressette.

Tripetetolo: l’etimologia di questo nome non può che incuriosirmi parecchio, oltretutto è incerta. L’ipotesi che va per la maggiore è quella che fa riferimento al Rio Petretolo, ora coperto, che una volta si gettava nel torrente Vingone. “Petretolo” perché ricco di pietre con cui si selciavano le strade. Motivo per cui la zona, e la Casa del Popolo di conseguenza, nel tempo prese il nome di Ripreteto o Ripretetolo, come attestano alcune carte topografiche. Ma allora perché, oggi, quel “tri-” iniziale? Possibile una giunta tanto arbitraria?

 

Il Tofani Roberto dice che il vecchio palazzo che dava al luogo il nome di Tripetetolo probabilmente nel XVII secolo era un convento, diventato poi stazione di posta e, infine, un insieme di stanze fatiscenti in cui trovavano ricovero le famiglie più disgraziate.

Ora, stando ai discorsi che da ragazzo lui aveva intercettato dagli anziani, tutta gente nata alla fine del 1800, l’edificio di Tripetetelo un tempo si trovava preciso preciso all’incrocio di tre parrocchie (cioè, tre popoli). Vale a dire, tre diverse giurisdizioni confinavano esattamente tutte e tre dove si trova la struttura. Erano delimitazioni, oltre che spirituali, anche amministrative. Allora, in caso di decesso di uno degli abitanti di questo gruppo di case, per pagare l’obolo a una sola parrocchia, la bara la si faceva calare dalla camera alla strada sottostante direttamente dalla finestra, senza passare dal portone principale, in modo da non oltrepassare i confini delle altre due parrocchie, alle quali altrimenti si sarebbero dovuti corrispondere ulteriori due oboli. Un sotterfugio emblematico della scaltrezza e della furbizia di chi si arrangia come può per aggirare forme di potere verso cui non può che nutrire insofferenza. Vuoi vedere che quel tri- proviene proprio da questa faccenda?

 

Il Tofani Roberto mi racconta i sacrifici fatti dai lastrigiani per mettere in piedi la Casa del Popolo. Uno sforzo collettivo notevole, per la realizzazione di un posto di tutti, e che incarnava gli ideali di una comunità. Si organizzavano lotterie per accumulare fondi, molti donavano settimanalmente piccole somme, quasi tutti lavoravano nel fine settimana o al termine della propria giornata, trasportando la rena dall’Arno per le fondamenta, innalzando i muri, sistemando le tegole sul tetto. C’è una foto che ritrae Umberto Terracini in visita al cantiere. “Mi sa che è appesa dentro a una di queste stanze”, dice il Tofani tutto contento.

La Casa del Popolo di Tripetetolo venne inaugurata il 25 aprile del 1954. Da allora non ha mai chiuso, a parte la dolorosa parentesi dell’alluvione del 1966, che comportò la ricostruzione di parecchie parti.

“Quest’anno festeggiamo settant’anni”, mi dice il Tofani ora orgoglioso, mentre ci incamminiamo lungo l’argine dell’Arno per una passeggiata. Avessimo voglia, tempo una mezzoretta e saremmo a Firenze.

Non lo escluderei, perché durante le nostre passeggiate il tempo vola e anche i chilometri, a furia di confidarsi magagne, frustrazioni ed esercizi di pazienza. Mi sento proprio bene e di buonumore in compagnia del Tofani Roberto, un sensibilone coriaceo con gli occhi di Chaplin e la buzza del Monni. Per dileggiarlo, lo chiamo “Messer Tofano”, prendendo spunto da un personaggio del Boccaccio che è becco, come qui si usa dire invece di ‘cornuto’.

 

A un certo punto incontriamo Piero. Si chiamerebbe Piero Mangini ma il Tofani me lo presenta con il suo nome di battaglia: Cristo di Corea. Tutti lo conoscono così, perché proviene da quel quartiere di Lastra a Signa e di mestiere faceva gli intarsi di pietre dure. Evidentemente, i soggetti spesso erano sacri.

Piero ha iniziato da apprendista in bottega a 13 anni e il mestiere lo ha abbandonato da poco, adesso che di anni ne ha 91, dice lui. Io, visto il fisico e la brillantezza della testa, stento a credergli.

Di quello che si chiama “mosaico fiorentino” non sapevo niente. È una tecnica finissima di assemblaggio di pietre colorate che Piero andava a cercarsi dovunque. I lavori che vengono fuori sono talmente simili ai dipinti che questa tecnica la definiscono anche “pittura di pietra”.

 

Mentre percorre l’argine con le sue gambette spedite, Piero mi racconta che le prime botteghe delle pietre dure le si devono a Ferdinando I de’ Medici. Mi rivela anche che Gregory Peck andava da lui a bottega. “Da qualche parte devo averci anche una foto”, dice anche lui. Gregory Peck si metteva per un po’ buono buono, in silenzio, a guardare Piero nel suo lavoro di artigiano. Di sé dice così e non: ‘artista’, forse per pudore. Ma la sagacia pungente di Piero emerge quando mi racconta rammaricato di avere per figli due gemelli: “È una fregatura di nulla. Tu vai a letto una volta e di figlioli te ne ritrovi due”. Non ha detto “vai a letto” ma ha usato un’altra espressione, a esser sinceri.

La cosa che mi rimane impressa più di tutte è il rigore, l’intransigenza con cui Piero deve aver interpretato il suo lavoro, e che traspare dalle sue parole. Oggi quella tecnica con le pietre dure non la si usa quasi più, perché troppo dispendiosa in termini di tempo, quindi economicamente improponibile se non a qualche facoltoso appassionato. Infatti la clientela di Piero era prevalentemente straniera. “Una volta un americano mi cercò per un mosaico. Si stabilì disegno, dimensione, tutto quanto. Era un lavoro parecchio impegnativo e gli dissi che mi avrebbe preso tra i 10 mesi e un anno. Ma lui lo voleva prima. Lo voleva nel giro di poco, a tutti i costi. Me lo avrebbe pagato il doppio. E insisteva. A un certo punto, sai cosa gli dissi? Bimbo, io ci metto il tempo che ci vuole. Se tu lo vuoi prima, vieni qui e te lo fai”.

 

Al di là del motto di spirito, che se fosse stato pronunciato qualche secolo prima sarebbe potuto finire anche questo tra le novelle del Decameron, mi piace sottolineare la cura, la passione, la tenacia, la dedizione che Piero evidentemente imponeva a sé e al suo lavoro, rifiutando la velocità, l’approssimazione, il guadagno facile, il tutto e subito.

Ho imparato un sacco di cose in questa giornata a Lastra a Signa ma me ne torno a Livorno con un unico rammarico. Perché a un determinato punto dell’argine, il Tofani Roberto mi confida che proprio in corrispondenza di quel punto lì, da ragazzo, lui si tuffava per fare il bagno nel fiume. “Io me lo ricordo ancora, il profumo d’Arno. Era un odore particolare, intenso, che non te lo saprei descrivere”. Io annuso e annuso ma non mi arriva niente. “Andiamocene, bischero”, mi fa, “oggi quel profumo non c’è più”. Mi chiedo se, fra qualche tempo, anche il profumo del bar della Casa del Popolo se ne sarà andato via per sempre. Forse bisognerebbe promuovere un museo dei profumi. E anche della luce, come questa qui sull’Arno, ora che siamo verso sera.

 

Ringrazio Roberto Tofani e Piero Mangini per la loro amicizia e la loro compagnia. Chi volesse saperne di più su Tripetetolo, può consultare l’opuscolo che Roberto ha realizzato in occasione dei festeggiamenti per i 70 anni dalla nascita della Casa del Popolo. Magari lì c’è ancora qualche copia a disposizione. Una scusa come un’altra per farci un salto.

 

[Immagine: Dal video dell’inaugurazione della Casa del Popolo di Tripetetolo, 1954].

3 thoughts on “Metti un giorno Tripetetolo. Piccola cronaca di una trasferta lastrigiana

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