di Riccardo Capoferro
Il peso della storia
Il conflitto israelo-palestinese è carico di significati e continua di giorno in giorno a chiamarci in causa. Graffiti su Gaza si moltiplicano sulle mura delle città e ci seguono ovunque, perfino nei bagni pubblici e nelle cabine degli ascensori. E non solo: divampano le controversie sui social, amicizie di anni vacillano, le accuse reciproche si susseguono, le discussioni politiche aprono faglie nelle manifestazioni librarie, nelle scuole, nelle università e nelle famiglie.
Proliferano le visioni del conflitto, alle cui basi ci sono non di rado atteggiamenti emotivi. C’è chi ha visitato quei luoghi per turismo biblico, li considera circonfusi di sacralità giudaico-cristiana e guarda a Israele con simpatia. C’è chi ha il terrore che la condanna a Israele possa essere interpretata come un gesto antisemita. C’è chi, tacitamente o in modo manifesto, crede nel primato dell’Occidente. C’è chi si adagia nella convinzione che il conflitto israelo-palestinese sia una spirale di violenza indissolubile in cui ragione e torto non si distinguono più, e che dunque non ci può più riguardare. C’è chi nega la legittimità dello stato di Israele, e chi considera ogni critica al suo operato una negazione del suo diritto a difendersi.
Le discussioni sono rese più amare dalla loro inutilità. Gaza è ormai una distesa di macerie, le vittime – a oggi (dicembre 2024) circa 44000[1] – aumentano di settimana in settimana in quello che secondo molti ha tutte le caratteristiche di un genocidio, decine di ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas, le devastazioni continuano e l’autorità dell’ONU continua a essere ignorata, mentre qualcuno già pensa allo sviluppo immobiliare della Striscia.
Il conflitto ha una perenne rilevanza non solo per la sua violenza e le sue proporzioni. Solleva, infatti, problemi che trascendono il medio oriente. Mette in gioco, tra l’altro, il significato dell’Olocausto – tra gli eventi fondanti della “religione della memoria” nata dalle ceneri della Seconda guerra mondiale[2] – i legami tra l’Occidente – in particolare gli Stati Uniti – e lo stato di Israele, l’eredità del nazionalismo e del colonialismo. Più in generale, ci interpella in quanto attori etici e politici in un contesto globale sempre più interconnesso, e con tanta più urgenza perché tra noi e Israele c’è una fitta rete di legami istituzionali, culturali ed economici.
E c’è un altro fattore, non meno importante, che rende la percezione del conflitto divisiva: la difficile leggibilità delle sue radici storiche. A contrapporsi sono anche versioni molto diverse del passato, nutrite dagli antagonismi ideologici e le logiche mediatiche, che hanno l’effetto di distorcere, polarizzare e nascondere.
Il conflitto israelo-palestinese si presenta come una specie di balena bianca della storia pubblica. Molti dei suoi snodi decisivi appaiono elusivi, e nella coscienza dei più hanno un alone mitico. La loro elusività non è un dato trascurabile o una questione accademica. Ha ricadute sul significato politico del conflitto e, inevitabilmente, sui suoi risvolti giuridici, perché il passato non è solo il regno delle follie trascorse: è il fondamento degli ordini civili, delle comunità nazionali e delle richieste di riparazione.
Chi – come è successo a me – abbia provato a documentarsi se ne è presto reso conto. Ed è proprio dal punto di vista di chi non ne sa abbastanza che prendo la parola. Nelle considerazioni che seguiranno metterò in luce i punti di forza di un libro che può offrirci un aiuto importante per la conoscenza e la comprensione dei fatti: Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza, settembre 2024) di Arturo Marzano, uno storico del medio oriente che lavora da anni sulle radici del conflitto.
Ma la mia non sarà solo una riflessione su un libro e quel che se ne può trarre. Per dare il giusto rilievo al lavoro di Marzano vorrei far toccare con mano i problemi in gioco. Problemi che coinvolgono anche chi, da non specialista, si misura con l’intricata storia di quelle terre. Per farlo tornerò a un evento dalla portata colossale, che ha segnato le fasi iniziali del conflitto e la cui memoria ha contribuito ad animarne gli sviluppi: la Nakba.
Il problema della Nakba
Mai come nel caso della Nakba una conoscenza certa della storia risulta essenziale sul piano politico. Dopo il 7 ottobre 2023, la stampa ha rivisitato molti eventi chiave della storia di Israele, fornendo brevi sinossi e perfino, come “il Fatto Quotidiano”, dei Bignami dedicati al tema. Quasi tutti, ormai, associamo al termine “Nakba” l’esodo di circa 750.000 palestinesi tra il ’47 e il ’48, nel corso dei conflitti tra le forze militari sioniste (poi israeliane) da una parte e i palestinesi e gli Stati arabi dall’altra.
Nelle situazioni di conflitto tra popoli, la storia e la sua percezione hanno sempre un forte peso, e quello della Nakba appare incalcolabile. I campi profughi in cui vivono e hanno vissuto molti palestinesi sono la concretizzazione di un passato che ancora incombe, e il riconoscimento della Nakba è stato ed è parte di un’agenda politica. Le rivendicazioni palestinesi presuppongono il ricordo ancora bruciante di un’espulsione di massa, attorno al quale si è coagulata un’identità collettiva.
A questa certezza le autorità israeliane hanno dato una risposta netta, non solo militare. Il ministero dell’educazione ha decretato in più occasioni che l’uso del termine “Nakba” non fosse ammissibile nei libri di testo. E nel 2011 il parlamento ha approvato una legge che preclude l’assegnazione di fondi a associazioni che interpretino la nascita dello stato di Israele come un evento luttuoso[3].
Per capire il conflitto è inevitabile, quindi, cercare risposte sulla Nakba. E se si vuole andare a fondo bisogna cercarle nei libri, non sui siti web o sui giornali. Ma i libri cosa dicono? Anche negli studi intesi a fornire un’introduzione al problema e una ricostruzione degli eventi la Nakba è stata rappresentata in modi molto diversi. Per esempio, in Storia del conflitto israelo-palestinese di Claudio Vercelli, l’esodo palestinese è descritto in questi termini:
Benché quasi nessuna delle località arabe fosse stata fatta evacuare intenzionalmente, il livello degli scontri produsse da subito la fuga di molti abitanti, nel tentativo di sottrarsi alle violenze e di salvare la vita. Peraltro, ai comandanti di reparto dell’Haganah [il principale gruppo paramilitare sionista] era lasciato un discreto margine d’azione, potendo così interpretare gli ordini di occupazione dei territori arabi come il nulla osta per procedere ad espulsioni nonché alla distruzione degli abitati. Non di meno la propaganda araba, che batté molto il tasto delle presunte atrocità sioniste, enfatizzando le vicende di Deir Yassin, elette a paradigma del destino del paese intero qualora gli ebrei avessero vinto, contribuì a intimidire la popolazione. L’esempio che arrivava dalle autorità locali era peraltro demoralizzante, incentivando l’abbandono collettivo (95-96)[4].
Il libro di Vercelli è stato uno dei primi che ho consultato dopo anni che non leggevo sul tema. Permette, tra l’altro, di ripercorrere nei dettagli l’escalation verificatasi tra il ’47 e il 48 nei suoi sviluppi politici, sociali e strategici. Ma questo passo può disorientare, perché al suo interno le responsabilità sfumano. La violenza finalizzata all’espulsione c’è stata o no?
In qualche misura, sembrerebbe di sì. Nel passo citato leggiamo, infatti, che ai comandanti dell’Haganah era stata data carta bianca per le espulsioni. Qualche riga prima, inoltre, Vercelli evidenzia che “le intimidazioni da parte dell’Irgun e del Lehi [gli altri gruppi paramilitari sionisti] non si fecero attendere”, che “la prassi delle milizie sioniste di circondare i villaggi palestinesi produsse[ro] un clima di timore prima e di angoscia poi”, e che “l’offensiva militare dell’Haganah […] intensificò i trasferimenti coatti” (95). E non solo: poche pagine prima evidenzia anche come nelle prime fasi degli scontri le autorità sioniste avessero ordinato di “colpire centri abitati dalla popolazione araba per prevenire o disarticolare il potenziale aggressivo avversario” (83). Fu messa dunque in atto una strategia di intimidazione ai danni della popolazione civile – con conseguenze che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, era facile prevedere. Inoltre, nel luglio del ’48 “non meno di 50 mila palestinesi furono costretti a lasciare le città, assicurate al controllo israeliano” (89).
Ma nella valutazione di Vercelli l’esodo appare in certa misura frutto delle decisioni e della disorganizzazione dei civili arabi, spaventati dal “livello degli scontri” e dalla stessa propaganda araba. L’esodo sarebbe stato, in sintesi, il risultato di “complessi fattori” tra cui “vanno annoverate una serie di concause […] che interagirono tra di loro, alimentandosi vicendevolmente in quello che poi si trasformò in una sorta di «effetto slavina», destinato a precipitare sui civili” (95). In questa prospettiva, la Nakba è stata simile a una catastrofe naturale.
Altri storici – arabi e non – hanno un punto di visa diverso. Secondo The Hundred Years’ War on Palestine, dell’importante storico americano Rashid Khalidi – di una famiglia dell’élite palestinese – la Nakba fu il prodotto di espulsioni sistematiche, verificatesi, tra l’altro, a Haifa, Safed, Tiberiade e Gerusalemme Ovest già prima dell’invasione degli Stati arabi; dal 15 maggio del ’48 la violenza e le espulsioni si fecero poi più intense[5].
Laddove Vercelli parla di una “tragedia collettiva” (96), in cui l’esodo non è derivato, complessivamente, da un piano di espulsione perseguito manu militari, ma fu l’esito impersonale di una pluralità di concause, Khalidi descrive le espulsioni come il prodotto di atti deliberati: azioni violente che, in modo diretto o indiretto, esercitarono pressione sugli arabi.
Le due interpretazioni presuppongono un uso molto diverso delle fonti storiografiche. In nota Khalidi cita il filone di studi a cui si è rifatto, inaugurato da un articolo dello storico palestinese Walid Khalidi, che già nel 1961 aveva messo in luce l’esistenza di un piano per la conquista della Palestina chiamato “Piano Dalet” (menzionato anche da Vercelli)[6]. La tesi di Walid Khalidi è stata poi ripresa, anche se non integralmente, dai “nuovi storici” come Benny Morris e l’ormai notissimo Ilan Pappé.
Nella sezione del suo studio dedicata al “problema delle espulsioni” Vercelli cita invece, oltre ai due più importanti lavori dello stesso Morris, Vittime (1999) e Esilio (2004), il lavoro di un altro storico israeliano, Yoav Gelber[7].
Vittime è citato solo marginalmente. Tuttavia, la spiegazione dell’esodo come fenomeno derivante da una pluralità di concause sembra basata su quella che fornisce Morris in questo primo studio, poi modificata nel successivo. In Vittime, Morris dà un certo rilievo alle espulsioni – “è chiaro che Ben-Gurion voleva nel nuovo Stato ebraico il minor numero possibile di arabi” –, ma propende per una spiegazione sfaccettata: “anche dove le offensive delle forze armate e le espulsioni manu militari furono la causa immediata dell’esodo, è più giusto intendere quest’ultimo come il prodotto di un insieme di fattori e di un processo cumulativo”[8].
A Esilio Vercelli rinvia, invece, per una “discussione sull’intenzionalità dei fenomeni che portarono all’esodo di parte della popolazione locale” (94, n. 4). In questo secondo studio Morris ha, tuttavia, una posizione più netta. Sostiene infatti che dopo una prima ondata di fughe causate dal conflitto tra arabi e sionisti, dall’aprile del 1948 sia stata messa in atto, anche se non uniformemente, una chiara politica di espulsione, le cui tracce si rinvengono sia nelle affermazioni degli ufficiali sionisti sia nelle azioni dell’Haganah[9]. Questa politica continuò dopo l’ingresso in scena degli Stati arabi nel maggio del 1948 (e nell’interpretazione, più radicale, di Ilan Pappé fu un’operazione sistematica di pulizia etnica)[10].
Se nella prospettiva di Khalidi, insomma, le tesi di Morris confermano che delle azioni paramilitari causarono l’esodo – che fu, a tutti gli effetti, coatto – Vercelli rinvia a Morris, si direbbe, proprio per corroborare la sua spiegazione dell’esodo come risultato di un “effetto slavina”.
L’interpretazione di Vercelli risente anche dello studio di Yoav Gelber[11]. Secondo Gelber le strutture sociali e militari dei palestinesi non erano sviluppate abbastanza da reggere allo scontro con le forze sioniste: benché sia scaturito dal conflitto, l’esodo non fu, dunque, pianificato. Nella fase iniziale delle ostilità, prima dell’invasione degli Stati arabi, i palestinesi avrebbero lasciato le loro case per disorganizzazione e “disfattismo”, mentre i soldati sionisti li guardavano sbalorditi. Nella fase successiva, invece, l’esodo fu il risultato della “controffensiva” delle forze israeliane, e del fatto che, a fronte dell’invasione, l’espulsione era considerata una misura legittima. “In alcuni casi”, scrive, i palestinesi furono deportati, in altri furono “terrorizzati” e così indotti alla fuga, accelerata da “pochi massacri isolati” (8). E tra gli europei non era consuetudine permettere il ritorno dei profughi.
Secondo Gelber il “terrore” e i “massacri” furono l’effetto inevitabile di una guerra che erano stati i palestinesi a volere, perché insoddisfatti del piano di partizione, e la storiografia araba avrebbe posto un’enfasi eccessiva sulle responsabilità di Israele. Il suo lavoro avrebbe puntato, di contro, a una ricostruzione obiettiva dei fatti.
Capire il conflitto
Questo breve raffronto rende la scala dei problemi e delle implicazioni politiche che ogni narrazione del conflitto porta con sé. E del peso che i singoli punti di vista – per non parlare delle prospettive ideologiche – possono avere nella ricostruzione dei suoi snodi, nel dibattito storiografico come in quello pubblico.
A prescindere dagli eufemismi – “terrori” e “massacri” che si perdono in un caos di proporzioni bibliche – l’interpretazione di Gelber (come pure quella di Vercelli), apre un problema: la storia va considerata alla stregua di un fenomeno naturale, di un rivolgimento che dati i presupposti era inintenzionale e ingovernabile e per cui dunque non è possibile esigere riparazioni, o come una trasformazione per la quale è possibile determinare, retrospettivamente, responsabilità umane, sociali e nazionali?
Un versante in fin dei conti significativo dell’esperienza politica e giuridica successiva alla Seconda guerra mondiale e alla decolonizzazione suggerisce che le responsabilità vanno cercate. Dopo il 1945, i criminali di guerra furono trovati e alcuni (non molti) responsabili puniti, e la Germania restituì una parte (seppur minima) dei beni sequestrati. Si è trattato, certo, di operazioni dal raggio limitato, cosa di cui le comunità ebraiche europee possono, purtroppo, portare testimonianza. Furono molti più i colpi di spugna, e il numero dei profughi e dei deportati che non fecero ritorno nelle loro case è enorme.
È fuor di dubbio, però, che nel secondo dopoguerra il problema dei profughi fu formalizzato e si cercò di coordinare e favorire il rimpatrio o, alternativamente, l’asilo politico – perché molti profughi non avevano intenzione di tornare nei loro stati di provenienza, specialmente se entrati nell’orbita sovietica.
Si colloca in questa linea il consolidarsi di una giurisprudenza dedicata al “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi, che attraversa il diritto umanitario e il diritto internazionale, e che comprende le molte risoluzioni ONU dedicate alla questione israelo-palestinese, una delle quali – la risoluzione 302 dell’8 dicembre 1949 – ha determinato la nascita dell’Unrwa, l’agenzia che ha il compito di fornire aiuto ai profughi palestinesi[12]. Sebbene non si sia approdati a una formula giuridica universalmente accettata e sia da sempre evidente che la soluzione debba in primo luogo essere politica, è incontestabile che il raggiungimento di un compromesso non possa non comportare il riconoscimento israeliano dell’autodeterminazione dei palestinesi e, inscindibilmente, della ragione storica delle loro richieste[13].
Insomma: la storia non può essere facilmente liquidata come una tragedia collettiva. È vitale, quindi, approdare a una narrazione del passato quanto più possibile fondata, e trovare bussole che ci aiutino a orientarci nei suoi meandri. Questa terra è nostra da sempre di Arturo Marzano ci aiuta in questo compito, grazie alla sua organizzazione, alla sua chiarezza, e al suo uso dei rinvii bibliografici.
Coerentemente con l’identità della collana che lo ospita – “fact-checking”– Marzano ha strutturato il libro non come una singola narrazione di eventi, ma come la demistificazione o la precisazione di nozioni che ricorrono nella discussione diffusa su Israele e Palestina: nozioni su cui si basano spesso posizioni inconciliabili. Precisandole o smontandole, Marzano ci dà modo di superare impasse dialettiche comuni e al tempo stesso ci invita ad addentrarci nei dibattiti e nelle decisioni che sottendono il discorso della storia.
Ci spiega, infatti, quali siano le radici e le espressioni del sionismo, quale sia stata la percezione “orientalista” della Palestina che ha poi nutrito il progetto di colonizzarla (una lettura inaugurata da Edward Said, il cui ruolo nello sviluppo degli studi post-coloniali è stato determinato dalla sua esperienza di palestinese); quale ruolo abbia avuto Londra negli anni (perniciosi) dell’impero britannico e poi della Palestina mandataria; cosa sia di fatto successo nel 1948 e nel 1967 – gli anni, rispettivamente, della nascita dello stato di Israele e della Guerra dei sei giorni –; in che modo si possa interpretare l’operato dei Palestinesi nei pochi momenti in cui sono stati riconosciuti come attori politici; quali siano le caratteristiche della democrazia israeliana; cosa abbia portato all’ascesa di Hamas, che reprime ogni dissenso e gestisce il territorio come un’organizzazione mafiosa, ma non va confusa con ISIS; e in che modo interpretare il “nuovo” antisionismo, spesso assimilato all’antisemitismo. Così facendo Marzano ci conduce tra i presupposti del conflitto e in un complicato campo di studi, oltre che nella nostra stessa storia culturale (ricostruisce per esempio lo sviluppo di una percezione politicizzata del conflitto nell’Italia della fine degli anni ’60).
La struttura di Questa terra è nostra da sempre riprende quella di Dieci miti su Israele di Ilan Pappé[14]. Può però tornare più utile a chi del conflitto israelo-palestinese non sa molto. Il libro di Marzano è pensato per il clima in cui ci stiamo muovendo e non dà nulla per scontato, a cominciare dall’orientamento dei suoi lettori. È mosso dalla duplice intenzione di tornare ai fatti e di introdurci ai dibattiti che li riguardano.
Ma dal dedalo delle interpretazioni storiografiche Marzano non rinuncia a cercare vie d’uscita. In questo libro ci sono anche posizioni esplicite, frutto di un lavoro di comparazione e valutazione. Ed è in questa ricerca faticosa di impersonalità che si può trovare uno dei suoi punti di forza, anche sul piano retorico. Marzano sfugge all’ansia di posizionamento che permea il discorso sul conflitto e rende difficile stimolare una comprensione delle sue cause (un’ansia che non aiuta a far breccia nel muro di oblio che circonda i territori occupati e lo stato di Israele).
Inevitabile chiedersi in che modo Questa terra è nostra da sempre affronti il nodo della Nakba. Marzano torna al contesto del ’47 e del ’48 e al problema delle espulsioni, per verificare quanto fondata sia l’idea che l’obiettivo degli arabi sia stato “distruggere Israele”. Riguardo al piano Dalet, cioè al piano di conquista della Palestina, scrive che “anche se non ci sono prove del fatto che la leadership sionista […] abbia mai approvato e adottato ufficialmente il piano, il modo in cui venne condotta la guerra lascia pochi dubbi sul fatto che l’esercito israeliano si sia mosso secondo tali direttive” (69).
È quasi certo, dunque, che i massacri e le intimidazioni siano stati funzionali al controllo totale del territorio. Ed è evidente che in molti casi furono attuati con una piena cognizione dei loro effetti. Il generale Yigal Allon, per esempio, “diffuse con i megafoni il messaggio «se non fuggite subito sarete massacrati, e le vostre figlie saranno violentate»”. Nel ’48, “tra aprile e maggio […]”, scrive Marzano, “un’ampia parte della popolazione araba della Galilea era fuggita per paura di rimanere vittima dei massacri compiuti dalle forze sioniste o era stata espulsa da queste ultime” (73).
Pur in assenza di prove conclusive dell’esistenza di un piano organico di pulizia etnica, dunque, “restano […] dei dubbi legittimi” in proposito (78). È certo, comunque, non solo che le espulsioni ebbero luogo; anche che ai profughi non fu concesso il ritorno: il rientro di una parte di loro fu subordinato a un negoziato, poi fallito, con gli Stati arabi. È documentato, poi, che l’esodo e le feroci intimidazioni che lo causarono ebbero inizio prima dell’ingresso in scena di questi ultimi.
Il modo in cui Marzano tratta la Nakba esemplifica il suo stile. In pagine tanto dense quanto limpide attraversa gli eventi e i dibattiti sugli eventi, con un’integrazione capillare di esposizione e riferimenti. L’uso del sistema di citazione autore-anno, che permette di inserire i riferimenti nel corpo del testo, è qui molto più che una convenzione editoriale (non molti libri Laterza la usano). È funzionale a cartografare un campo di studi e al tempo stesso a stabilire una gerarchia di certezze su basi quanto più possibile esplicite. Questo libro punta, tra l’altro, a rinsaldare il legame tra il sapere accademico e il dibattito pubblico, minato dagli slogan e i post provocatori sui social media.
Capire Israele
E in questo libro più che in altri capire la storia di Israele fa tutt’uno col comprendere cosa Israele sia e sia stato. Molte delle considerazioni sul conflitto hanno infatti come presupposto concezioni della sua natura: baluardo, come spesso si sente dire, della democrazia in medio oriente o stato militarizzato e cripto-fascista?
Ovviamente, la risposta a questa domanda non è semplice. Sulle azioni militari di Israele e le loro implicazioni molto è stato detto e molto si può evincere. Ma è importante mettere a fuoco le sue caratteristiche istituzionali e sociali. E non solo per capire la natura del conflitto: anche per capire più a fondo le ragioni per cui continua a coinvolgerci. Dall’operato di Israele è difficile distogliere lo sguardo perché mette in questione ciò che noi stessi siamo o vogliamo essere. La politica israeliana è diventata una cartina al tornasole con cui misurare lo stato di salute della nostra coscienza civile e della nostra opinione pubblica.
A partire dall’idea diffusa che Israele sia “la sola democrazia in medio oriente”, Marzano si chiede dunque che tipo di democrazia sia nei fatti. La Dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele stabilisce un doppio diritto: Israele è nato per garantire agli ebrei uno stato nazionale nella loro terra ancestrale – un diritto derivante dal legame che ciascun ebreo ha con la terra dei suoi avi. Al tempo stesso, lo stato di Israele ha tra i suoi fini quello di garantire “completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di religione, razza o sesso” (133).
Ma nei decenni gli arabi israeliani hanno “subito un trattamento decisamente discriminatorio” (136). La “legge del ritorno”, che agevola l’immigrazione ebraica, comporta, per esempio, una disparità tra due etnie. E lo stato di emergenza, iniziato nel 1948, è tuttora in vigore e ha colpito perlopiù i cittadini arabi: per esempio “gli sfollati interni” a cui è stato proibito di tornare nelle loro proprietà, requisite ed espropriate. Fino al 1966, i cittadini arabi israeliani sono stati soggetti, inoltre, al regime militare, che ha imposto loro uno stato di segregazione. E sono molti i provvedimenti che hanno discriminato la minoranza araba – si vede per esempio dai diversi finanziamenti alle municipalità arabe e israeliane – per non parlare delle tremende restrizioni imposte agli arabi dei territori occupati.
Marzano mette in luce anche un altro dato. Viene spesso ricordato che il dibattito interno a Israele è molto vivace, ed è il segno di un pluralismo in buona salute. Eppure in contesti in cui l’ultranazionalismo è forte e il governo ne è espressione (la svolta a destra risale al 1977) non può che esserci una pressione sia sociale sia legale su chi si trova a promuovere il dissenso. Una pressione – si può aggiungere – che è spesso stata esercitata sulla vita accademica[15].
Su queste basi, suggerisce Marzano, è ragionevole concludere che Israele sia una “democrazia incompiuta” (144). Questa conclusione entra in risonanza con quanto scritto da un’importante storica dell’ebraismo come Anna Foa in un libro che idealmente e praticamente si affianca a quello di Marzano, e che riflette sul “suicidio di Israele”, cioè sulla sua involuzione autoritaria: una situazione che vede le carceri perennemente piene di cittadini arabo-israeliani e dei territori occupati, spesso trattenuti a tempo indeterminato, e i ministri di ultradestra sempre più liberi di abbandonarsi a dichiarazioni razziste, mentre i bombardamenti mietono vittime tra i civili e allontanano la pace[16].
Parlare di Israele
Se per un verso, guardando alla Nakba e alla Guerra dei sei giorni, Marzano torna agli eventi nodali del conflitto, per un altro guarda al modo in cui è stato percepito e discusso, e si concentra su un altro argomento ricorrente (sul quale si sofferma anche Anna Foa): una posizione antisionista può essere considerata una forma di antisemitismo?
Marzano ripercorre le riflessioni e le dichiarazioni sul tema, iniziando con parole di Ignazio La Russa del 27 gennaio 2024 in cui, significativamente, i due termini compaiono in coppia, a suggerire che siano pressoché intercambiabili. Prima ancora, il legame tra i due concetti è stato oggetto di considerazioni tra storici e intellettuali, non ultimo Jean Améry – che polemizzò con Primo Levi sull’eredità morale dell’Olocausto – oltre che tra politici e figure istituzionali del mondo ebraico, come lo stesso Netanyahu, che ha ribadito l’associazione tra le due attitudini. È stato poi oggetto della definizione della International Holocaust Remembrance Alliance e della Jerusalem Declaration on Antisemitism, stesa da intellettuali esperti di studi ebraici e antisemitismo. Sulla base di quest’ultima si può concludere che “definire antisemite critiche antisioniste significa impedire che il conflitto venga analizzato nella sua storia e presentato nella sua complessità” (182).
La ricognizione e le conclusioni di Marzano sono tanto più utili in quanto non c’è accusa di antisemitismo che non porti con sé l’ombra dell’Olocausto, costantemente evocata dal governo israeliano.
L’ombra dell’Olocausto avvolge da sempre il dibattito sul conflitto israelo-palestinese, e lo ha complicato e surriscaldato. Nell’ebraismo della diaspora è viva l’idea di Israele come ultimo rifugio nell’eventualità di un nuovo sterminio di massa. E il ritardo con cui molti in Europa hanno messo a fuoco la distruzione di Gaza è nato anche dalla paura radicata di profanare una memoria fondativa, tanto più perché il massacro perpetrato da Hamas – di cui, come ha ricordato Anna Foa, sono stati vittima kibbutzim “laici e di sinistra, impegnati nel mantenere rapporti di amicizia e aiuto con i palestinesi” (79) – ha risvegliato il ricordo dei pogrom.
Ma l’ultimo anno ci ha ricordato, fra l’altro, che la memoria dell’Olocausto è ancora volatile: può impregnarsi di sentimenti e di preconcetti, può essere monopolizzata o strumentalizzata. Può perfino essere usata da politici delle destre occidentali sensibili al fascino della Realpolitik e del militarismo.
La mia generazione è quella dei ragazzi che hanno letto Primo Levi a scuola e hanno consumato romanzi e film sull’Olocausto (molti dei quali problematici, ma per altre ragioni). Esperienze a cui si aggiunge l’aver ascoltato il racconto diretto delle aberrazioni del totalitarismo dalla bocca di chi le aveva vissute (nel mio caso – mi si passi la nota personale – il racconto delle persecuzioni subite dai miei nonni materni, ebrei, sopravvissuti a familiari e amici e spogliati di tutto).
Ci siamo illusi per qualche decennio che la memoria dell’Olocausto avesse un posto certo nella nostra coscienza comune, che la sua funzione fosse inequivocabile – ma è forte il timore che possa dissolversi o perdere il valore esemplare di cui testimoni e storici hanno faticosamente cercato di riempirla.
Purtroppo la sua fragilità è affiorata anche a causa delle politiche israeliane e di dichiarazioni che le hanno accompagnate. Il trauma non elaborato dell’Olocausto, incistato nella memoria collettiva di Israele, concorre da anni ad alimentare un atteggiamento di difesa preventiva, che si traduce in violenza militare sproporzionata e generalizzata, oltre che in una quotidianità di arbitrio e discriminazioni[17]. E non di rado l’Olocausto è stato invocato per mascherare gli equilibri del nostro presente – in cui Israele, con la sua impressionante potenza militare e la sua gestione oppressiva dei territori occupati, non può certo considerarsi vittima di – come scriveva Hannah Arendt – “massacri amministrativi” e vessazioni di stato.
Questo finisce col minare l’autorità di un’esperienza fondante e con l’offuscarne il ruolo paradigmatico. Perché la memoria dell’Olocausto non è solo espressione di un lutto collettivo: può anche essere – come auspicava il Primo Levi de I sommersi e i salvati – una pietra di paragone per orientare la nostra comprensione del presente e del futuro, un monito perenne dell’energia distruttiva che si annida al cuore di qualsiasi visione etnocentrica e di qualsiasi nazionalismo. L’orrore dell’Olocausto va redento di minuto in minuto fino alla fine della storia, guardando con sospetto a ogni abuso della violenza di stato e a ogni illegalità di stato, possibili fattori scatenanti che vanno subito isolati e neutralizzati. Come scrisse Levi, “Può accadere, e dappertutto”.
Il libro di Arturo Marzano non pretende di mettere un punto a queste questioni. Ma il suo fine è un altro. È uno strumento per agevolare i ragionamenti sul conflitto e ancorarli ai fatti, e per immaginare la pace. È sempre nella storia che ne cerca i semi.
L’ultimo capitolo contraddice infatti l’idea monolitica di un “odio atavico” andando alle voci che in Israele si sono pronunciate per la pace e ai rapporti di convivenza e cooperazione tra arabi e israeliani. Gli esempi non sono pochi. Nel 1925, nella Palestina mandataria, l’associazione Brit Shalom – “patto per la pace” – aveva riunito importati pensatori ebraici come Martin Buber e Gershom Scholem, che credevano nella possibilità di una coesistenza di arabi ed ebrei in vista di uno stato binazionale. Tra il ’47 e il ’48 si registrano inoltre circa “cento dichiarazioni congiunte di comunità arabe palestinesi ed ebraiche sioniste”, determinate a isolare gli estremisti e convivere in pace (69).
Ci sono tuttora nuclei di convivenza pacifica, come il villaggio di Neve Shalom/Wahat al-Salam (“Oasi di pace”), in cui c’è una scuola mista arabo-ebraica e cristiano-ebraico-musulmana; come pure associazioni israelo-palestinesi intese a fornire servizi a territori trascurati dalle autorità, per esempio Physicians for Human Rights Israel e l’Israel-Palestine Centre for Research and Information, entrambe fondate nel 1988. Marzano evidenzia come dopo il fallimento degli accordi di Oslo realtà di questo tipo si siamo moltiplicate, cercando soluzioni che a livello istituzionale sembravano impraticabili.
Quest’ultimo aspetto costituisce una storia alternativa del conflitto i cui eventi non trovano spazio nella maggior parte delle narrazioni, ma che sono linfa per una cultura dell’ascolto, utile per quelle terre martoriate come per chi da lontano si interroga sulle loro sorti.
Il presente di Israele e dei territori occupati è per molti di noi uno scenario terminale che risveglia i peggiori incubi del Novecento; sembra mettere a repentaglio l’idea stessa di progresso civile – tra i testimoni, sconvolti, c’è chi ha visto in Gaza il preludio alla fine dell’umanità. Ma se non riusciamo a distogliere lo sguardo da quelle terre è perché nel loro futuro non rinunciamo, nonostante tutto, a cercare un’utopia.
Note
[1] https://www.ochaopt.org
[2] Su questo vedi Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Laterza, Bari, 2024.
[3] Vedi Avner Ben-Amos, “The Nakba in Israeli History Textbooks: Between Memory and History”, in Quest. Issues in contemporary Jewish History, n. 16, dicembre 2019, 92-115: https://www.quest-cdecjournal.it/the-Nakba-in-israeli-history-textbooks-between-memory-and-history/#_ftnref35%C3%B9
[4] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2020 (nuova edizione).
[5] Rashid Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, Henry Holt, New York, 2020, 53 e seguenti.
[6] 53, n. 33 (195).
[7] Yoav Gelber, Palestine 1948: War, Escape, and the Emergence of the Palestinian Refugee Problem, Sussex Academic Press, Brighton, 2006 (2001).
[8] Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista, 1881-2001, Rizzoli, Milano, 2001 (cito dall’edizione digitale); Righteous Victims. A History of the Zionist-Arab Conflict, 1881-2001, Vintage, New York, 1999; su Esilio vedi la nota che segue.
[9] “But a vital strategic change occurred during the first half of April: Clear traces of an expulsion policy on both national and local levels with respect to certain key districts and localities and a general ‘atmosphere of transfer’ are detectable in statements made by Zionist officials and officers. They are discernable, too, in the actions of Haganah units around the country. A vital shift occurred in the mindset of the political and military leadership”, Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, Cambridge University Press, Cambridge, 2004, p. 166; ediz. italiana, Esilio. Israele e l’esodo palestinese, 1947-1949, Rizzoli, Milano, 2005. Nella conclusione, Morris ritorna su questo punto e afferma che l’espulsione, “deeply desired on the local and national levels by the majority in the Yishuv, from Ben-Gurion down” (589) non fu sistematica, ma legata alle circostanze e a singole iniziative.
[10] Vedi Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma, 2008.
[11] Vedi in particolare la nota 5 a p. 95.
[12] The United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East. Su questo punto, vedi Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, 97-98.
[13] Su questo è utile – come introduzione al problema – Jeremy Maurice Bracka, “Past the point of no return? The Palestinian right of return in international human rights law”, Melbourne Journal of International Law, vol. 6, no. 2 (2005), 272-312. Per una riflessione aggiornata sulla “Nakba” come concetto legale vedi Rabea Eghbariah, “Toward Nakba as a Legal Concept”, Columbia Law Review, vol. 124, May 2024, no. 4, 887-992.
[14] Ilan Pappé, Dieci miti su Israele, Tamu, Napoli, 2022 (2017).
[15] Su questo vedi Maya Wind, Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Edizioni Alegre, Roma, 2024.
[16] Anna Foa, Il suicidio di Israele, Laterza, Bari, 2024.
[17] Su questo punto, è utile il punto di vista, interno a Israele, di Avraham Burg, ben espresso in Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico, Neri Pozza, Vicenza, 2008 (2007).