di Andrea Cortellessa

 

Primiparo attempato, l’ingegnere (e capitano in congedo) Carlo Emilio Gadda esordisce, quasi quarantenne, nel 1931. Il suo primo libro La Madonna dei filosofi – composto di pezzi dal ’26 usciti in gran parte sulla fiorentina «Solaria», rivista à la page ma decisamente per happy few, che a pagamento stampa pure il libro – passa, però, pressoché inosservato. Fra i pochi critici ad accorgersene, un mammasantissima come Giuseppe De Robertis suggerisce – all’«ingegnere» che «ha girato il mondo e ci tiene a mostrarlo» – di corredare in futuro i suoi testi, non solo lessicalmente così ardui, di «un commento allegro a pie’ di pagina» che assai gioverebbe, ha motivo di credere, al lettore non filologo. Gadda incassa, e tre anni dopo al recensore dice d’aver accolto il suo consiglio: anche se le note al nuovo libro, nonché meramente esplicative, compongono piuttosto «una specie di risonanza o coro al testo». Da ora in poi consimili apparati accompagneranno i suoi libri, giungendo al parossismo con L’Adalgisa (che proprio allora si comincia a elaborare nello scartafaccio di Un fulmine sul 220); solo dal Pasticciaccio in volume, 1957, Gadda si risolverà a resecare del tutto le note.

 

È questa la trovata del Castello di Udine presentato nel ’34, sempre nelle edizioni di «Solaria», dal «Dott. Feo Averrois»: che promette ai lettori di devolvere ogni sforzo onde far «parere meno oscuro […] il convoluto Eraclito di Via S. Simpliciano». E sono in effetti le sue note a conferire relativa unitarietà ai materiali che compongono il volume, di per sé una volta di più all’insegna dell’eterogeneo: le cinque eponime prose alto-retoriche di memorie della Grande Guerra (a surrogare, e sottilmente tradire, i secretati quaderni di un «impossibile», cioè impubblicabile, Giornale di guerra e di prigionia che vedrà la luce solo – con sintomatiche intermittenze e reticenze – fra il ’55 e il ’65), le cinque puntate d’un reportage satirico da una Crociera mediterranea in Tripolitania e nell’Egeo, infine un ancora più composito mannello di sei apologhi sul dopoguerra diviso fra Polemiche e pace, con un viaggio sul «direttissimo» Roma-Milano a bordo del quale fatue discussioni letterarie sono bruscamente interrotte dal rilampeggiare dei lutti di guerra: un incidente uccide il figlio d’un reduce, «un artigliere da montagna, coi baffi» (qual era stato, ai tempi, il tenente Gadda anzi Gaddus: come allora, eroico-cesàreo, indulgeva a ribattezzarsi). Di colpo le chiacchiere si zittiscono: all’orizzonte, usciti dall’illusoria parentesi della «pace», corrusche s’addensano le nubi delle nuove tragedie a venire (un appunto rimasto fra le sue carte profetizza: «il passato è tempesta, il futuro è tenebra»).

 

 Il libro vincerà il premio Bagutta e sarà l’unico di Gadda, prima del tardivo boom del Pasticciaccio, a illuderlo d’una possibile vita da scrittore che invece, sino all’assunzione in RAI nel ’50 («praticante giornalista» a quasi sessant’anni, si lamenterà lui), dovrà alternarsi con la «schiavitù ingegneresca» (assorbente specie in quegli anni Trenta peregrinanti fra Belgio Germania e Vaticano). Già nel ’42, mentre il primo editore pensa a un’edizione di lusso della sola sezione “di guerra”, lui propone a Einaudi di ripubblicarlo integralmente; ma bisognerà invece attendere il ’55, quando Il castello di Udine verrà incluso, con la Madonna e L’Adalgisa, nel volume I sogni e la folgore. Come spiega il curatore Claudio Vela, per un editore come Einaudi – che pure sull’Ingegnere aveva messo gli occhi da un pezzo, e negli anni Sessanta riuscirà a diventare il suo main publisher – non doveva apparire opportuno, post-45, proporre il solo Castello. La ragione è presto detta (anche se la critica gaddiana l’ha quasi sempre sottaciuta): perché è questo, con tutta evidenza e sin dalla nota iniziale di «Averrois» (datata «li 14 novembre dell’anno 1933 di N.S. XII “a fascibus restitutis”»), il libro di Gadda più legato al «contesto storico pienamente fascista degli anni Trenta», e che mostra i «segni rivelatori del Gadda “non antifascista”». Facciamo appena un passo in più: Il castello di Udine è semplicemente l’unico, vero libro fascista di Gadda (iscritto ai Fasci “antemarcia”, sin dal ’21); e non può essere capito se non nel quadro della fittissima pubblicistica con la quale il regime egemonizzò la memoria luttuosa del ’15-18 (basti pensare alla faraonica mostra al Palazzo delle Esposizioni nel decennale della Marcia su Roma, che fra il ’32 e appunto il ’34 fece registrare quasi quattro milioni di visitatori).

 

Non solo la memoria di guerra rivendica con fierezza l’interventismo e il bellicismo del Gaddus (ben altrimenti critico, con quella sventurata vicenda, nei suoi «impossibili» diari live), prendendosela con la «sensibilità democratoide» della pacifista Società delle Nazioni (che infatti nel ’35-36, dopo l’invasione genocida dell’Etiopia, all’Italia infliggerà un embargo che servirà solo a rinsaldare il consenso al regime), ma anche la Crociera mediterranea è a ben vedere una sequela di prose propagandistiche che celebrano «le virtù libiche de’ pazienti coloni», e in generale il «rigore esecutivo di Roma» entro i perimetri del mare nostrum, fra Rodi e l’Albania: nello spirito del make Italy great again, insomma. In Libia il Gaddus semischerzoso indossa un casco bianco da «vecchio coloniale», e compiaciuto fa l’elemosina a una «sudanese» dalle «mammelle nere stupende», con «due occhi neri come l’Africa e con trentadue denti bianchissimi».

 

A occultare questo carattere del libro, il sapiente restyling proprio delle note (ora finalmente da Vela rese di nuovo integralmente leggibili, giustamente proponendo la princeps del testo, e così evidenziando la tendenziosità dei tagli di vent’anni dopo): nel ’55 Gadda si premura di cassare le più esposte (come quella che celebrava il sacrificio di sedici squadristi a Sarzana nel ’21), e di correggere il testo in pochi dettagli (come quello che nel ’34 definiva «giudaici» certi fitti esosi, divenuti poi «arpagonici»). Tanto tempo dopo dirà in un’intervista che proprio quell’anno, «con la guerra etiopica», aveva capito «cos’era il fascismo e come gli ripugnasse». Ma quella guerra è dell’anno seguente: mentre forse il «dissociato noètico» (come si definirà nei Viaggi la morte), che di lì a poco scriverà in contemporanea articoli in lode del regime e la lancinante allegoria antifascista della Cognizione del dolore, fa il suo esordio proprio con la composizione in volume del Castello. «Feo Averrois» (nickname preso dall’Inferno dantesco, dove Averrois, cioè Averroè, ad Aristotele il «gran comento feo») a volte si mostra solidale con la «frenesia bellica» dell’autore, altre invece ironizza sul «pasticcio» dei suoi «impulsi […] nazionalistico-patriottardi»: diviso è il testo come l’animo di chi lo scrive – e il giovane Contini, che al Castello dedicò il primo episodio della sua lunga fedeltà a Gadda, non a caso definì Averrois un «Doppelgänger» dell’autore.

 

Ringraziando per il Bagutta (in un pezzo del ’35 opportunamente da Vela collocato in appendice, insieme ad altri addendi preziosi), definì Gadda quel suo libro un documento del suo «strano viaggio nell’oceano delle lettere». Alludeva alla  (quasi un’anteprima di quella nei Caraibi, sessant’anni dopo, del Foster Wallace di Una cosa divertente che non farò mai più), ma a posteriori definisce bene pure quello che, col titolo dell’ominoso libro-denuncia di Ruggero Zangrandi, possiamo definire il suo lungo viaggio attraverso il fascismo. Data al 1931, proprio durante la stesura dei pezzi del Castello (e sulla stessa sede che li ospita, il fascistissimo quotidiano «L’Ambrosiano», fondato da un futuro firmatario del Manifesto della Razza), un episodio eloquente dell’«esistenza ubbidiente» – come l’ha definita Robert Dombroski – dei letterati italiani sotto il regime. L’Ingegnere aveva dedicato uno dei suoi articoli di divulgazione tecnica alle «leghe leggere», e due giorni giunge imperiosa al giornale una lettera di Arnaldo Mussolini, che loda l’autore ma gli ricorda l’importanza politica di quei materiali dall’ovvio valore “autarchico”. Sicché Gadda si deve affrettare a scrivere due altri pezzi, coi quali si genuflette alle «direttive segnalateci dall’illustre Direttore del “Popolo d’Italia”», «sensibilissimo interprete della coscienza economicistica della nazione». Le tenebre non erano mai state così fitte: la tempesta arriverà presto.

 

Carlo Emilio Gadda, Il castello di Udine, a cura di Claudio Vela, Milano, Adelphi, 2024, pagg. 339, € 22

 

[Una versione più breve di questo articolo è uscita sulla «Domenica» del «Sole 24 ore»].

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