di Nidesh Lawtoo

 

[Proponiamo in anteprima un estratto dal volume di Nidesh Lawtoo Homo mimeticus. Una nuova teoria dell’imitazione, cura di Emanuele Antonelli, in uscita domani per Carocci].

 

La nascita di Homo Mimeticus

 

 

Nato da un progetto interdisciplinare[1], dal titolo Homo Mimeticus: Theory and Criticism, con una doppia affiliazione alla filosofia e alle arti, questo volume presenta una scelta di saggi scritti nel quinquennio 2017-22. Alcuni sono apparsi su riviste accademiche, specializzate in discipline quali la filosofia continentale, la teoria letteraria, gli studi sul cinema e la teoria politica[2]. Sebbene tutti contribuiscano allo stesso identikit dell’homo mimeticus, i vincoli accademici della specializzazione disciplinare hanno reso la loro connessione genealogica difficile o impossibile da scorgere o da delineare, tanto per un pubblico generico quanto per lo specialista. Per il presente volume sono stati dunque ampliati, adattati e organizzati in un insieme coerente e prospettico. I capitoli che trattano della vita mimetica, della mimesi virale nonché il dialogo finale con Morin compaiono invece qui per la prima volta. Ogni capitolo è a sé stante e può essere letto singolarmente dal lettore con un interesse determinato per un aspetto specifico dell’homo mimeticus. Da un lato ho cercato il più possibile di evitare inutili ripetizioni, ma anche di riprendere in ogni capitolo gli elementi essenziali della teoria della mimesi da me proposta, come reminiscenze o motivi ricorrenti. Questo approccio dovrebbe permettere al lettore di tracciare una propria traiettoria il più liberamente possibile, a seconda dei propri interessi e delle proprie inclinazioni, ascoltando anche variazioni della stessa melodia.

 

Poiché il mio metodo genealogico presuppone che l’innovazione emerga dal confronto con precursori autorevoli, il lettore incontrerà una serie di mani che hanno contribuito a tracciare i contorni degli studi mimetici. Cominceremo a districare il complesso nodo della mimesi in conversazioni critiche con alleati antichi, moderni e contemporanei. I loro nomi vanno da Platone a Nietzsche, da Roger Caillois a René Girard, da Hannah Arendt ad Adriana Cavarero, da Jacques Derrida a Catherine Malabou, da Philippe Lacoue-Labarthe a Jane Bennett, a Edgar Morin, oltre ad altri fautori della svolta mimetica, o del suo ri-torno, che offrono prospettive diverse su un soggetto mutevole. Per il lettore che si trova a seguirne il filo dall’inizio, dal centro piuttosto che dalla fine, la divisione in tre parti indica il movimento generale della nostra traiettoria: i saggi sono organizzati in modo da delineare un disegno a spirale che si espande genealogicamente dalla filosofia all’estetica, alla politica, muovendosi diacronicamente dalla preistoria all’antichità, dalla modernità al presente, fino alla crisi pandemica del covid-19. Insieme, rivelano la centralità della mimesi per una pluralità di problemi destinati a segnare il xxi secolo.

 

Mi preme precisare che, nel delineare i contorni dell’homo mimeticus, la mia aspirazione non è stata di sviluppare una teoria transtorica universale della mimesi che riduca un fenomeno proteiforme e in costante mutamento a un singolo schema, una sola struttura o forma. Piuttosto, il presente volume adotta un approccio prospettico discontinuo e selettivo nella scelta di autori, testi e problemi, ma genealogicamente coerente nel senso che ogni capitolo riprende e amplia il precedente, in un movimento a spirale che ne sviluppa le complesse implicazioni da una prospettiva disciplinare diversa ma intrecciata. È infatti solo muovendosi e cambiando prospettiva che una nuova teoria dell’imitazione può gettare luce su fenomeni che rimangono opachi agli approcci disciplinari, e che tuttavia proiettano la loro lunga ombra sulle pratiche contemporanee.

 

Il nostro presupposto metodologico è che le lenti “interdisciplinari” o “transdisciplinari” non sono semplicemente un abito accademico alla moda da indossare ed esibire quando si esce in città. L’adozione di queste lenti è piuttosto un’impegnativa pratica trasversale o, come la chiama Roger Caillois (2003a), «diagonale», che richiede le qualità di un «costruttore di ponti» più che quelle di una «talpa efficiente e miope» (ivi, p. 344). Ciò che Michel Serres dice dell’homo pontifex vale anche per l’homo mimeticus: «Fare da ponte, in generale, diventa un’attività così ampia che coincide forse con l’intero progetto umano, in quanto il nostro stesso corpo fa da ponte tra carne e parola» (in Lury et al., 2018, p. xxii). I ponti interdisciplinari sono fondamentali per seguire un fenomeno camaleontico che cambia colore per adattarsi a diversi scenari storici, teorici e contestuali. Se in passato questa figura bifronte, gianuina, è stata divisa e frammentata in schieramenti disciplinari concorrenti che riducono la mimesi a tecniche di rappresentazione, siano esse estetiche, filosofiche o politiche, la mia principale scommessa è che queste prospettive traggano vantaggio dall’essere unite nel presente per ridisegnare, se non un quadro della mimesi completo e definitivo, almeno un qualcosa di più sfaccettato, a spirale, dinamico, orientato al futuro. Ciò che dovrebbe palesarsi, alla fine, è un disegno singolare-plurale dell’homo mimeticus, in cui un insieme in movimento, non dissimile dalle Mani che disegnano, emerge dall’interazione dinamica e a spirale delle sue parti costitutive. Inutile ricordare che la caratteristica distintiva di una spirale non è certo la staticità, ma il suo progressivo e incompiuto movimento di ampliamento.

 

Questo vale almeno per i contorni concettuali e affettivi generali del quadro degli studi mimetici che ci proponiamo di tratteggiare. Ma che dire del colore, della tonalità e dell’identità di questo soggetto indeterminato che è nessuno e che disegna mentre viene disegnato? È una domanda cruciale, da affrontare immediatamente almeno per una duplice ragione genealogica. In primo luogo, la nozione di homo (dal latino, “uomo, umano”) confonde tradizionalmente il concetto già contestato di una condizione specificamente “umana” con una concezione problematica e superata di “uomo” che, sotto la maschera di un universale astratto, egemonico e piuttosto violento, è stata a lungo tradizionalmente limitata a una prospettiva bianca, maschile, occidentale, privilegiata e normativa. Prevalente fino al secolo scorso, sotto la pressione dei movimenti per i diritti civili, del femminismo, delle prospettive postcoloniali, decoloniali e lgbtq+, questo androcentrismo si rivela sempre più obsoleto, ma continua proiettare la sua ombra sulle pratiche politiche. In secondo luogo, l’ombra del patriarcato è ancor più grave se ricordiamo che il concetto greco di homo (da ὁμο, “lo stesso”) rischia ugualmente di ridurre la diversità delle identità – siano esse individuali o collettive, culturali o geografiche, estetiche o politiche – a un concetto omogeneo che non riflette né rappresenta la pluralità dell’essere umano, tantomeno il postumano del xxi secolo. Se poi abbiniamo all’etimologia tradizionale di homo un concetto altrettanto tradizionale di mimeticus e l’omologazione che l’imitazione tradizionalmente comporta, ci troviamo di fronte a una triplice rimozione della pluralità di prospettive genealogiche, estetiche e politiche che questo libro si propone di affermare. Perché, allora, mantenere il concetto di homo mimeticus? Non sarebbe più opportuno cancellare le tracce di una tradizione patriarcale, androcentrica, fallologocentrica e, in ultima analisi, metafisica, inscritta nell’identità stessa (dal latino identitas, da idem, “lo stesso”) degli esseri umani? Questa sarebbe, in effetti, l’opzione più semplice e conveniente. Tuttavia, non eliminerebbe il problema; se non altro perché, a oggi, non abbiamo a disposizione un nome alternativo per designare una specie il cui genere, da quando Carl Linnaeus coniò il termine nel 1758, è ancora raggruppato sotto la dicitura Homo sapiens. Piuttosto che negare questa genealogia, o far finta che non informi la nostra (pre-i)storia, mi assumo il rischio di mantenere provvisoriamente il concetto di “homo”, e questo per almeno due motivi: in primo luogo, per aggiungere una sfaccettatura diversa alla concezione tradizionale di Homo sapiens inteso come soggetto pienamente razionale, autonomo e libero, rivelando la sua controparte affettiva, incarnata e dipendente dalle relazioni; e in secondo luogo, perché accoppiando l’homo con una concezione diversa, immanente e antimetafisica della mimesi, che non sta semplicemente dalla parte della somiglianza o della differenza, ma è sensibile all’interazione dinamica tra somiglianza e differenza, possiamo continuare a decentrare e deterritorializzare, disegnare e ridisegnare, le concezioni normative di ciò che si suppone l’umano sia nel presente, e possa potenzialmente diventare in futuro. Da qui il titolo del presente volume. Quanto al colore del nostro disegno dell’homo mimeticus, forse lo avrete già intuito. Prendendo spunto da Mani che disegnano e con la consapevolezza che la mimesi va oltre il bene e il male, approfondirò l’intuizione di Nietzsche sul colore privilegiato per le genealogie. Nella prefazione alla Genealogia della morale (1887), Nietzsche offre infatti il seguente consiglio ai genealogisti del futuro: piuttosto che il bianco delle «nuvole»[3], dove sono campate le ipotesi dei filosofi idealisti da Platone in poi, suggerisce ai genealogisti di prestare attenzione a ciò che è «grigio, il documentato, l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito» (Nietzsche, 1993b, GM, § 7, p. 585).

 

Certo, il grigio non ha l’attrattiva immediata che hanno il bianco delle nuvole o il blu del cielo e con loro le idee astratte, universali e immutabili situate in quel mondo ideale «dietro il mondo» (Hinterwelt) (ivi, § 3, p. 582). Tuttavia, il grigio si presenta in diverse sfumature che meglio registrano la tonalità mutevole delle superfici immanenti e materiali di questo mondo. Si richiede quindi un capovolgimento di prospettiva per sviluppare una lente efficace al fine di mettere a fuoco ciò che è realmente esistito e tuttora esiste, radicato in questo mondo. Come riconosce anche Michel Foucault (1977, p. 29), facendo eco a Nietzsche: «La genealogia è grigia, meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte riscritte». Per far riapparire l’immagine grigia dell’homo mimeticus, bisogna raschiare strati su strati di vecchi documenti ingarbugliati che continuano a gettare luce sul presente. Documenti che non possono più essere solo antichi o moderni, devono includere anche i testi e i media contemporanei. Nel processo, una genealogia della mimesi presterà particolare attenzione alle condizioni concrete di una vita mimetica tradizionalmente confinata al fondo della caverna platonica. Nonostante la sua oscurità e i suoi giochi di ombre, essa rivela le zone grigie immanenti di quel mondo sensibile, materiale e in rapida evoluzione che, pur davanti alla crescente proliferazione di ombre digitali su una molteplicità di specchi neri, o forse proprio per questo, è tutt’oggi il nostro unico mondo. Da qui l’urgenza di guardare indietro a importanti precursori per comprendere meglio i fantasmi che abbiamo davanti.

 

Riferimenti bibliografici dell’estratto:

 

Caillois, R. (2003), A New Plea for Diagonal Science, in Frank, C. (ed.), The Edge of Surrealism: A Roger Caillois Reader, Duke University Press, Durham (NC), Routledge, London.

Lury C. et al. (eds.) (2018), Routledge Handbook of Interdisciplinary Research Methods, Routledge, London.

Foucault M. (1977), Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, trad. it. Einaudi, Torino, pp. 29-54.

Nietzsche, F. (1954), Werke in drei Bänden, hrsg. von K. Schlechta, 3 Bd., Hanser, München, Band II.

—, (1993), Opere 1882-1895, a cura di F. Desideri, trad. it. Newton Compton, Roma.

 

Note

 

[1] Finanziato con un bando ERC (European Research Council).

[2] Versioni più brevi sono apparse nelle seguenti riviste: capitolo 1 in “CounterText”, 8, 1, 2022, pp. 61-87; capitolo 3 in “Modern Language Notes”, 132, 5, 2017, pp. 1201-24; capitolo 4 in “Film-Philosophy”, 25, 3, 2021, pp. 272-95; capitolo 5 in “Political Research Quarterly”, 74, 2, 2021, pp. 479-90. Sono molto grato a tutte queste riviste per avermi permesso di riprodurre, rivedere e ampliare questi articoli per formare un insieme prospettico sull’homo mimeticus. Altri articoli, non inclusi in questa sede, sulle prospettive mimetiche che vanno da G. Bataille a D. H. Lawrence, da Avatar a Black Mirror, dalle teorie della cospirazione al postumano, sono disponibili su http://www.homomimeticus.eu/publications/.

[3] Nel testo originale di Lawtoo, come pure in quello di Nietzsche (1954, § 7, p. 768), si legge «blu [in’s Blaue]». In lingua italiana, alcuni traduttori hanno reso il passo alludendo al “bianco” delle nuvole, altri al “blu” del cielo [N.d.T.].

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