di Enrico Redaelli
[Proponiamo in anteprima un contributo di Enrico Redaelli contenuto nel nuovo numero di “Shift. International Journal of Philosophical Studies”, intitolato “Radical Thought 2”, a cura di Daniela Calabrò e Massimo Villani, di prossima uscita per le edizioni Mimesis]
Nome
Il patriarcato è stata una forma di biopolitica. Ossia, come direbbe Foucault, un certo modo di gestire la vita umana e la sua riproduzione. Per molti secoli, nelle società patriarcali, la vita è stata gestita e riprodotta sulla base del Nome. Il Nome del padre tramandato di generazione in generazione. Ossia, il patronimico. Non semplicemente un cognome, come è oggi, ma il contrassegno dell’appartenenza a una dinastia, a un clan familiare, a una tribù: un vessillo, uno stemma, una bandiera. Di più. Il Nome è, nel contesto delle società arcaiche, un vero e proprio dispositivo di soggettivazione: una sorta di stampo attraverso cui la vita si riproduce prendendo una determinata forma. In quella forma venivano forgiati soggetti, ruoli, relazioni, usi e costumi.
Marchio
Leggiamo nel Genesi: «A centotrenta anni Adamo generò come sua somiglianza secondo la sua Immagine» (Gn 5,3). L’atto generativo umano perpetua l’immagine (la «forma») del padre, in questo caso Adamo, a sua volta creato a immagine e somiglianza del Padre. Nelle società patriarcali non si riproduce mai la semplice e generica vita, ma sempre una vita forgiata nella forma, ossia una «forma di vita». Il Nome è qui il primo «marchio» che iscrive la vita ancora anonima all’interno della comunità: nei termini di Lacan, è il «tratto unario» che soggettivizza[1], sicché l’essere vivente, nel momento stesso in cui è nominato e viene alla luce come soggetto, è marchiato. Sarà perciò erede di questo marchio e indebitato con la sua provenienza. Infatti, secondo un leitmotiv tipicamente indoeuropeo, il Nome imprime alla vita naturale ancora indistinta (matrice «femminile» della generazione) la forma culturale della Legge (lo stampo «maschile» che mette ordine al caos).
Nella cultura occidentale questa concezione della vita e della sua riproduzione trova una formulazione esemplare nelle Eumenidi di Eschilo – vera e propria fondazione mitologica del patriarcato – dove il principio maschile e paterno è elevato a forza attiva e generatrice della vita, mentre il principio femminile e materno viene retrocesso a semplice supporto passivo[2]. L’azione della cultura sulla natura è perciò vista come una dominazione del maschile sul femminile che trova il suo analogo nel lavoro agricolo dove l’azione culturale dell’uomo (la tecnica agricola) permette di penetrare e seminare una natura passiva (la terra da arare). La stessa logica di fondo permea la metafisica aristotelica (l’atto agisce sulla potenza come la forma plasma la materia e come l’intelligenza maschile domina la natura femminile[3]).
Eternità
Verso la fine del film Barbie (Greta Gerwig, USA 2023) a un certo punto si dice che gli esseri umani inventano cose come il patriarcato per affrontare la morte. Profonda verità. Quale altra funzione dovrebbe avere il Nome? Se esso è il primo dispositivo biopolitico è perché, in quanto «forma», è la vera garanzia contro la morte. Infatti, la vita individuale è inevitabilmente destinata al trapasso. Non così il Nome, da intendersi come stampo che riproduce la vita entro la stessa forma, come marchio che si perpetua nel tempo. Si radica qui il sogno di vita eterna del mondo antico: «io morirò, ma il mio nome (il buon nome di famiglia, la fama, la gloria, lo stemma) saranno eterni». S’intende: se i figli sapranno portare questo Nome, se cioè ricalcheranno le orme del padre, se la loro vita si plasmerà nel calco di questa forma. Leggiamo nel Libro del Siracide: «suo padre è defunto, ma è come se non fosse morto, perché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé» (Sir 30,4). Grazie ai figli è come se non si morisse del tutto. La discendenza assicura la sopravvivenza del Nome: eternità della «forma di vita» – al di là della morte del singolo individuo – riprodotta nel Nome del padre.
Patria potestas
Affinché il Nome sia la forma eterna entro cui la vita si riproduce sono necessarie due condizioni. La prima è che la discendenza sia di sangue. E poiché mater semper certa, pater numquam, il possesso esclusivo della donna è l’unica garanzia della consanguineità della prole.
La seconda condizione è che tale prole viva, appunto, nel Nome del padre, prosegua cioè la sua opera, la sua vita, le sue regole. Riferendosi a Yoyakin, re di Giuda deportato a Babilonia, dice Geremia: «Registrate quest’uomo come sterile, uno che non è riuscito nella sua vita, perché della sua discendenza neppure uno riuscirà a sedere sul trono di Davide e a governare su Giuda» (Ger 22,30).
In breve, le due condizioni per sconfiggere la morte attraverso la reiterazione del Nome, sono la disposizione esclusiva della moglie e la disposizione asservita dei figli, ossia la patria potestas. Ma quella codificata nel diritto romano è solo la versione più celebre di una delle più antiche forme di biopotere conosciute dall’essere umano nelle società patriarcali: potere sulla vita per rendere eterna la propria «forma di vita».
Pedine
Nelle società patriarcali i figli sono perciò proprietà dei genitori, sorta di «protesi vitale» del padre attraverso cui la sua «forma di vita» è garantita contro la morte. Più se ne hanno, più si allarga il cerchio delle parentele e la possibilità di perpetuare il proprio Nome. Per questo motivo, i figli diventano pedine sulla scacchiera sociale, ossia doni scambiati con altri gruppi familiari. Hanno origine qui le relazioni di scambio all’interno della comunità (la cosiddetta «economia del dono» studiata da Mauss e Malinowski). In particolare, il corpo delle figlie (in quanto in grado di rigenerare la vita) diventa uno dei doni più preziosi (l’uomo che lo riceverà potrà riprodurre il proprio Nome) ovvero la prima effettiva forma di moneta. Grazie a questa è possibile tessere alleanze e parentele con gli altri clan, da cui il noto scambio delle donne ampiamente indagato da etnologi e antropologi[4]. Ricevere il Nome significa perciò essere accolti, ma anche immediatamente subordinati, in quanto iscritti nella rete patriarcale dei doni e dei loro scambi, ossia nella rete dei debiti e dei crediti sociali.
Numero
Se il patriarcato è un modo di gestire la vita nel tentativo di sconfiggere la morte, la sua crisi, avviata con l’inizio dell’età contemporanea, è anzitutto una crisi del Nome come dispositivo biopolitico. Il dispositivo patriarcale non è sostituito da uno di segno opposto (femminile o matriarcale), ma da un dispositivo completamente altro: un nuovo ordine biopolitico che non ruota più attorno al Nome quanto piuttosto attorno al Numero. Per così dire, non importa che nome hai ma quanti numeri fai.
Nel corso degli ultimi secoli assistiamo in più ambiti a un passaggio dal regime del Nome al regime del Numero. L’alba di questa trasformazione potrebbe essere ricondotta alla nascita e allo sviluppo della moneta a partire dalla fine del VII secolo a. C. Questa segna il transito dal regime simbolico dei vincoli e degli obblighi sociali legati al Nome (l’economia del dono) a un regime di meri rapporti quantitativo-astratti del tutto anonimi (l’economia monetaria). Se lo scambio di doni si basava sul Nome e sulla sua rete di alleanze e filiazioni, ora non importa più chi sei, a che stirpe appartieni, a quale tribù, tradizione e religione sei legato: pecunia non olet. I due regimi convivono a lungo, finché, in epoca moderna, la matematizzazione della natura avviata con Galilei e Cartesio e lo sviluppo del capitalismo non portano a un sorpasso della potenza del Numero su quella del Nome. È l’ascesa dell’algoritmo sulla logica «umanistica» della parola.
Prende così piede il sogno di un mondo in cui l’eternità è garantita non più socialmente (sogno di rendere eterno il Nome come «forma di vita» che si tramanda attraverso generazioni) ma individualmente (sogno di rendere eterna l’identità del singolo travasata in un chip e trapiantata in corpi sempre nuovi). Un altro sogno biopolitico di vita eterna, un altro tentativo di sconfiggere la morte, che rende più comprensibile l’altrimenti inspiegabile fenomeno del calo delle nascite: per interi millenni la prolificità è stata un valore, nonché un vanto, in tutte le civiltà umane conosciute, mentre nella moderna società occidentale non si fanno più figli. Il potere non risiede più nel riprodurre la vita iscritta nella parola e nel Nome della stirpe ma nella capacità di riprodurre la vita iscritta nel codice informatico.
Monismo
Col crollo del patriarcato viene meno, un pezzo per volta, anche tutta la metafisica sottostante. Non semplicemente i rapporti tra uomo e donna e tra padre e figli, ma l’idea stessa di una natura passiva segnata da un’azione della cultura. Non a caso l’odierno pensiero ecologista – da Bruno Latour a Timothy Morton – e alcune avanguardie del pensiero femminista – da Donna Haraway a Jane Bennett a Karen Barad – non si limitano a mettere in questione l’idea di un mondo in cui la natura sarebbe inerte e passiva e l’agency un’esclusiva dell’essere umano, ma smontano lo stesso dualismo natura/cultura prediligendo una visione monista: tra la materia inorganica e l’organizzazione organica in tutte le sue forme, compresa la vita umana, non c’è soluzione di continuità. Già nei primi anni Novanta Judith Butler aveva mostrato come il paradigma di una cultura (attiva) che incide/insemina/plasma la natura (passiva) è un paradigma pregiudicato che informa anche la nostra concezione di sesso/genere, per cui vi sarebbe un sesso (naturale) come base e supporto sul quale viene poi a iscriversi il genere (culturale)[5].
A non reggere più è un intero sistema di metafore, di dualismi, di partizioni e di ruoli (passivo/attivo, naturale/culturale, femminile/maschile) che tentano ancora di catturare la vita e la sua riproduzione a patire dalla logica del Nome. Il crollo coincide con un grande processo di emancipazione della vita individuale e sociale mentre tutti i vincoli si spostano altrove. Vincolante è ora solo la logica del Numero, le cui promesse di libertà e le cui nuove forme di schiavitù sono tutte da vagliare.
Note
[1] Lacan ne parla nel Séminaire, Livre IX, L’identification (1961-1962), inedito.
[2] Cfr. Eschilo, Orestea. Agamennone, Coefore, Eumenidi, Mondadori, Milano 2017.
[3] Sul dominio dell’uomo sulla donna cfr. Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1973, in particolare 1252a-1252b.
[4] Cfr. in merito il fondamentale lavoro di Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010.
[5] Cfr. J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996.
Molto interessante, grazie.
Temo che la logica del Numero, e soprattutto le sue “nuove forme di schiavitù”, siano facilmente analizzabili fin d’ora!
SEGNALAZIONE
Franco Piperno
Innovazione tecnologica ed educazione sentimentale
Estratto da Sentimenti dell’aldiqua (DeriveApprodi, 2023)
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Stralcio:
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A prima vista si potrebbe credere che il moltiplicarsi a dismisura delle memorie informatiche, nella forma di banche dati, prosegua quel lavoro di accumulazione e conservazione del sapere intrapreso dalla scrittura. Si tratta di un malinteso. Le banche dati non raccolgono, nella generalità dei casi, tutte le verità su una questione determinata, ma solamente l’insieme delle conoscenze utilizzabili da un cliente solvibile. Quasi i due terzi delle informazioni accumulate nel mondo concernono dati strategici, economici, commerciali, finanziari ultraspecializzati. L’uso della banca dati è innanzitutto operativo: ottenere l’informazione più affidabile, il più presto possibile, per prendere la decisione più efficace
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(da https://www.machina-deriveapprodi.com/post/innovazione-tecnologica-ed-educazione-sentimentale?fbclid=IwY2xjawH2WTFleHRuA2FlbQIxMQABHZ6LI9tgECQxAD-fPA6nlGK5hmNATHtqk_AhVNINOlXZGwG2BH5PwoKdog_aem_n2jUW2JLkUIHaEfXWjceNA)
ARCHEOLOGIA, LINGUISTICA, , FILOLOGIA, E MATEMATICA, E COSMOTEANDRIA “COSTANTINIANA”: L’UNO , I MOLTI, E IL TRAGICO “NUMERO” DEL NOME DELL’ONU.
SE, ORMAI, ALL’ALTEZZA DELL’ ANNO 2025, “A non reggere più è un intero sistema di metafore, di dualismi, di partizioni e di ruoli (passivo/attivo, naturale/culturale, femminile/maschile) che tentano ancora di catturare la vita e la sua riproduzione a patire dalla logica del Nome. Il crollo coincide con un grande processo di emancipazione della vita individuale e sociale mentre tutti i vincoli si spostano altrove. Vincolante è ora solo la logica del Numero, le cui promesse di libertà e le cui nuove forme di schiavitù sono tutte da vagliare.” (Enrico Redaelli, “Dal Nome al Numero. La biopolitica patriarcale e la sua crisi”, cit.),
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ALLORA VUOL DIRE CHE, DOPO IL RISVEGLIO DI DANTE ALIGHIERI dai “venticinque secoli” di “letargo” (Par, XXXIII, 94), tutti e tutte hanno preferito continuare a dormire profondamente (ancora per sette secoli, fino ad oggi) e a fare “sogni d’oro” nella “casa-caverna” di Mammona, e del suo Re Filosofo, “Platone”.
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“IO, PLATONE, SONO LA VERITÀ ” (NIETZSCHE). Già, al tempo delle tragiche lezioni all’Accademia, Diogene Laerzio racconta , quando “Platone aveva defìnìto l’uomo un animale bipede, senza ali, ed aveva avuto successo, Diogene [di Sinope] spennò un gallo e lo portò in aula esclamando: Ecco I’uomo di Platone”, ieri come oggi tutti lo trattarono come un cane (con le “cimici”) e si dice che lo soprannominarono “Socrate pazzo”.
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Oggi, nonostante il lavoro delle talpe e dei minatori, il “regista” dell’Occidente planetario è sempre lo stesso e anche tutte le “regole del gioco”, e del tragico giogo, sono sempre le stesse (cfr. Federico La Sala, “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani editore, roma 1991)!
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Qualcuno ha avuto una buona “idea”, quella di coniugare Dante e Machiavelli (Giacomo Marramao, “Modernità di Dante, Einaudi), ma, a quanto pare, lo hanno trattato come “Diogene” (o, meglio, come “Hegel”), come un “cane morto”, un “cinico” che gioca a fare la “golpe” e il “lione”. Uscire dal “sonno dogmatico” e riprendere il cammino con Kant, Helmholtz, Marx, Freud, Nietzsche, Foucault, e Fachinelli, è assolutamente “inattuale”.
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Federico La Sala