di Giulia Martini
[E’ uscito da poco per Carocci L’apocalisse dialogica. Scambi di battute nella poesia italiana del Novecento, di Giulia Martini. Ne proponiamo la prefazione].
Dialogo e lirica sembrano, a prima vista, irriducibili l’uno all’altra. Il senso più comune di entrambi i termini rimanda a due tipi diversi di evento discorsivo e, di fatto, a due diversi tipi di relazionalità: sociale e individuale. Evento, discorso e relazione sembrano invece in continuo cortocircuito: ogni discorso implica una relazione, nella relazione si produce un evento ricostituibile come discorso, e via dicendo. Se il dialogo è un evento sociale fondato sulla cocostruzione di un discorso da parte di due parlanti in relazione, il gesto lirico si presenta come l’evento di un singolo individuo, il suo divenire nell’identità locale (cioè nello spazio discorsivo) di un atto linguistico da lui stesso prodotto, mettendo in relazione sé con sé.
L’apparente irriducibilità dei due processi rende saliente la questione della loro intersezione nei testi dialogici, ossia quelle liriche che riportano scambi di battute dirette tra interlocutori; e rende saliente il complesso di questioni che vi ruotano attorno: di cosa e in che modo si parla, perché l’espediente dialogico si attiva, che tipo di orientamento produce nel testo, come ci entra in rapporto. In breve, quali sono le forme e le funzioni degli scambi di battute in poesia. Fin dalle prime fasi di questa ricerca, è emerso un fenomeno orizzontale al punto da intitolarla e determinarne l’intera prospettiva, quello dell’apocalisse dialogica: gli scambi si presentano connessi a una sorta di difetto di fabbrica, da cui prende vita una rete di patologie e disfunzioni. Il termine “apocalisse” è quindi assunto sia per il suo senso etimologico, dal greco ἀποκάλυψις, “rivelazione”, “svelamento”, “manifestazione”; sia per il suo senso comune di catastrofe, cataclisma, fine del mondo. Epifania e disastro: l’aspetto duplice del titolo intende restituire quello che è concretamente il cuore di questo lavoro, ovvero il fatto che l’emergenza del dialogismo nella poesia italiana del Novecento sia sostanzialmente connessa a una crisi della comunicazione, che cioè la funzione dialogica, nel suo apparire, si converta in funzione antidialogica (ovvero si presenti come comunicazione disfunzionale).
Questo libro intende dunque dimostrare la presenza, nella poesia italiana del Novecento, di una costante funzione antidialogica, che compare con l’emergere stesso del dialogo in una molteplicità di sintomi collocati su una molteplicità di livelli: strutturale (come il salto di turno); pragmatico (per esempio, le risposte con domanda di rimando); del contenuto (la tendenza a tornare su argomenti intrattabili); relazionale (la disconferma, cfr. par. 2.3.3).
Se la funzione antidialogica, rivestita di un abito di volta in volta diverso (ma proveniente dallo stesso guardaroba di insuccessi), investe i campioni di forme disfunzionali e non finite, si apre la questione di un modello finito e funzionale rispetto al quale misurare la distanza a cui si collocano gli episodi novecenteschi. Un modello di questo tipo si trova alle origini stesse della nostra tradizione, in un’opera capitale per il destino della poesia moderna come la Commedia (cfr. cap. 3). Nel momento cruciale in cui Virgilio si congeda da Dante, lo fa con parole che acquistano una rilevanza primaria: «“Non aspettar mio dir più né mio cenno”» (Purg. xxvii, v. 139), “Non ho altro da dirti”; in breve si è esaurito il da dirsi, o meglio, è stato efficacemente detto e l’interlocutore è diventato obsolescente.
Il dialogo ideale, insomma, si caratterizza per il fatto di finire. Nel Novecento, per contro, il movimento è quello inverso di una progressiva escalation delle interazioni, che culmina negli anni Sessanta in una sorta di boom dialogico. Le opere più rappresentative di questa parabola sono Nel magma di Luzi (cfr. cap. 6), Gli strumenti umani di Sereni (cfr. cap. 7) e Xenia di Montale (cfr. cap. 8), che attestano un uso forte dell’espediente: il parametro quantitativo della densità (il numero di scambi) contribuisce a mettere in evidenza un’organicità di tratti alla base del progetto poetico; le singole realizzazioni si proiettano cioè sullo sfondo regolare del modo particolare con cui ogni autore si appropria dell’espediente. Questo uso forte acquista rilevanza in considerazione della produzione anteriore all’appuntamento indicato: la prima stagione dei tre autori, infatti, si situa in quell’arco temporale, i decenni Venti-Sessanta, che sfruttando un luogo comune si può definire un medioevo dialogico, tanto più ricco di allocuzioni quanto più refrattario alla responsività diretta (conditio sine qua non di qualsiasi dialogo).
Superato lo scoglio teorico di un dialogo ideale da contrapporre ai campioni raccolti, il corpus di questo lavoro cresce sulle fondamenta di due grandi modelli antidialogici primo-novecenteschi, che trovano la loro massima espressione nei Canti di Castelvecchio di Pascoli (cfr. cap. 4) e nei Colloqui di Gozzano (cfr. cap. 5): entrambe le opere, in forme diverse, propongono episodi giocati sul dramma di una comunicazione fallita e su una concezione non umanistica di dialogo. Se si pensa al refrain del componimento I due girovaghi nei Canti, che si gioca tutto sull’ambiguità dell’enunciato «–Stacci!», prodotto come sostantivo per richiamare l’attenzione su un utensile casalingo ma decodificato come imperativo del verbo “stare” («– Oggi ci sono / e doman me ne vo… / – Stacci! / stacci! stacci!», Pascoli, 2001, p. 32), si può concludere che il Novecento che ci riguarda inizia con un fraintendimento.
Mettendo in campo gli strumenti della stilistica, della linguistica, dell’Analisi della Conversazione o ancora della psicologia discorsiva e sociale, capitolo dopo capitolo la prospettiva antidialogica sembra rivelarsi una guida efficace per incontrare queste liriche: una pratica che permette di far parlare i dialoghi al di là di quanto dicono alla lettera, cogliendovi aspetti finora taciuti. Un esempio eloquente è Le due strade di Gozzano: l’interazione fra la Signora e la Signorina appare come un convenzionale scambio di saluti sul calco dell’etichetta di una particolare classe sociale; eppure, guardando negli interstizi della conversazione, si può constatare una relazionalità sottilmente feroce, di tipo disconfermante. Questo nesso fra i dialoghi lirici e la percezione di una crisi (concetto che ricorre fin dal primo capitolo e attraversa i successivi, intercettando segmenti diversi nell’asse di accezioni e valori possibili) diventa sempre più evidente. Non solo il dialogo è in crisi, ma serve anche a comunicare una crisi, insita nella relazione tra l’io e il mondo. Paradigmatico è l’unico dialogo di Caproni (2009, p. 383) che coinvolge il soggetto, ovvero la poesia I campi nel Muro della terra, un hapax che centra il momento cruciale in cui l’io è messo di fronte alla sgomentante impraticabilità del mondo: «“Avanti! Ancòra avanti!” / urlai. □ Il vetturale / si voltò. □ “Signore,” / mi fece. “Più avanti / non ci sono che i campi”».
Lo stesso discorso vale anche per la lirica: intesa sia come pratica sovversiva nei confronti del linguaggio ordinario, sintomatica di una crisi individuale che trova nello sforzo artistico un suo punto di equilibrio; sia come genere letterario, che nell’attraversamento del xx secolo vive l’eccedenza della sua crisi storica, al punto tale da essere ripetutamente dato per postumo. Ma dopo la lirica c’è ancora la lirica, come suggerisce il fatto che la funzione antidialogica, agente fin dal proemio di Myricae, esplode (dopo la legislatura di una dizione soliloquiale) insieme alle neoavanguardie, che della lirica celebravano le presunte esequie. Stringendo, si può concludere che dialogo e lirica sono in crisi, ma lo sono così radicalmente da oltrepassare la nozione di crisi. Primo, perché l’antidialogo è un prodotto della lirica, e non un corrosivo che la esaurisce: l’espediente dialogico non conduce il gesto lirico verso uno sconfinamento in qualcos’altro che sta al di là o ne viene dopo, ma verso un limite espressivo, che lo ratifica nel momento in cui viene raggiunto. Secondo, perché l’antidialogo non esiste. Voler ricondurre gli episodi a uno schema di (mal)funzionamento rimanda a una concezione umanistica (o «normale»)1 del dialogo come esercizio di relazioni equilibrate, in cui i partecipanti collaborano alla costruzione di un senso finalizzato al risolvimento degli incerti – quello che Hermans, Hermans- Konopka (2010, p. 174) chiamano buon dialogo, o Buber (1958, p. 127) dialogo autentico. Emblema di questa concezione sono le massime di Grice, che prevedono la cooperazione fra due parlanti i cui enunciati soddisfino i reciproci orizzonti di attesa rispettando i principi della quantità, della qualità, della relazione e del modo; come obietta Levinson (1985, p. 113), tuttavia, «la concezione descrive il paradiso per un filosofo, ma nessuno parla in questo modo!».
Come si parla, allora? Una cospicua tradizione di studi di carattere sociolinguistico e sociopsicologico ha mostrato sotto un prisma di angolazioni diverse come le nostre interazioni spontanee siano una sorta di fabbrica di difetti di fabbrica, costantemente sottoposte a false partenze, cambiamenti progettuali, sovrapposizioni, interruzioni, non-risposte, impliciti più o meno correttamente inferiti, silenzi più o meno disagevoli e così via. Non a caso, agli albori degli studi conversazionali si trova la nozione di “riparazione” (Repair), intuita per primo da Goffman (1973); il che comprova come la conversazione necessiti intrinsecamente di essere riparata. Altro concetto fondamentale postulato dal sociologo canadese è quello di “faccia” (Face)2, il bersaglio delle minacce da cui i parlanti si tutelano osservando i protocolli della “cortesia” (Politeness). Già nel 1914, nel monumentale Italienische Umgangssprache (Lingua italiana del dialogo, tradotto in italiano solo nel 2007), Spitzer dedica alla cortesia un’intera sezione, conducendo un’antesignana «trattazione pragmatica […] dell’italiano dialogico» (Caffi, 2007, p. 18) basata su un corpus di scambi teatrali. Spitzer (2007), che procede secondo un metodo psicologico-descrittivo, si riferisce alla pratica del dialogo con un florilegio di similitudini e metafore che mettono suggestivamente in luce le difformità, gli scoramenti, il faticoso contendersi delle controparti. […]
Abbiamo a che fare, quando interagiamo verbalmente, con un sistema di violazioni e disordini, intenzioni comunicative pubblicate allo stato di bozze (a vari livelli di aderenza al virtuale messaggio originario, rispetto al quale la confezione linguistica produce necessariamente uno scarto) senza possibilità di preliminari giri correttivi che ne setaccino i refusi; esecuzioni difettive, ma difettive soltanto rispetto a un dialogo ideale introvabile nella realtà (la distinzione saussuriana fra langue e parole è a un passo). In questo sistema, risulta emblematico che siano proprio le cocostruzioni più solide a mostrare il sembiante di un edificio fatiscente: il grado scalare del disordine progredisce infatti con l’aumentare dell’intimità fra i parlanti; ovvero, più profonda è la complicità, più carico il bagaglio di conoscenze condivise, meno l’interazione sarà decifrabile per un osservatore esterno3. Questa considerazione risponderebbe in parte al perché di tanto non-detto negli scambi lirici: i cui attori, sorti in concomitanza del medesimo gesto, anche quando sulla carta si presentano come estranei che si incontrano per la prima volta, sono la quintessenza dell’intimità e traggono le loro istanze dallo stesso bagaglio. O meglio, la voce che infonde voce alle diverse istanze semantiche è una sola: quella del gesto lirico che le crea liberandole.
Nel passaggio che comincia con la citazione da Bacchilide della proverbiale battuta che il dio Apollo rivolge al «fondatore del dialogo» Admeto, Blanchot arriva a ricondurre la natura ineludibilmente conflittuale della parola dialogica alla singolarità tragica dell’individuo che ne sta al polo, per cui il momento interrelazionale diventa il «repentino punto di densità» di un’«irregolarità fondamentale». La citazione da cui prende le mosse Blanchot è questa: «“Tu sei un semplice mortale e perciò la tua mente deve ospitare due pensieri alla volta”» (Blanchot, 2015, p. 96); il presunto difetto di fabbrica, in conclusione, è la semplice mortalità, nient’altro che la condizione umana: «the divided mind can be traced back to ancient times and seems to be inherent to the human condition» (Hermans, Hermans-Konopka, 2010, p. 136). Abbandonando una prospettiva clinica, ciò equivale a dire che proprio la condizione umana costituisce il presupposto del dialogo.
Dall’affermarsi del costruttivismo sociale alla psicoanalisi lacaniana, dalla svolta linguistica della filosofia alla seconda rivoluzione cognitiva, nella seconda metà del Novecento si è espanso un universo di sistemi di pensiero che trova al suo centro un’ontologia relazionale, e in cui gravita una costellazione di discipline che ha in comune con questo lavoro il fatto di assumere come oggetto di studio l’interazione verbale. Il che significa assumere come oggetto di studio il principale degli strumenti umani, con tutte le sue antidotazioni, senza più ritenerle difetti di fabbrica. Questo lavoro cerca pertanto di muoversi con duttilità in una terra di passo interdisciplinare, come un accampamento mobile da picconare al terreno che sembra offrire la vista migliore sul singolo testo, puntando a un ordine discorsivo coerente e disponibile a essere smontato e ricostruito ripetendo gli stessi passaggi, al fine di mettere in risalto le evidenze dialogiche del singolo episodio e del sistema in cui si inserisce.
[…] Mentre le varie analisi linguistiche, psicologiche o sociologiche osservano le interazioni verbali fra parlanti sociali contribuendo per vie diverse allo sviluppo di un’ontologia relazionale, i dialoghi lirici aprono un ulteriore orizzonte d’interesse tanto per il campo della letteratura quanto per le varie discipline e pratiche del sapere coinvolte in un’ontologia intrarelazionale (le scienze sociali, le neuroscienze, le filosofie o le antropologie del linguaggio). Quello che queste discipline hanno progressivamente acquisito era già stato portato a evidenza negli scambi lirici: la presunta crisi che l’espediente dialogico intercetta e restituisce nelle forme patologiche e disfunzionali in cui si realizza è intrinseca alla condizione umana, che vuole il soggetto costituirsi nella Spaltung, in una scissione originaria. Le fenomenologie della conflittualità e dell’incompiutezza protagoniste delle pagine che seguono sono pertanto da considerarsi come categorie cognitivo-ermeneutiche atte a concepire e descrivere la natura dell’attività dialogica, staccandola da un ideale orizzonte armonioso o sedato dove l’evento umano cesserebbe di essere e, con l’umano, il dialogo; non a caso, per Bachtin (2002, p. 80), l’uomo monologico è pensabile solo liminarmente all’umano, come l’Adamo primordiale: «Finché l’uomo è vivo, egli vive perché non è ancora compiuto e non ha detto ancora la sua ultima parola». Tracciato che sembra condurre all’impossibilità di un’intonazione puramente monologica; o meglio, a una circolarità, a una non-separatezza fra i due regimi discorsivi4. Vale a maggior ragione per il dettato lirico (inteso come massima espressione dell’io): un puro monologismo sarebbe possibile soltanto laddove il soggetto non fosse scisso, ovvero l’enunciatore non fosse umano.
[…] Tutto ciò sembra in stretto rapporto con quelle che Dell’Aversano (2009, p. 31) chiama polarità posizionali; che in un certo senso, in quanto «proprietà emergenti di qualsiasi relazione interpersonale», starebbero alle teorie dei costrutti sociali come le coppie minime stanno alla linguistica, ovvero relazioni contrastive che fondano l’esserci della singola identità: l’Altro, per Lacan (2002, p. 808), «è il luogo del tesoro del significante, […] una raccolta sincronica ed enumerabile in cui ciascun elemento si regge unicamente sul principio della sua opposizione a ciascuno degli altri». L’effetto di persona è dunque l’effetto di un contrasto: nessuna acquisizione identitaria si dà in purezza, senza scontare l’incontro con l’alterità; un io allo stato puro non sussiste se non come discorso derealizzato. Le interazioni tramite cui l’io (si) diviene fanno da eco alla scissione che lo genera; motivo per cui il fenomeno che nelle prossime pagine verrà trattato come funzione antidialogica sembra in consonanza con quello che, traendo spunto da un episodio della Recherche, si può chiamare “effetto-Bergotte”:
Bergotte era seduto non lontano da me, udivo perfettamente le sue parole. […] In certi passaggi della conversazione, […] mi ci è voluto molto a scoprire una esatta corrispondenza con le parti dei suoi libri in cui la sua forma diveniva così poetica e musicale. […] Tanto più durai fatica ad accorgermene in quanto le cose che egli diceva in quei momenti, proprio perché erano veramente di Bergotte, non avevano l’aria di essere alla Bergotte. […] Così, a quella guisa che il modo di parlare di Bergotte sarebbe sembrato certamente stupendo se egli fosse stato solo un qualsiasi dilettante che recitasse un preteso Bergotte, mentre invece era legato al pensiero di Bergotte al lavoro e in azione da rapporti vitali che l’orecchio non coglieva immediatamente, nella stessa guisa, per il fatto che Bergotte applicava quel pensiero con precisione alla realtà che gli piaceva, il suo linguaggio aveva qualcosa di positivo, di troppo nutriente, che deludeva chi s’aspettava di sentirlo parlare soltanto dell’«eterno torrente delle apparenze» e dei «misteriosi fremiti della bellezza». […] Le parole irriconoscibili uscite dalla maschera che mi stava sott’occhio, bisognava riferirle proprio allo scrittore che ammiravo: esse non avrebbero potuto inserirsi nei suoi libri alla maniera di un puzzle che si combini con altri; erano su di un altro piano ed esigevano una trasposizione grazie alla quale un giorno in cui mi ripetevo delle frasi sentite dire a Bergotte vi ritrovai tutta l’armatura del suo stile scritto e potei riconoscerne e individuarne i vari pezzi in quel discorso parlato che mi era parso così differente. […] Un simile accento non è notato nel testo, nulla ve lo indica; eppure, si aggiunge da sé alle frasi, non è possibile dirle altrimenti, è quanto di più effimero e tuttavia di più profondo c’è nello scrittore: ciò che testimonierà sulla sua natura (Proust, 2008, pp. 409-12).
Il principio dell’effetto-Bergotte risiede in quella delusione delle aspettative sperimentata da chi, dopo aver amato le opere di uno scrittore, assiste a una conversazione cui questi prende parte, parlando con una voce che suona «interamente diversa» da quella conosciuta. Questo tipo di delusione, relata a una questione di contenuto (Bergotte non parla, come ci si aspettava, «dell’“eterno torrente delle apparenze” e dei “misteriosi fremiti della bellezza”») ma soprattutto a una «differenza nello stile» (da cui dipende il giudizio di «qualità»), sembra prossima a quella che ha accompagnato la ricezione di opere come Nel magma o Satura, in cui il lettore di Luzi o di Montale si è trovato ad assistere allo spettacolo spiazzante di faccia-a-faccia irriconducibili alla voce delle folaghe o alla voce del cipresso equinoziale che per prime aveva conosciute. Eppure, «le parole irriconoscibili uscite dalla maschera che mi stava sott’occhio, bisognava riferirle proprio allo scrittore che ammiravo»: solo che, per poterglisi essere ricondotte, queste parole «esigevano una trasposizione», che avrebbe consentito di «ritrovare tutta l’armatura del suo stile scritto».
La conclusione del passo presta il fianco alla tesi che l’accensione dialogica intercetti un tema cruciale: nel divenirsi interazionale vibra «quanto di più effimero e tuttavia di più profondo c’è nello scrittore: ciò che testimonierà sulla sua natura». Il narratore proustiano coglie perfettamente la funzione antidialogica di questo manifestarsi quando osserva che Bergotte parla male, quasi fosse incapace di esprimersi: ha l’aria di prendere i discorsi «per il verso più futile», «le sue idee sembrano […] confuse», il suo conversare «lambiccato e faticoso». Allo stesso tempo, coglie anche il fatto che quello «che deludeva» aveva a che fare con «qualcosa di positivo, di troppo nutriente», che altro non è che la «realtà» stessa di Bergotte, ossia «Bergotte al lavoro e in azione da rapporti vitali»: ancora una volta, la dissonanza e la vita.
Note
1. «La “concezione normale” del dialogo sembra riferirsi sostanzialmente al processo di negoziazione e adattamento all’altro che porta a un’intesa tra le parti. Questa accezione corrisponde alla […] concezione “retorico-edificante, irenica” dei dialoghi di Platone. È molto diffusa in politica: cfr. i vari usi di dialogo nel linguaggio politico, per indicare tentativi di avvicinamento da posizioni antitetiche» (Bazzanella, 2002, p. 28).
2. «Il termine faccia può essere definito come il valore sociale positivo che una persona rivendica per se stessa» (Goffman, 1971b, p. 7).
3. «nelle interazioni parlate tra familiari e amici […] la quantità di non detto ma implicato cresce proporzionalmente al numero di conoscenze condivise» (Calaresu, 2021, p. 150).
4. Già nella primissima nota dell’Italienische Umgangssprache si trova scritto, a proposito dell’espressione “dico tra me e me”, che «il monologo è per lo più un dialogo tra due anime dissenzienti in un unico parlante» (Spitzer, 2007, p. 65). L’Italienische Umgangssprache è ricordato anche da Vološinov, secondo cui «il dialogo può essere inteso anche in senso più ampio, significando non soltanto la comunicazione verbale diretta, faccia-a-faccia e orale tra persone, ma anche la comunicazione verbale di qualsiasi tipo» (Vološinov, 1976, pp. 172-3). Per altri vale il contrario: se, da un lato «non ci sarà bisogno di insistere sulla distinzione fra dialogo e monologo, perché molta della conversazione spontanea contiene una gran quantità di monologo» (Halliday, 1992, p. 88), dall’altro lato le marche intradialogiche sono scalarmente rintracciabili anche in un a solo; c’è anche chi pensa il monologo come «un dialogo “dilazionato” nel tempo e nello spazio» (Panza, 1985, p. 216).
[Immagine: Designed by starline / Freepik]
Chi ha orecchi per intendere, intenda