di Marco Viscardi
F. è spettinata. Non legge libri perché le sembrano tutti uguali, ma legge i fumetti. Tipograficamente i libri si somigliano tutti, pagine e pagine uniformi che non invogliano l’occhio. Ogni tavola di graphic novel è diversa dalla precedente. Varietà vince su monotonia. Varietà che somiglia a verità.
F. è fa parte di una terza del tecnico-informatico dove insegno, è simpatica, molto buffa e un po’ inciampa nella sua voce quando parla. Felpe in inverno e magliette in estate, tutto un po’ nerd, tutto senza retorica. Non è una sprovveduta.
Lo scorso anno siamo stati ad una mostra alle Gallerie d’Italia, era sulla Napoli di Murat. Davanti ad un ritratto a grandezza naturale di Napoleone – opera di François Gerard, custodita al Museo di Capodimonte – F. si disorienta, non capisce come sia possibile quella cosa, come sia inquadrabile e mi chiese farfugliando se è fatto tutto a mano. In qualche modo, le pare un prodigio, una realtà che non si spiega.
Forse non aveva mai guardato un quadro e non stava vedendo un Rothko o un Monet, o un Rembrabdt, ma un ritratto di stato, una posa da maestà imperiale che in qualche modo era arrivata nella Napoli di Murat, periferia del grande impero.
Ma per F., in quell’attimo, quella era la pittura. Una tecnica che non aveva mai preso in considerazione potesse esistere e potesse fare cose del genere. Lì ho capito che lei e i suoi compagni non erano mai stati in un museo e che potevo divertirmi – io che di storia dell’arte so meno di quanto vorrei – a raccontare quello che vedevo. Persino insegnare loro a leggere le didascalie che indicano nomi dei pittori, titoli e provenienze dei quadri.
Ho vissuto la vertigine di alfabetizzare, di iniziare da capo. Non è stato male.
Di base insegno letteratura, penso di saperlo fare bene, perché la letteratura mi piace molto. ho avuto grandi maestri che ho guardato rubando tutto. Dalla scuola in poi. Poi ci ho messo un po’ a sgrossare la refurtiva, a liberarmi di quello che non mi stava bene e a rifondere e riplasmare quanto mi veniva scomodo o faticoso. A furia di ripetere quei gesti, di pronunciare quelle parole le ho fatte mie, le ho adattate a me. Anzi, a furia di ripeterli sono diventati anche dei cliché che mi danno fastidio: mi rendo conto che è difficile rompere una parte interiorizzata a metterne in scena una nuova e diversa. Penso che questa anchilosi del discorso non capiti solo a me, forse è una malattia professionale.
Negli ultimi anni, mi sono reso conto però della fatica che comporta la mia professione.
E mi sono accorto di non saper fare la cosa più importante. Non so insegnare a leggere e scrivere. Alfabetizzare è un mestiere completamente diverso da analizzare un testo letterario. E non sono nelle tecniche e nei repertori, ma nelle disposizioni d’animo. Bisogna allenare il cuore all’ascolto. Che è una cosa difficilissima. Non si può insegnare senza ascoltare, ma per alfabetizzare bisogna lavorare davvero sulla propria sensibilità. Rendersi permeabili, comprendere le incertezze prima che vengano espresse.
Scoprire dall’indagine per le competenze degli adulti (Survey of Adult Skills), realizzata nell’ambito del programma dell’Ocse per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti (Programme for the International Assessment of Adult Competencies, Piaac), che un terzo degli italiani adulti sia affetto da analfabetismo funzionale non mi stupisce. Non mi stupisce perché l’ultimo dato di cui avevo conoscenza lo portava comunque alle soglie del 30%. Istituire un nesso fra questo aumento della diffusione dell’analfabetismo funzionale e le molteplici mancanze della scuola italiana è una tentazione a cui molti cedono, spesso perché lamentarsi di una istituzione porta a deresponsabilizzarsi.
Se è il Moloch che non sa fare il suo dovere, noi che possiamo farci? L’obiezione principale a questa accusa alla scuola è che l’indagine OCSE riguarda l’espressione verbale, ovvero la capacità di comprensione del mondo esterno, da parte degli adulti. Di quegli stessi adulti che si perdono in una successione potenzialmente infinita di reel e video brevi, spesso ad altissimo tasso di emotività non razionale, da cui deriva, almeno in parte, quell’angoscia dell’intelligenza e quel deficit della volontà intelletuale che gli inglesi chiamano brain rot, e che come sappiamo per l’Oxford Dictonary è la parola dell’anno.
Però è chiaro che di fronte ad un collasso cognitivo così impressionante, la scuola e l’insegnamento sono chiamati in causa.
Dicevo che il dato OCSE Non mi stupisce perché se uno con le persone ci vive, ci passa tempo, ci ragiona. E se le ascolti le capisci. A partire dal linguaggio. Una volta ho sentito litigio fra una persona anziana ed una giovane donna, che si sarebbe poi dichiarata come medico. Di fronte all’uomo le dava della m* (non scriverò questa parola detestabile che indicava un tempo la sindrome di Down) perché aveva parcheggiato male, lei non ha ribattuto sul termine, ma dopo aver detto un ‘lei non sa chi sono io’ ha tristemente aggiunto ‘M. sarà lei’. Desolante.
Avevano lo stesso orizzonte mentale. Malgrado le differenze di genere e quelle anagrafiche. Malgrado le differenze di istruzione. Desolante. Anche perché del vecchio poco importa, seguirà il decorso naturale della sua esistenza, ma la dottoressa era decisamente più giovane di me.
Formatasi molto probabilmente in una scuola molto più simile a quella in cui insegno, che a quella in cui ho studiato. Una scuola del diploma in centesimi e non in sessantesimi. La scuola della maturità riformata. Magari lei avrà ancora avuto la possibilità di scegliere la traccia del saggio breve all’Esame di Stato. Traccia ora abolita e non abbastanza rimpianta e compianta. Io almeno la compiango perché era la sola che ti permetteva di costruire un ragionamento sulla base di argomentazioni e dati. Di simulare, magari in trentaduesimo, un lavoro di ricerca.
Da qualche anno trionfa l’Analisi del Testo. E con lei, implicita, l’idea che i testi siano parole, costrutti, figure retoriche, nessi logici, parti principali e secondarie, tesi e antitesi. Che i testi siano micro universi perfetti e perfettamente conoscibili nella loro scissione dalla realtà.
Un insegnamento della letteratura che si vorrebbe linguistico-empatico. Linguistico perché pare che una volta esauriti tutti i problemi di comprensione e parafrasi, abbiamo capito che dice l’autore, empatico perché poi ti si chiede sempre di riflettere sul testo anche a partire da tue esperienze personali. Quanto era meditativo e solo Petrarca, quanto era complesso e vitale Boccaccio, quanto vuoi bene a Lucia etc etc, fino a improbabili fusioni boomer, in cui pare obbligatorio e sveglio associare ai caposaldi delle nostre lettere, parole come influencer, youtuber, tik-toker etc etc.
Questa scuola del testo assoluto, che parla direttamente alla tua anima, avrò qualche responsabilità nel tracollo che abbiamo attorno? Io credo di sì, senza prove, senza dati certi, ma sostanzialmente perché da almeno un decennio mi pare il modo più diffuso di intendere l’insegnamento della letteratura.
Scollata dalla storia, dalle costruzioni teoretiche, dalla vita concreta, dalle condizioni materiali della società. La letteratura diventa un fatto di parole, e quando le parole sono troppe si fa fatica a ricordarle. Allora poi è poco divertente e si passa oltre.
Io non ho studiato latino alle superiori. Il mio era un linguistico sperimentale, avevamo insegnanti magnifici. Il professore di italiano, per me amatissimo, ci aveva letto integralmente i Sepolcri Ricordo distintamente che alle superiori non conoscevo l’aggettivo ‘igneo’, me lo ricordo ancora, e guardavo con ammirazione al mio professore amatissimo che non aveva incertezze di fronte a quella parola .
Ma come faceva a conoscere igneo? I miei non sanno che vuol dire ‘chioccia’.
Per molti di loro, la chioccia è la lumaca, e per una parte di questi, la chioccia genera la vita. È madre.
L’affare della chioccia è venuto fuori durante la spiegazione del Gelsomino Notturno, quando Pascoli parla della Chioccetta che va per l’aia azzurra col suo pigolio di stelle.
Pascoli non è mai sembrato un autore complesso, almeno dal punto di vista della comprensione primaria di quello che dice, Per loro, quinto anno di istituti per operatori socio sanitari, la cosa è molto diversa.
Ecco, in quel momento ho capito di insegnare una lingua straniera. Una materia che non aveva nulla a che fare col saper leggere e scrivere e che anzi, involontariamente, potrebbe aumentare la diffidenza e le difficoltà che questi italiani, come dicono le statistiche da quando ho iniziato a leggere, che non hanno dimestichezza non solo e non tanto con la letteratura- chissenefrega- ma con la comprensione dei testi.
Perché le parole che non si conoscono generano frustrazione in generale e a scuola invitano a uno studio mnemonico. Dice Dante in un passaggio famoso ripreso da Machiavelli che non fa scienza senza lo ritenere avere inteso. Non si impara se non si memorizza quello che si è capito. Comprendere e memorizzare. Temo che oggi siamo involontariamente scivolati sul polo della memorizzazione, e dico involontariamente perché se in quel momento il caso non mi avesse spinto a chiedere: che cos’è una chioccia? Non avrei mai saputo che loro quella parola non la conoscevano. Se non avessi fatto quella domanda non avrei capito che non ero nel posto in cui pensavo di essere, che non stavo insegnando letteratura, ma stavo parlando una lingua straniera.
Chi insegna letteratura italiana a scuola o all’università, quale sia l’ordine, il grado, sta insegnando una lingua straniera. Anche un po’ morta. E la insegna a studenti che a volte avrebbero bisogno di imparare meglio a leggere e scrivere. Che è una competenza completamente diversa, per la quale bisognerebbe smontare il prestigio, adeguare le didattiche, aprire i confronti.
Che la lingua cambi, che si perdano delle parole, che se ne innestino delle altre, non è scandaloso. Tutto si consuma e tutto rinasce, ed è inutile lagnarsi della povertà lessicale. Inutile giudicare, anche perché quanti di noi hanno quotidianamente a che fare con le chiocce? Penso pochissimi.
Sospetto che la fatica che facciano alcuni studenti a rapportarsi ai loro testi sia così poco appagante che li porta non solo a diffidare della lettura come, crede, di fare anche F., ma addirittura a rimpicciolire ancora di più il loro mondo lessicale. Sappiamo che parole e mondo coincidono almeno nelle dimensioni, e che chi ha in testa molte parole, ha in testa un mondo grande.
Da qualche anno invece assistiamo ad un assottigliamento dello spazio delle materie umanistiche. Mentre si favoleggia di introdurre ovunque la filosofia – ma non si capisce se con ore autonome o a discapito delle ore di altre materie – gli istituti professionali hanno visto il ridursi delle ore di lingua e letteratura italiana da tre a quattro, anche i loro libri di testo sono ridotti. In genere sono edizioni minori e tagliate dei manuali pensati per i licei, e sono così ridotti all’osso che resta solo da mandare a memoria. Sono così stringati che è impossibile scomporne i ragionamenti per individuarne nuclei essenziali e ragionamenti secondari. Tutto sullo stesso piano, spesso un po’ ripetitivo. Di qualche giorno fa la notizia che in un liceo di Bologna, si siano implementate le ore di italiano in prima, passando da quattro a cinque, non su richiesta del dipartimento di lettere, ma di quello delle discipline matematico-scientifiche. Forse la formazione di uno scienziato ancora non si rassegna all’idea che non si capisca un ragionamento, o una consegna, o una formula. O che si usino parole che di cui si ignora il significato, come ha fatto un mio studente che in un compito ha usato l’aggettivo ‘bucolico’ e quando gli ho chiesto che significasse ha fatto la faccia stupita e innocente di chi trova ovvio tutto sommato non sapere le parole che usa. Perché poi quello è una verifica in classe, mica la vita vera.
Insegnare a leggere e scrivere però non si fa gratis, ci vogliono investimenti pubblici e in qualche modo anche privati. Lo Stato ci deve investire, ma anche noi dobbiamo mettere in discussione il nostro modo di lavorare e di stare in classe Ci vuole poi una comunità che riconosca il valore dell’alfabetizzazione e rispetti – magari anche con un po’ di amore – chi prova a farlo. La formazione dei docenti delle scuole medie e superiori è affidata a docenti universitari che spesso vivono in una condizione di isolamento non solo rispetto alla scuola, ma rispetto anche ai problemi stessi della didattica. Quella stessa didattica che svolgono in aule spesso stracolme senza porsi il problema della relazione. Così noi insegnanti siamo stati spesso allenarti per fare i docenti universitari in minore. La scuola ha il compito di sgretolare le faccende complesse per renderle accessibili a tutti, ma soprattutto ha il privilegio di porsi domande sul senso della sua azione. Può concedersi di dare significato ai propri gesti, per farlo deve sgretolare sé stessa.
A me piacerebbe tanto insegnare letteratura, ma non come il violinista del famigerato transatlantico che suona mentre tutto affonda. Vorrei farlo nel senso. Mi terrorizza l’ipotesi che di qui a pochissimi anni potrei diventare un esperto di parole in un mondo sempre più afasico. Per fortuna molti docenti stanno provando a reinventare pratiche davvero democratiche di insegnamento della lingua e della letteratura. Forse però siamo ancora isolati e sparsi. Non ne abbiamo fatto un tema politico. Questo dovrebbe essere il prossimo passo, perché non ci si decostruisce mai da soli, non si rinnova mai da soli.
Grazie. Un intervento che davvero “narra” la situazione della educazione in Italia senza piagnistei ma, anzi, con una prospettiva di azione di civiltà.
Un compito fondamentale senza il quale il sapere è muto.
Mi sembra il caso di rivedere completamente i programmi di alfabetizzazione nella scuola italiana e di capire che cosa si può ragionevolmente ottenere a ogni livello, in un dialogo di coordinamento che coinvolga tutto il corpo insegnante, senza illusioni né preconcetti.
A me, osservatore esterno e insegnante in altre scuole, sembra che si debba pensare a un nuovo modello di educazione linguistica e letteraria che tenga conto di tutti i livelli di scolarizzazione, dalle elementari alle medie inferiori e superiori.
Complimenti, Marco, bellissimo intervento.