di Antonio Francesco Perozzi
[Esce tra qualche giorno per Pidgin Edizioni Tranquillità assoluta di Antonio Francesco Perozzi. Proponiamo l’estratto di un racconto intitolato Gente materiale].
Gente materiale
Dalle nostre parti quelli strani li ammazzano. Avevo un compagno di classe, alle medie, che si chiamava Gabriel Orlandi e leggeva romanzi: se ripenso a tutto quello che gli abbiamo fatto in tre anni, alla volta in cui Fungo gli ha bucato il Woolrich con un ferro staccato dal banco, mi sale un po’ di tristezza. Ma d’altra parte credo che uno se la cerchi, a venire a scuola così, a comportarsi da strambo con i libri e le domande alla professoressa. Qualcuno ti metterà le mani addosso, prima o poi.
Pensieri del genere li ho fatti anche la prima volta che ho parlato con Mauro. Ultimamente capitava spesso di condividere la banchina numero 7, da soli, mentre aspettavamo entrambi l’autobus delle 21:00. A quell’ora Ponte Mammolo è un fantasma, ci siamo solo io e pochi colleghi, poi qualche tossico rimasto a chiedere spicci davanti ai tornelli. E, appunto, Mauro. Che si mette di fronte al pilone, calcolando il punto esatto in cui l’autobus aprirà lo sportello.
«Sei di Vicovaro, o sbaglio?» A un certo punto gliel’ho chiesto, non so perché. Forse proprio per il ricordo delle medie: questi suoi occhiali quadrati e sottili, questo suo corpo slanciato a partire da una valigetta blu scuro.
«Sì».
L’avevo incrociato due o tre volte, infatti.
«Enzo» faccio, e i suoi occhi sembrano non capire. Mi stringe la mano. «Ma non ci abiti più?»
«Sì, sì» risponde senza far uscire neanche uno spicchio di pelle dal colletto alzato, «a via San Vito. Sono il nipote di Sonia della merceria».
Ora lo inquadro. Riconosco il taglio degli occhi. Quel negozio era storico, ci andava anche mia madre per comprare il filo per l’uncinetto o roba del genere, ed è rimasto aperto fino a quando la signora (sì, Sonia) non è morta, qualche anno fa; a novanta e passa anni. Quindi gli domando come stanno i suoi, cose così. Forse è il freddo, o la noia della giornata, ma mi prende a parlare. E a un certo punto si scuce anche lui: saliamo sul mezzo, saluto Tonino al volante, e ci sistemiamo in due coppie di sedili abbastanza vicine. Parlo più io che lui, ma alla fine mi spiega che, in sostanza, studia gli insetti
all’Università di Roma Tre, e io lo immagino con il camice e una lente d’ingrandimento posata su un verme. Mi accorgo subito che è una cazzata. Non ho idea di come uno possa arrivare ad appassionarsi agli insetti. «E cosa c’è da studiare degli insetti?» dico, e lui non so perché sorride. «È un mondo a parte», si preme gli occhiali sul naso. Poi passiamo la barriera di Roma Est, il cantiere del centro commerciale e quando arriviamo alla stazione è buio pesto.
Dopo quella volta ci siamo trovati a parlare praticamente ogni sera. Sembra assurdo, ma se c’è una cosa che non sopporto, oggi, è viaggiare con l’autobus, soprattutto se sono da solo. Quando entrai in azienda, nell’81, l’idea di guidare quei cosi enormi mi fomentava: ti senti un re, quando sei in cabina, senti di poter comandare cinquanta-sessanta persone, e che ogni tuo gesto è seguito fedelmente dal gesto di una macchina gigantesca, da pneumatici grossi un cristiano, fianchi blu che quando sfilano nel traffico sembrano balene. Poi, dopo la storia di Zanna, mi è passata completamente la voglia. Mi sono fatto spostare al gabbiotto, passo il giorno seduto a dare informazioni ai turisti e vendere biglietti, ma per lo meno mi risparmio le risse e i tossici. Forse è per questo che mi metto a parlare con Mauro. Per questo e per il fatto che i colleghi, alla fine, dicono sempre le stesse cose: tengono le braccia larghe sulla circonferenza del volante, commentano la Lazio, bestemmiano quando trovano una macchina parcheggiata sul rettangolo giallo della fermata. Quando vedo Mauro alla banchina 7 penso che almeno mi risparmierò quella sensazione strana di avere alle spalle cinquanta sedili vuoti, il fondo
dell’autobus che le lampade vecchie di vent’anni non sarebbero mai in grado di raggiungere.
«Che insetto hai studiato oggi?»
Si mette a ridere. Spiega che non è che si studia un insetto alla volta, che la storia è più complessa, e poi dice una serie di parole tecniche che non riesco a ricordare. Ma non parliamo solo di insetti. A me piace sentire come spiega le cose, in generale, questa sua capacità di essere sempre chiaro e preciso anche quando si tratta di raccontare cose difficili come gli esperimenti del laboratorio. Da lui per dire ho imparato che esistono due modi per spiegare la realtà, uno è quello di Einstein, l’altro si chiama meccanica quantistica. E il primo dice che il tempo è qualcosa di fisico – anche se non mi è chiaro come sia possibile questa cosa – l’altro che l’universo è diviso in piccole quantità indivisibili, tipo. La cosa bella è che entrambe le teorie spiegano perfettamente la realtà – ha detto – ma non sono compatibili fra loro.
«Dovresti insegnare all’università» gli faccio.
«L’idea era quella».
«E perché non lo fai?»
Io immaginavo che uno insegnasse a scuola per un po’ e poi passasse all’università. Ma Mauro ha specificato che non è così. Lui ad esempio è un ricercatore a contratto. Quindi fa questi studi sugli insetti per alcuni mesi o anni, poi deve trovare qualcuno che lo paghi per continuare, e c’è anche il rischio di rimanere appeso senza che lo studio porti a nessuna scoperta. Prende mille euro, e spesso anche in ritardo. Poi la sera stacca, torna a Vicovaro e si tappa in casa – ma questo l’ho aggiunto io, nel mio pensiero.
«Potresti trasferirti a Roma, almeno».
Lui esita. «Diciamo che in zona nostra ci sono più insetti».
Siamo a metà del tragitto e alla nostra destra appare il centro commerciale. Le luci del cantiere tagliano la notte: anche in corsa sull’autostrada, riconosciamo gli scheletri che saranno i piani dei parcheggi, le ruspe che spingono terra e calcinacci. Vorrei dire qualcosa in merito ma lui mi batte sul tempo: «Oppure vado a lavorare al centro commerciale». Questa frase me lo fa immaginare in camice, ma dietro la cassa del Conad. E non so neanche se ci sarà, il Conad, tra tutti i negozi. Pare che saranno più di duecento, tra ristoranti, elettronica, abbigliamento eccetera, con anche il cinema, divisi in cinque piani, settemila posti auto, scale mobili e ascensori. Il più grande d’Europa, dicono.
«Uno intelligente come te» rispondo, anche se l’immagine in testa mi sembra realistica, riesco a vedere Mauro dietro la cassa, che passa i prodotti sotto il laser in maniera calma e ordinata, «uno come te doveva nascere a Milano». Tiene gli occhi sul cantiere e per un momento penso che anche lui si sta costruendo la scena in cui lavora al Conad, o riempie i tubi dei pop-corn. «Qua siamo gente materiale».