di Massimiliano Cappello
[È da poco uscito, per la collana Punti di vista della casa editrice Mimesis, Poetiche della ragione critica. Zanzotto Giudici Raboni di Massimiliano Cappello. Ne pubblichiamo, con minimi aggiustamenti, un estratto, corrispondente all’ultimo paragrafo dell’introduzione, intitolato Ragioni di un titolo e piano di lavoro, pp. 49-54].
La scelta di questo corpus testuale, a ben vedere, ha molto a che fare con l’atteggiamento complessivo tenuto dai tre autori presi in esame nei confronti delle forme della storia in un’epoca in cui la critica non appariva risolversi completamente «nella poesia, con la poesia, per la poesia»;[i] e dove, anzi, l’estetico non era ancora divenuto «cicatrice del bello», un residuo del totalmente significante in sé ma estirpato dalla vita.[ii]
L’opera poetica (soprattutto tarda) di Zanzotto, Giudici e Raboni è stata annoverata tra quelle che più espongono una «nevrosi della fine», cioè una reazione di tipo malinconico alla frattura intervenuta nella dialettica storica, che induce alla scelta di «un atteggiamento e uno stile postumi rispetto alla modernità» e considera la storia come un fatto «onnipresente, asfissiante, da incubo». Il fatto stesso che poeti diversissimi tra loro si siano potuti trovare «dalla stessa parte della barricata» funziona come sintomo dell’erosione del referente storico che conferiva al proprio fare un orizzonte quando non un senso. Si pensi non solo all’«adesione oltraggiosa al passato» letterario che caratterizza l’opera tarda di Sanguineti, fortemente avversato dai tre nel corso degli anni ’60, ma anche, più semplicemente, alle profonde differenze tra gli autori presi in esame.[iii]
Considerarne l’opera critica è anche un modo per mettere al vaglio quello che, a ben vedere, si rivela essere uno specchio (a volte più limpido delle poesie stesse) capace di riflettere un rapporto con l’idea di una storia e la possibilità di un mondo in un’epoca che si confrontava direttamente con la possibilità di trasformarli. Più che a una lettura estetica o documentaria, autonoma o ancillare, la critica dei poeti del secondo Novecento sembra allora rimandare (secondo le categorie di Pierre Bourdieu) all’«habitus» dei loro autori, e al «campo» entro il quale la loro attività si esplicitava.[iv] Due immagini distanti un decennio l’una dall’altra ne restituiscono plasticamente altrettante, contraddittorie interpretazioni.
La prima emerge in un’intervista del 1988 a Raboni. «Quella del critico-poeta», affermava in quell’occasione, «è una figura che ha una lunga tradizione, soprattutto nel Novecento e non soltanto in Italia»; a colpirlo, in quegli ultimi anni, non era tanto l’incremento numerico dei critici-poeti, quanto il fatto che fossero diminuiti o quasi scomparsi i critici non poeti.[v] La seconda si ritrova in un saggio di fine millennio dedicato da Romano Luperini a Fortini. La figura del poeta-critico, per Luperini, stava rapidamente scomparendo: la «grande tradizione che da Foscolo a Leopardi, attraverso Carducci e Pascoli, giunge a Montale, Sereni, Pasolini, Luzi, Zanzotto sino a Sanguineti […] sembra ormai agli sgoccioli».[vi]
Difficile immaginare due disamine più confliggenti. Ma le parole di Raboni e di Luperini non si contraddicono per sempre. Dove il primo constatava un aumento quantitativo nel novero dei poeti-critici, il secondo metteva a referto una diminuzione nella qualità o nella pregnanza storica di questa figura. Da una parte, la scissione sempre maggiore tra critica militante e critica accademica; dall’altra, il tramonto della tradizionale figura del poeta come specialista non specializzato.
Molti studi recenti insistono sulle scritture critiche come specchio di questa fine, e della metamorfosi che ne avrebbe rese mute o incomprensibili le occasioni e le motivazioni. Bisognerebbe chiedersi di quale storia facciano parte questi testi, e a quale facciano riferimento. René Wellek ebbe a scrivere che lo storico della critica deve soltanto chiedersi che cosa il poeta intendesse con la sua teoria, se ciò che diceva era sensato, quali furono «il contesto, lo sfondo, l’influsso su altri critici»; uno studio dell’influsso della critica sulla poesia, e viceversa, spezzerebbe l’unità del discorso, trasformando la storia della critica in storia della letteratura.[vii] È anche questo un esito della specializzazione; e, se pure questa separatezza dà modo di isolare una storia delle idee, corre tuttavia il pericolo (già messo in luce da Lukács e Adorno) di contribuire alla sua estetizzazione.[viii]
In questo senso, il libro che qui comincia adotta una prospettiva duplice. Da una parte, è lo studio di tre importanti figure del secondo Novecento italiano nelle loro vesti di critici e di saggisti, e del rapporto tra queste vesti e la loro poesia; dall’altro, i tre saggi che compongono il volume indagano il rapporto di questi tre poeti-critici con la storia (e con l’idea di storia) che il loro mondo custodiva, e che si manifesta nel discorso mediato della saggistica. Ciò significa che le pagine che seguono assumono anche la crisi del sapere morfologico, in un’epoca in cui la capacità delle forme di introiettare il proprio tempo (di farne cioè un contenuto secondo o sedimentato) si rivela sempre più difficile.[ix]
Il criterio di selezione del corpus autoriale ha a che fare con una convergenza di fondo tra questi tre poeti. Rispetto ai loro predecessori (Montale, Sereni, Fortini), Zanzotto, Giudici e Raboni manifestano in vario modo una predilezione sia poetica sia critica per il contrasto tra la sublimità della poesia e la «pressione delle cose»;[x] rispetto ai loro comuni avversari, rappresentati simbolicamente dai Novissimi, sembrano invece assumere posizioni e atteggiamenti da «destra letteraria», tendenti cioè alla difesa di un catalogo di forme o, tutt’al più, alla loro modificazione dall’interno dell’istituzione.
Questa concezione dello strumento letterario, inteso come modalità di intervento razionale e storico, si opponeva naturaliter all’eversione formale delle neo-avanguardie – le quali, indicandone insistentemente la marcescenza, si facevano complici più o meno consapevoli della liquidazione non soltanto del medium, ma delle sue stesse possibilità di incidenza storica. Per utilizzare un’ulteriore figura fortiniana, questi tre poeti-critici sono forse gli ultimi a soffrire autenticamente di «sindrome di Enea»: a manifestare, cioè, la «premura di portare in salvo gli idoli della città in fiamme», ad avvertire la sopraggiunta necessità di interrompere la continuità organica con la tradizione senza dimenticarla o disconoscerla.[xi]
Il titolo di questo libro fa esplicito riferimento a molti altri, ma in particolare a La ragione critica (1986), volume di Costanzo Di Girolamo, Alfonso Berardinelli e Franco Brioschi dedicato ad alcuni problemi di teoria, critica e storia della letteratura; e a Critica della ragione poetica (1996), raccolta di scritti del solo Brioschi apparsa dieci anni dopo per Bollati Boringhieri. Poiché tutto, in un’opera, può essere tematizzato (tema essendo in primo luogo relazione tra i dati intrinseci nella testualità, le istanze dell’autore e quelle dell’interprete),[xii] questi due lavori sono apparsi fin dall’inizio di questa ricerca come altrettante espressioni, sul piano della teoria, della saggistica e della storiografia letteraria, del medesimo conflitto che le pagine critiche di Zanzotto, Giudici e Raboni tentavano di affrontare su un altro piano.
Predicando l’indefinitiva sospensione del riferimento, ricercando, più che un senso, le sue condizioni di esistenza, proponendo di prescindere dal modo di ricezione delle opere e dalle intenzioni degli autori per cercare un’artisticità anche nei prodotti del passato concepiti senza una finalità di questo tipo, il programma strutturalista e semiologico giungeva infatti a sovrapporsi con alcune poetiche novecentesche – «la Crisi della Ragione, la Perdita di Centro, l’Alienazione del Linguaggio», fino eventualmente alla «Morte dell’Arte» – che, screditando qualsivoglia possibilità di conferire un senso valido universamente al mondo, giustificavano la progressiva riduzione del margine di operabilità al suo interno; e, insieme, della responsabilità che in quanto soggetti e membri di comunità si è chiamati a esercitare nei confronti degli oggetti culturali che la popolano. Lo osservava già nel 1974 Franco Brioschi, che pure era convinto che un’opera non è letteraria ma lo diventa.[xiii]
Ciò che per lo strutturalismo è vero de iure, per Brioschi lo è de facto. Tutto, se considerato iuxta propria principia, può recare tracce di letterarietà; entro la cornice dell’arte, tutte le proprietà e le qualità di un oggetto possono essere o diventare pertinenti. Il problema, come si dice, sta a monte: e riguarda il rapporto che lega il mondo della letteratura a quello della vita. «Se il senso non è dato», scriveva Brioschi in quell’occasione, «ciò non implica che non ci sia alcun senso, bensì che semplicemente dobbiamo darlo noi».[xiv] Ma nel 1986 avrebbe dovuto prendere atto insieme a Di Girolamo e Berardinelli che, una volta adempiuto al suo compito, il «modello strutturalistico-semiologico» non solo era caduto in disuso, ma aveva condotto alla fine (o quasi) di ogni rilevanza della «riflessione teorica sulla letteratura».[xv]
Affrontando i modi in cui i tre poeti hanno saputo costruire il proprio discorso critico a partire da un rapporto con la storia, e di come questo si sia sviluppato (o sia rimasto inalterato) nel tempo, i capitoli di questo libro considerano il medesimo trapasso ratificato dai tre studiosi nell’ambito della teoria della letteratura. Di fronte al diradarsi dei referenti storici, Zanzotto avrebbe rinvenuto l’amara conferma di una condizione umana pregiudicata ab origine; Giudici avrebbe ripiegato sempre più radicalmente verso lo spazio altro del poema, manifestando in questo abbandono tutto il suo rimpianto; Raboni, constatato il tramonto di ogni possibilità di alludere per tramite della poesia a una libertà da esercitare nella vita, avrebbe ricercato nella forma un modo per garantire a questo anelito, se non altro, una sopravvivenza.
Congedando questo lavoro, resta da dire che l’autentica interpretazione di queste scritture la dà (fino a una prova contraria) il modo in cui sono andate le cose. A chi, come chi scrive e legge queste righe, guarda entrambe dall’altro lato del foglio, spetta il compito di rinunciare provvisoriamente a richiedere loro cosa sia possibile o necessario o doveroso diventare; e di cominciare, invece, a fare i conti anche per loro tramite con ciò che si è.[xvi]
Certo, le lamentazioni sulla sterilità del presente non sono una novità di quest’epoca. E tuttavia, come ogni epoca, nemmeno questa è priva delle sue ragioni per dolersene. Di fronte all’arte greca (che pure postulava una mitologia, una concezione della natura, dei rapporti sociali storicamente determinati), Karl Marx si chiedeva perché la fanciullezza storica dell’umanità non dovesse esercitare il fascino eterno di ciò che non può più tornare.[xvii] Dovremmo forse cominciare a guardare anche quel tempo, prossimo e remoto, con questi occhi.
Note
[i] L. Anceschi, Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica, Einaudi, Torino 1989, p. 132.
[ii] G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, Bari, Dedalo 1973, p. 51.
[iii] Cfr. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2018, pp. 168-72.
[iv] Cfr. P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario (1992), introduzione di A. Boschetti, tr. di A. Boschetti e E. Bottaro, il Saggiatore, Milano 2022; E. Panofsky, Architecture gothique et pensée scolastique, précédé de L’Abbé Suger de Saint Denis, tr. fr. et postface de P. Bourdieu, Minuit, Paris 1970, pp. 133-67.
[v] A. Romeo (a cura di), La poesia e la critica. Intervista a Giovanni Raboni, «Poesia», I, 3, 1988, pp. 46-8.
[vi] R. Luperini, Su Fortini saggista e teorico della letteratura, in Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Liguori, Napoli 1999, p. 89.
[vii] R. Wellek, Storia della critica moderna (1955-1992), 8 voll., tr. di A. Lombardo, F. Gambino, R.M. Colombo, G. Luciani, il Mulino, Bologna 1990, I, p. 10.
[viii] G. Lukács, Platonismo, poesia e le forme: Rudolf Kassner, in L’anima e le forme, (1910), tr. di S. Bologna, se, Milano 2002, pp. 43-7.
[ix] Cfr. F. Vercellone, Sistemi dinamici. Morfologia come concetto storico, «CoSMo. Comparative Studies in Modernism», 18, 2021, pp. 45-54.
[x] G. Mazzoni, La poesia di Raboni, «Studi Novecenteschi», XIX, 43-44, 1992, p. 286.
[xi] F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (1964-1965), in Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 173.
[xii] Cfr. D. Giglioli, Tema (2001), Milano, edizioni del verri 2024, p. 120.
[xiii] F. Brioschi, Il lettore e il testo poetico (1974), in La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura (1983), il Saggiatore, Milano 2006, pp. 70 e ss.; C. Di Girolamo, Interpretazione e teoria della letteratura, in C. Di Girolamo, A. Berardinelli, F. Brioschi, La ragione critica. Prospettive nello studio della letteratura, Einaudi, Torino 1986, p. 12. Cfr. L. Neri, S. Sini, Franco Brioschi, tra letteratura e filosofia, in Eaed. (a cura di), Il testo e l’opera. Studi in ricordo di Franco Brioschi, Ledizioni, Milano 2015, pp. 17-20; L. Cardilli, Implicazioni/applicazioni del pensiero di Franco Brioschi, in P. Giovannetti, A. Inglese (a cura di), Maestri contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, Milano 2024, pp. 39-51.
[xiv] F. Brioschi, Il lettore e il testo poetico, cit., p. 52.
[xv] Presentazione, in C. Di Girolamo, A. Berardinelli, F. Brioschi, La ragione critica, cit., p. 3.
[xvi] F. Brioschi, C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Principato, Milano 1984, pp. 246-7.
[xvii] K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), a cura di M. Musto, tr. di G. Backhaus, Quodlibet, Macerata 2010, p. 49.
“Congedando questo lavoro, resta da dire che l’autentica interpretazione di queste scritture la dà (fino a una prova contraria) il modo in cui sono andate le cose.” — Non so, ci sono diversi livelli di verosimiglianza sui quali poter poggiare una tesi e letture di epoche precedenti fanno certamente da sedimento di appoggio. Con gli strumenti attuali, tuttavia, ogni ipotesi potrebbe essere testata e/o supportata da analisi quantitative su testi e corrispondenze, strumenti che nel passato non c’erano (o almeno, non c’erano banche dati pressoche’ infinite di immediato accesso e qualunque scansione). “Il modo in cui sono andate le cose” non dipende forse dalla ricezione, ossia delle persone che hanno fisicamente recepito e continuato quel lavoro, magari attualizzandolo al loro tempo corrente?