di Giuseppe Todisco

 

[E’ uscito da poco per AnimaMundi edizioni, nella collana “Cantus firmus” a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis, Cafarnao di Giuseppe Todisco. Presentiamo alcuni testi].

 

Esci dalla parola

intatta.

 

Chi è là,

             chi ti indovina?

 

Amo, dici, quando un uomo

si addentra nella macchia

convinto che dal ramo si scorga

 la radice.

 

Dimora il cerchio dove parli.

Più in alto un sogno

si ammutina.

 

***

 

Passato via tutto il trambusto

potrei estrarti viva da un orecchio.

L’ostio del cielo radice al vento –

il maltempo agglutina nell’orto,

grugnisce un tuono.

Questo è il mio nome per sempre,

vetro minuscolo di ossidiana

che dalla cima sterile di un pino

punta dritto verso casa.

Tutti sanno dove andare: l’acqua

nel mastello, il cieco alla fontana.

Ma qualcuno ha detto basta. L’odore

di chinino allerta la ferita:

vita mia divisa – del tempo cosa fare.

 

***

 

Sarebbe stato bene agli occhi

anche guardarti avvolta

da un bisso di luce. Ombre

 

azzurra e dispera l’estate

in cui credevo.

 

                       Potessi sfebbrare

o chiudermi a covo tra le tue

braccia…

 

               Come ci siamo trovati e intorno

a che nome? La vecchia dietro la tenda

aspetta che passi qualcuno:

a te predice un addio, di me

trattiene qualcosa.

 

***

 

Dire all’acqua acqua

non fa di me un poeta

 

ma l’amore cauto della formica

chiusa dentro il pugno. Può

un solo cielo volerci tutti –

eppure questo lento

masticare non aiuta.

Come la terra muove

il suo stellato, rovistando

nella mano ferma,

così la formica scava

nella carne la parola

che non si attraversa.

 

***

 

La volta che sconfissi nostro padre,

l’ansia di mirare all’osso.

 

«È un sollievo che sia per mano tua».

 

Franco tagliava per i campi,

diceva che c’è il diavolo

oltre il muro della scuola:

sotto gli alberi fa un nido,

gli abbiamo visto crescere le corna.

 

«Di che colore fai la solitudine, bianco».

 

Era un uomo affacciato alla finestra

quel cielo venuto male; era per sentire le trame

dentro gli occhi che mettevo il verde ai bordi delle strade.

Più di quante volte possa urlare olmo

quelle case messe a specchio, dove si può compiere

il miracolo stando fermi, l’ombra che si muove.

 

Franco diceva che il diavolo ci ha presi a cuore.

 

La notte che veniva fuori l’osso, il bianco

da ricominciare: l’ansia di mirargli addosso.

Quello era nostro padre.

 

***

 

Il sole Franco la mattina presto,

la nonna che invecchiava dal balcone

la ringhiera verde.

Era per quella fede di terra e luce

che stavamo al mondo come l’edera

che lascia il muro e cade.

 

Dal Getsemani si poteva andare in bici

fino al fischio di tuo padre, ed era sempre

un cielo a smettere le braccia la strada

verso casa. Il buio a credere la notte che veniva

quasi un sacramento. Ma se qualcuno dice

non come io voglio, allora passi anche per noi

questo calice se restiamo svegli, affinché

di un figlio si possa comunque fare ammenda.

 

Il sole Franco la mattina presto, la nonna

che chiedeva dal balcone dove siete stati,

la folla che veniva come un ladro

a prenderci le spalle.

 

Mette gloria per domani la prima comunione:

fatti il segno della croce come i grandi.

 

***

 

Nel sonno

chi ancora ti cerca l’occhio

spoglia il futuro.

 

Tu devi dire

a chiunque: l’ombra

lasciata cadere torna al sambuco.

 

Come la mano rilascia

il battente, lontano

infuriano gronde – ripeti

con me: invano ti salva

chi non riconosce il Signore

in mezzo al paese.

 

***

 

Come se dal granturco cavassi

solo il fiore, preso un poco del mio

sangue l’ho posto sullo stipite.

 

Mezzaluna fertile che punta semi

sui tuoi fianchi – poco resterà del figlio

se in cielo azzima la notte.

 

***

 

Quando volersi bene è un albero

o il tramestio di foglie per strada,

sperando che Iddio ci guardi

dal ramo che sporge in casa.

 

Brina con noi la linfa

come la schiera di gemme

nel freddo del primo mattino.

 

Spesso veniva l’angelo alla cervice

stretta del bulbo: «Tu non avrai

pianta – diceva – ma cava la vita

nel fusto».

 

***

 

Rendi al cielo ciò che del cielo già sarebbe

parte se solo tu dormissi: echi di risate,

prati verdi e colchici. O quando porti

nuvole alla bocca e ne fai voto, si stacca

dall’azzurro un nodo e torna l’ape al bugno

col suo ronzo.

                       Alzati Talita, dal fragile

piovischio fino al rompere del tuono.

Tutto sopra di te si dispone. Così può anche

la lucciola cedere il suo quarto di luce buona

al sorgere del sole.

 

***

 

Vieni – tra l’occipite e il sonno –

come il dispetto di una sedia

che cade. Toccasse a me

la stella, la prima luce del selciato.

Ma tu vieni

                   come quel lampo

 

che pure lo scisto ha sognato.

 

***

 

Quanto di un bacio avviene – che sia

per gesto o altitudine – porta con sé

una fregola d’ali. Poco al di là del fiume,

ancora la fiamma scampata dal prato.

 

Appare un cartiglio di voci tutta la vita.

La guardi sparire come ossi di pesca

lanciati in cortile.

 

***

 

Ho spinto forte su un dolore. Amarti

era nell’aria così come cadere poi

col fiato corto dell’estate.

 

Qualunque esitazione era un

inganno – anni e anni di troppa

luce – il più bel sangue del terebinto.

 

***

 

Credi sia poco per un addio,

eppure non una stella dice:

serena verrà la notte.

Dio solo sa del frutice

che innerva il vento e quanto

di quella pianta io porti in seno.

Come se potessi riannodare,

finita l’estate, il volo delle rondini

al canto delle rane. Ora, sono

fiori rivolti alla terra le foglie

che cadono – eppure, non una stella

dice: serena verrà la notte

senza i suoi baci.

 

***

 

Te ne vai col sole oltre la casa

rotta, dove il bene di cui parli

è il nome rimasto sulla porta.

 

Amarsi conta pure questo iato

 

e mentre il giorno insiste, un’ombra

dentro l’ombra scende quasi fosse

un grido nella stanza vuota.

 

[Immagine:  John Chiara, Clover Field Plantation at Fargason, 2016].

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