di Emily Dickinson (trad. di Maria Borio e Jacob Blakesley)

 

[Esce oggi per Crocetti Cinquantacinque poesie di Emily Dickinson (traduzione di Maria Borio e Jacob Blakesley). Pubblichiamo in anteprima sei poesie e alcune parti dell’introduzione di Maria Borio.]

 

288

 

Io sono Nessuno! Chi sei Tu?

Sei – Nessuno – anche tu? Allora siamo in due!

Non dirlo! Sai, ci caccerebbero via!

 

Quanta fatica – essere – Qualcuno!

Quanto volgare – come una Rana –

Sbraitare il tuo nome – tutto il santo giugno –

Ad un pantano adorante!

 

*

 

216

 

Sicuri nelle loro Camere d’Alabastro –

Non sfiorati dal Mattino –

E nemmeno dal Meriggio –

Riposano i miti membri della Resurrezione –

Trave di Raso – e Tetto di Pietra!

 

Gli Anni vanno maestosi – nella Mezzaluna – sopra di loro –

I Mondi scolpiscono i loro Archi –

E i Firmamenti – remano –

Diademi – cadono – e i Dogi – si arrendono –

Senza suono come puntini – sopra un Disco di Neve –

 

Versione del 1861

 

*

 

341

 

Dopo un gran male arriva un sentimento solenne –

Come Tombe, i Nervi siedono cerimoniosi –

Il Cuore rigido domanda “fu Lui, che soffrì”,

E “Ieri, o Secoli fa?”

 

I Piedi si muovono intorno, meccanici –

Una linea segue la linea successiva

Di Terra, Aria, o Altro –

Va avanti senza cura,

Un benessere di Quarzo, come una pietra –

 

Questa è l’Ora di Piombo –

Ricordata, se si sopravvive,

Come persone Assiderate che hanno memoria della Neve –

Prima – Freddo – poi Stupore – infine lasciarsi andare –

 

*

 

601

 

Un immobile – Vulcano – la Vita –

Che tremolava nella notte –

Quando si faceva buio abbastanza

Senza obliterare la vista –

 

Un quieto – Stile di Terremoto –

Troppo sottile perché qui sospettino

La Natura dalle parti di Napoli –

Il Nord non sa rilevare

 

Il Solenne – Torrido – Simbolo –

Le labbra che non mentono mai –

I cui Coralli sibilanti si separano – e si chiudono –

E le Città – evaporano –

 

*

 

599

 

C’è un dolore – così totale –

Che ingoia l’Essere –

Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –

Così la Memoria può passarci

Intorno – attraverso – sopra –

Come chi in un Delirio –

Vada sicuro – ma un occhio aperto –

Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –

 

*

 

501

 

Questo Mondo non è Conclusione.

Una specie sta al di là –

Invisibile, come la Musica –

Ma certa, come il Suono –

Accenna, e frastorna –

Filosofia – non sai –

E, alla fine, attraverso un Enigma –

Sagacia, devi passare –

Indovinarla, confonde i sapienti –

Conquistarla ha fatto soffrire gli Uomini

Per il Biasimo di Generazioni

E la Crocifissione, ha mostrato –

La Fede tentenna – e ride, e si rafforza –

Arrossisce, se qualcuno l’osserva –

Si aggrappa a un filo di Evidenza –

E chiede a una Banderuola, la via –

Grandi Gesti, dal Pulpito –

Gli Alleluia rullano tuonanti –

Gli anestetici non possono calmare il Dente

Che rode l’anima ––

 

***

 

La luce scura di Emily Dickinson

di Maria Borio

 

1. Quando nel 1939 Eugenio Montale recensisce una delle prime traduzioni italiane di Emily Dickinson, curata da Emilio e Giuditta Cecchi, ne parla in modo scettico: “Crediamo che il suo influsso, con quello di vari poeti inglesi cattolici o cattolicheggianti, dal Thompson al Patmore fino al Hopkins, rimarrà mediato, marginale, operando su giovani aggiornati solo di terza mano e in perpetua ricerca di contenuti”. Aggiunge, però, cauto: “influsso non mancherà in qualche modo”.[1] L’immaginario di Montale è esistenzialista e ateo. Inoltre, considera negativamente sia lo spiritualismo puritano, sia il trascendentalismo e l’utopia democratica che Dickinson respira quotidianamente ad Amherst nel New England. Dickinson è chiusa in un cliché: cristallizzata, come nel dagherrotipo di Otis H. Cooley, scattato nel 1847, che la ritrae da adolescente. Montale la etichetta: un’autrice mistica, focalizzata sulla sua interiorità, lontana dai problemi dell’esistenza concreta, senza quello che potremmo chiamare un pensiero critico. Tuttavia, non potrà fare a meno di occuparsene, forse riconoscendo i legami di Dickinson con la poesia metafisica inglese del Seicento, che per lui era fondamentale: infatti, la include nel suo Quaderno di traduzioni (1948).[2]

 

L’inclinazione metafisica è sembrata a lungo il tratto dominante nella poesia di Dickinson. Montale è colpito dalla sua capacità originale di proiettare gli stati d’animo personali in un orizzonte trascendente. D’altra parte, lui stesso pubblica, sempre nel 1939, le Occasioni, che trasfigurano l’esperienza soggettiva in significati allegorici. Ma se il carattere metafisico di Dickinson ha anche un fondo spirituale, questo aspetto non sarà irrilevante per autori come Margherita Guidacci, Cristina Campo, Mario Luzi. Guidacci inizia a tradurla nel 1947 e continua a occuparsene fino all’edizione Poesie del 1979.[3] Le traduzioni di Campo appaiono nella Tigre assenza del 1991, ma risalgono al 1953: erano destinate al progetto del Libro delle Ottanta Poetesse, mai andato in stampa; e, probabilmente, furono ben viste da Elémire Zolla, filosofo del pensiero mistico e suo compagno di vita, che nel 1961 allestisce la raccolta Selected Poems and Letters, dove raggruppa una sua scelta di poesie, senza traduzione, ma con la prima importante bibliografia sull’autrice apparsa in Italia.[4] Anche Luzi lavora a Dickinson. Le sue traduzioni sono raccolte nella sezione Versioni d’autore curata da Marisa Bulgheroni per Tutte le poesie del 1991, dove troviamo anche quelle di Amelia Rosselli.[5] Rosselli, in particolare, cresciuta in una famiglia anglofona, e libera dalla preoccupazione di cadere in equivoci spiritualistici come Montale, sembra confrontarsi con Dickinson quasi fosse una specie di alter ego: trova un’intensità espressiva affine nell’intelligenza visionaria di questa minuta donna del New England, sulla cui vita è stato costruito un mito letterario. Così la poesia di Dickinson, a lungo sclerotizzata dagli interpreti, inizia a essere presa in considerazione in modo più attento. Il carattere metafisico si rivela solo uno degli aspetti della ricerca di Emily, che è più ampia e riguarda anche il problema della conoscenza autentica di sé stessi e della realtà.

 

La tensione a trascendere l’esperienza, infatti, non significa per Dickinson che la realtà possa essere letta con degli universali: non le interessa cercare un senso attraverso i parametri dogmatici della religione o quelli concettuali della filosofia. Trascendere vuol dire interrogare: è un atto percettivo e speculativo costante, che attraversa la vita quotidiana in modo pervasivo. Perciò, potrebbe assomigliare al fenomeno della luce scura che secondo la fisica si è sprigionata dopo il Big Bang e si è espansa in particelle impercettibili in tutto l’universo. L’attitudine a interrogare riguarda molti aspetti: la propria coscienza, la comunità in cui si vive, lo spazio geografico che si abita con i suoi oggetti e la sua natura, ma anche la fede e le idee. Trascendere significa cercare di guardare oltre i limiti di quello che è interiore e esteriore, materiale e immateriale, concreto e astratto. Perciò, la poesia di Dickinson ha sempre uno scopo ermeneutico: ha il coraggio di riconoscere che la fede e le idee, così come il sentire individuale, possono essere autentici non perché possiedono qualità assolute, ma perché acquistano davvero significato se si riesce a considerarli in una complessità di rapporti reali, spesso molto difficili da decifrare. Trascendere non assomiglia a un gesto mistico, ma a un ostinato mettersi faccia a faccia con l’enigma. Il riddle è infatti una delle forme preferite con cui Dickinson costruisce le poesie (“E, alla fine, attraverso un Enigma –/ Sagacia, devi passare” leggiamo in This World is not Conclusion…). La sua scrittura innesca reazioni a catena: prima infrange i limiti percettivi a cui si è assuefatti e, poi, prefigura altri limiti, in modo che l’interrogazione si protragga con un fluire di relazioni vibranti. Forse per questo Ralph Waldo Emerson, dopo aver visto il dagherrotipo di Cooley, annota nel suo diario che Dickinson assomiglia a Nefertiti[6]: elegante e inquisitoria, pronta a confrontarsi con la sfinge e i suoi indovinelli, decisa a guardare il fondo nudo delle cose e condurre il lavoro della conoscenza come una pratica indomita di dignità. Potremmo chiederci, allora, quali avrebbero potuto essere le opinioni di Montale se avesse dato meno importanza al peso della religione nell’opera di Dickinson? Forse, si sarebbe accorto che alcuni aspetti della propria poetica lo accomunavano a quest’autrice. Non chiederci la parola… si chiude, non a caso, con un tono espressamente dichiarativo a cui è possibile attribuire anche una caratura filosofica: “questo solo possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Entrambi appartengono a una costellazione di scritture che possiedono un analogo “sistema cognitivo-espressivo”[7]: partono dall’esperienza soggettiva per configurare una riflessione ermeneutica e usano il vissuto individuale come mezzo di conoscenza. Questa tendenza, d’altra parte, caratterizza la poesia lirica dal Romanticismo in poi su scala globale – e la poesia lirica è una delle forme cruciali in quella che Goethe chiamava Weltliteratur, diffusasi in epoca romantica.[8] Dalla fine del Settecento le distanze geografiche iniziano ad accorciarsi grazie ai nuovi mezzi della scienza e della tecnica, le influenze culturali si infittiscono, e la letteratura si sviluppa con caratteristiche che vanno oltre le tradizioni e le lingue nazionali. Questi fenomeni interconnessi hanno rafforzato, con il tempo, la prospettiva della World Literature, soprattutto nella seconda metà del Novecento: un’idea di letteratura che, oltre a reinterpretare gli assetti culturali globali dopo la stagione del colonialismo, fa riflettere su molti cambiamenti dell’umanità nell’età contemporanea. A livello macroscopico, si può dire che se, prima dell’Ottocento, la letteratura esprimeva soprattutto una casistica canonica, con variabili minime, poi diventa fondamentale affidare al linguaggio un’altra ricerca: la letteratura inizia a essere considerata una risorsa conoscitiva del sentire individuale autonomo, variabile e complesso. Nella World Literature, infatti, non contano soltanto le forme stilistiche comuni o i temi condivisi, seppure molto importanti. I temi e le forme comuni sono, infatti, interrogati dagli autori con domande che non possono essere risolte tramite risposte tipologiche o formulari sulla natura umana, perché aprono possibilità di ragionamento legate allo sviluppo dell’interiorità. L’attenzione spasmodica di Dickinson a interrogare le cose non diventerà uno degli assi poetici della World Literature?

 

2. L’ossessione di Dickinson a porsi sempre il perché di quello che lei si sente e degli eventi, è rappresentata da una parola chiave: “slant”. Di solito viene resa in italiano con l’aggettivo “obliquo”: Tell all the Truth, but tell it slant…, “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua”. Ma quando “slant” è un sostantivo, come “slant of light” (There’s a certain Slant of light…), preferiamo un termine che esprima la concretezza dell’inglese: “taglio”. Luzi traduce con “obliquità di luce”[9]: però, usando l’astratto “obliquità” attenua l’impatto visivo realistico che è reso da “taglio”. “Slant” indica metaforicamente la necessità radicale di attraversare quello che si vede – un’esperienza fisica – e quello che si pensa – un’esperienza intellettiva –. Nel primo caso, è richiesta un’attenzione che faccia presa sulle cose concrete e sulle impressioni sensibili: come quando un fascio di luce entra in una stanza o irrompe in mezzo a un prato e sembra che separi il pavimento o il suolo in spazi cromatici netti, uno illuminato e l’altro in ombra. Nel secondo caso, si cerca di dare alle esperienze dei significati, considerando i parametri di ciò che è creduto vero o falso in modo più acuto rispetto alla norma, più intenso rispetto alle evidenze superficiali.

 

Così la poesia di Dickinson realizza una rivoluzione percettiva, esistenziale e ontologica. La percezione si manifesta attraverso un trascendere continuo dall’interiorità all’esteriorità, dal concreto nell’astratto. L’esistenza individuale è trascesa nella natura e nella comunità e quest’ultime, a loro volta, sono trasfigurate nell’interiorità. L’ontologia è formata da scale di rapporti: gli universali, religiosi o filosofici, non sono assoluti, ma nemmeno si possono considerare senz’altro certi i dati oggettivi delle scienze, perché tutto va visto in relazione.

 

Ma questa rivoluzione sembra sfuggire a Mabel Loomis Todd e Thomas W. Higginson quando allestiscono la prima edizione dei Poems nel 1890.[10] Infatti, dividono i testi in quattro sezioni secondo una casistica letteraria all’epoca piuttosto comune: Life, Love, Nature, Time and Eternity. Da questi titoli potrebbe emergere il ritratto ideale di una poetessa vittoriana. Basta, però, confrontarli con le quattro materie che Dickinson, in una lettera a Abiah Root del 1845, dichiara fondamentali per la sua formazione – Mental Philosophy, Geology, Latin e Botany[11] e la patina evanescente, preraffaellita scompare. La natura non è solo un universo incantato che alimenta l’immaginazione, ma anche uno spazio concreto da osservare secondo i metodi della geologia e della botanica. La postura speculativa, poi, fa sparire ogni visione aleatoria o indicata da una fede religiosa sprovvista di riflessione critica. Infine, la passione per il latino testimonia la cura minuziosa verso il linguaggio. È questo lo strumento di conoscenza più importante secondo Dickinson e, per interrogare le scale di rapporti, deve essere puntuale.

 

Allora, il significato di “slant” – che, come abbiamo visto, crea una tensione pervasiva fra concreto e astratto, interiorità e esteriorità – riguarda anche il modo in cui Dickinson usa il linguaggio. La sua è una ricerca di esattezza e acume, che si proietta in quello di molte altre parole. Fra queste “difference”, spesso usata per indicare come appare il mondo esterno. La radura estiva di Further in Summer…, ad esempio, sembra lo spettacolo di una “differenza druidica”, che suscita una sovrapposizione tra la vista delle piante e degli insetti e il miraggio delle cerimonie sacre dei druidi, i sacerdoti dei popoli celtici. In There’s a certain Slant of light… si parla di un’“intima differenza,/ Dove è ciò che conta”: “difference” dà risalto alla qualità fisica della luce che irrompe nel paesaggio, producendo non solo una separazione esteriore tra zone illuminate e in ombra, ma anche interiore, cioè un riconoscimento fulmineo della discrepanza fra quello che si sente imprescindibile oppure futile.

 

Sulla linea del significato di “slant”, sono adottate anche parole come “ghost”/“ghostly” per descrivere l’attività della coscienza: danno un’idea delle fratture che si creano nell’interiorità quando è coinvolta nei processi conoscitivi. E ricordiamo che per Dickinson “ghost” rimanda sempre a qualcosa di profondamente turbante: per questo, lo traduciamo con “spettro” e non con il più neutro “fantasma”. In Further in Summer… il ronzio degli insetti viene paragonato a un “Cantico spettrale”: produce una sensazione destabilizzante in chi ascolta, come se si trovasse in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Oppure, l’ape – fra gli animali totemici di Dickinson, spesso sua personificazione antropomorfa – è definita “spettrale” in If you were coming in the Fall… Come una reincarnazione dell’autrice post mortem, irrompe nell’atmosfera domestica e innesca sensazioni improvvisamente intensificate, destabilizzanti.

 

Gli “spettri” che coinvolgono il mondo interiore e la “differenza” colta in quello esterno, fanno parte di uno stato percettivo che si sforza di dirimere l’ambiguità tra le cose come ci appaiono e come sono. In una lettera del 1876 a Higginson leggiamo: “la Natura è una Casa Abitata da Spettri – ma l’Arte – una Casa che cerca di essere Abitata da Spettri”.[12] Nella natura possiamo individuare le diversità tra come l’immaginazione fa vedere i fenomeni – o i loro spettri – e come essi sono invece dal punto di vista geologico e biologico. L’arte, invece, deve cercare di non limitarsi alle rappresentazioni superficiali o referenziali, ma stimolare la conoscenza delle scale di rapporti tra il sé e la realtà, l’immaginazione e i fatti.

 

Pochi anni prima della recensione di Montale al volume tradotto da Emilio e Giuditta Cecchi, esce in America un’edizione ampliata delle lettere di Dickinson. Siamo nel 1931 e Marianne Moore ne parla su “Poetry” nel 1933. Per lei, il tratto fondamentale di Dickinson è la capacità di legare l’attenzione per le cose oggettive e l’immaginazione: “Emily Dickinson era una discepola della ragione ma la sua tecnica era intuitiva”.[13] Nell’età del modernismo, il carattere della poetessa etera che presentavano Mabel Loomis e Higginson non esiste più. La differenza fra il modo in cui Moore legge Dickinson e la ricezione di Montale è innegabile. Tuttavia, non sbagliava Montale notando che Dickinson seppe guardare “in faccia senza illusioni la solitudine spettrale del proprio destino”.[14] Emily fece coincidere la propria vita integralmente con la poesia, spingendo al massimo la sua intelligenza e la sua sensibilità nell’interrogare le possibilità del reale, oltre il piano del senso comune. E questa scelta ha reso la sua poesia un esempio per il futuro. Dickinson ha cercato con tutte le forze di captare la luce scura – concreta per la scienza, ma invisibile all’occhio umano – che pervade l’universo.

 

[…]

7. Nella poesia di Dickinson la coscienza è connaturata al mistero. E il pensiero – da manifestazione del Belief, che legava la mente (Mind) all’assoluto – diventa segno di una complessa attività cognitiva. Secondo Emily, il pensiero nasce in noi, nel cervello (Brain), organo dell’intelligenza che ci rende capaci del dubbio. Non esiste verità sicura, se non può essere posta alla prova di una domanda. Forse, così come osservava la natura con l’attenzione che aveva appreso dalla botanica e dalla geologia, imparò a considerare anche il pensiero tramite l’anatomia. Negli ambienti colti del New England erano piuttosto diffusi pubblicazioni di natura scientifica: fra quelle mediche c’era il manuale Anatomy and Phisiology: Designed for Academies and Families di Calvin Cutter (1847), presente nella biblioteca di casa Dickinson, che con ogni probabilità lei lesse con attenzione.[15] Emily arrivò persino a ricorrere all’anatomia per esprimere dubbi sull’incontrovertibile verità garantita dalla fede: lo testimonia, ad esempio, un’ironica affermazione contenuta in una lettera del 1861, cioè “la fede di San Tommaso nell’Anatomia era più forte della sua fede nella fede”.[16] Per Dickinson il pensiero individuale era diventato forse l’unico punto certo per capire le cose. Il cervello passa al fil di lama i principi religiosi, l’idealismo filosofico e gli schematismi a cui le scienze possono ridurre realtà. Questo pensare interrogativo riguarda anche l’io. La sua lirica, infatti, tratta l’io come una forma conoscitiva molto articolata della nostra identità, non come se questo pronome rappresentasse semplicemente la biografia di chi scrive: “quando parlo di me come Soggetto della Poesia”, dice a Higginson nel 1862, “non ho in mente – me – ma una persona immaginaria”.[17]

 

Il pensare interrogativo di questa autrice riesce così a farci vedere tutto da una prospettiva inedita. Nelle cose note, ordinarie, scopre la bellezza – tanto diversa dall’estetica del bello e, forse, vicina solo al sublime romantico, perché suscita un’alternazione della coscienza. Ma, soprattutto, la bellezza corrisponde alla percezione di uno scarto tra il limite di come possiamo comprendere questo mondo e l’illimitato che ci sfugge: tra la misura di uno spazio e di un tempo circoscritti e il dolore per l’impossibilità umana di misurare l’impercepibile. “Impercettibilmente come il Dolore/ L’Estate scorreva via” leggiamo in una poesia che si conclude così: “La nostra Estate, leggera, è fuggita/ Nella Bellezza”. La bellezza rimanda, quindi, alla condizione di un’esistenza dove si ha il coraggio di guardare in faccia la mortalità, che spaventa, e abbracciarla. Riflettendo sulla morte, Dickinson dà anche un’interpretazione originale dell’ignoto. “La morte la ossessionò a tal punto”, scriveva Hughes, “che finì con il considerarla l’unico atto che avrebbe potuto condurla un passo necessario oltre la sua visione”, ossia “avrebbe consentito a lei e alla sua sagacia di attraversare immediatamente l’enigma”.[18] La morte è vista come il punto ipotetico di massima conoscenza dell’ignoto. Certo, Emily la considerava anche nell’ottica della religione, ma soprattutto fu per lei uno dei problemi più importanti della conoscenza.

 

La bellezza e la morte possono essere considerate delle prospettive di misura: modi per provare a capire qualcosa che sembra impossibile da misurare. Non a caso, uno degli elementi caratteristici della sua poesia è la metafora concettuale della misura, attraverso cui “dà forma” allo spazio, al tempo e allo stile. La sua immaginazione rielabora incessantemente lo spazio quotidiano, trasformando la vista banale delle cose nell’apparizione del possibile. Figure come il cerchio, la circonferenza, il circuito (“il successo sta in un circuito”, in Tell all the Truth but tell it slant…) diventano un metro interiore per scrutare la natura con occhi più attenti, così come la casa (l’Homestead), le camere o la tomba sono contenitori simbolici del corpo in vita e in morte. La geografia, per la quale ha un gusto inusuale nella sua epoca, che la avvicina ai metafisici del Seicento (“la posta da Tunisi”, in A Route of Evanescence…; “il Nord” che “non sa rilevare” la “Natura dalle parti di Napoli”, in A still – Volcano – Life…), è composta prevalentemente da coordinate di una cartografia mentale. E la bussola, il microscopio o il telescopio non sono solo strumenti meccanici per osservare meglio dati fisici, ma modi per indicare un esercizio di percezione intensificata. Oppure, la metafora dell’acqua e del mare, che riprende dall’Apocalisse (“Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello”, 22:1; “Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita”, 22:17) le consente di rileggere il senso del tempo. La visione lineare, e finalistica, della vita come viaggio indirizzato al giudizio universale, cambia in quella non lineare del mare della vita: in questo mare esistiamo non come predestinati da Dio, ma come creature intelligenti che possono interrogarsi sulla finalità.

 

E, se l’immaginazione di Dickinson è capace di una misura – un attributo solitamente delle scienze o della logica –, allora possiamo comprenderne meglio anche il suo stile. È stato detto che lei, con la poesia, tentò di “scolpire il vuoto” e di “cesellare una geometria dell’estasi”,[19] quasi come se volesse proteggere la sua scrittura da una società che non poteva capirla. La cultura del New England, d’altra parte, non riusciva ancora ad accettare che il pensiero di una donna potesse imporsi. Un’autrice dell’epoca doveva perciò sentirsi come una pistola carica messa all’angolo, subordinata al maschile, condannata a capire senza margine di scelta e decisione. “Perché io ho solo il potere di uccidere,/ Senza – il potere di morire” dice il finale di My Life had stood – a Loaded Gun…: la conoscenza di una donna è come un fucile, un semplice strumento, non è quella di colui che preme il grilletto e ha davvero in pugno la vita e la morte. Ma Emily non si rifugia mai dentro l’ambiguità, non rende la sua poesia un enigma per costruirsi, attraverso le parole, un potere, letteralmente come quello di una sfinge.

 

La sua sintassi e la sua metrica non sono, infatti, volutamente oscure, ma rappresentano l’espressione spontanea del suo genio verbale. Così Dickinson riuscì a raggiungere una forma che combina naturalmente l’immaginazione e la misura: il massimo di una dizione intuitiva e il massimo di una riflessiva. La sintassi tesse insieme frasi dichiarative e metaforiche, con un lessico astratto e concreto, lirico-estatico e referenziale-ironico. La punteggiatura è fedele a quest’articolazione sintattica di momenti metaforici e dichiarativi: i trattini di sospensione, le virgole e le maiuscole non sono quasi mai distribuiti seguendo le regole standard della grammatica – fatto che infastidiva molto Higginson, che voleva cambiarle, ma che sarebbe insensato, perché si perderebbe del tutto il senso della testualità –. Questo vale anche per la metrica, che riprende la base dell’innologia protestante, rinnovandone però il verso e le rime. La grammatica e la metrica di Dickinson aderiscono, infatti, alla forma mentale di un discorso poetico, che riproduce dei “pattern del pensiero”, come li chiama Helen Vendler.[20] Si tratta di schemi mutabili e fluidi, perché seguono l’andamento della percezione così come essa accade realmente, suscettibile agli imprevisti e alla diversità delle situazioni, e perciò non possono essere contenuti in regole fisse.

 

Il discorso poetico di Dickinson è uno dei primi ad aver fatto vedere quanto possa essere importante il pensiero della poesia. Un pensiero diverso da quello logico e strumentale, che quindi non insegna o istruisce, non istituisce un ordine o un codice, ma interroga la realtà fondendo l’immaginazione e il linguaggio, le idee e le immagini. Un pensiero che coincide con un interrogarsi: per questo, si sviluppa secondo la gerarchia emotiva dell’io, mentre prova a chiedersi il perché delle cose, secondo i movimenti autentici della sua coscienza. Il pensiero della poesia non potrà mai apparire davanti a noi codificato in una misura e non si può letteralmente spiegare. Ma, come la luce scura, pervade l’esistenza.

 

Note

 

[1] Eugenio Montale, La poesia di Emily Dickinson, “Oggi”, I, 29 luglio 1939; ora in Id., Sulla poesia, a cura di Ida Campeggiani, Mondadori, Milano 2023, p. 423.

[2] Cfr. Id., Quaderno di traduzioni, Edizioni della Meridiana, Milano 1948; in Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Marisa Bulgheroni, Mondadori, Milano 1997, p. 1658.

[3] Cfr. Emily Dickinson, Poesie, a cura di Margherita Guidacci, Cya, Firenze 1947 e Ead., Poesie, a cura di Margherita Guidacci, Rizzoli, Milano 1979.

[4] Cfr. Cristina Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, poi in Emily Dickinson, Tutte le poesie, cit., pp. 1643-1646; e Emily Dickinson, Selected Poems and Letters, introduzione e note a cura di Elémire Zolla, Mursia, Milano 1961.

[5] Le versioni di Luzi e Rosselli sono raccolte in Emily Dickinson, Tutte le poesie, cit., pp. 1653-1658 e 1660-1667.

[6] Ralph Waldo Emerson, Journal, 24 ottobre 1861, in Language as an Object. Emily Dickinson and Contemporary Art, edited by Susan Danly, University of Massachusetts Press, Amherst 1997, p. 94.

[7] Francesco Benozzo, World Poetry, in Introduzione alla World Literature. Percorsi e prospettive, a cura di Silvia Albertazzi, Carocci, Roma 2021, p. 39.

[8] Cfr. Claudio Magris, Il concetto di Weltliteratur in Goethe, “Rivista di Psicoanalisi”, 3, 28, 1982, pp. 440-442.

[9] Cfr. Emily Dickinson, Tutte le poesie, cit., p. 1653.

[10] Cfr. Ead., Poems, edited by Mabel Loomis Todd and Thomas W. Higginson, Robert Brothers, Boston 1890.

[11] Ead., Lettere (1845-1886), a cura di Barbara Lanati, postfazione di Valeria Gennero, Feltrinelli, Milano 2018, p. 56.

[12] Ead., Lettere, cit., p. 194.

[13] Marianne Moore, Emily Dickinson, in “Poetry”, 41, gennaio 1933, pp. 219-226, in Ead., The Complete Prose of Marianne Moore, edited and with an introduction of Patricia C. Willis, Viking, New York 1986, p. 292 (traduzione mia). L’edizione a cui si riferisce Moore è: Letters of Emily Dickinson, edited by Mabel Loomis Todd, Harper, New York 1931.

[14] Eugenio Montale, La poesia di Emily Dickinson, cit., p. 425.

[15] Cfr. Calvin Cutter, Anatomy and Phisiology: Designed for Academies and Families, Benjamin B. Mussay, Boston 1847.

[16] Emily Dickinson, Lettere, cit., p. 111.

[17] Ivi, p. 130.

[18] Ted Hughes, Introduction in Emily Dickinson, Poems, cit., p. 13 (traduzione mia).

[19] Paola Loreto, La contemplazione dell’emblema, Unicopli, Milano 2004, p. 107.

[20] Cfr. Helen Vendler, Poets Thinking: Pope, Whitman, Dickinson, Yeats, Harvard University Press, Cambridge USA 2006, p. 7.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *