di Pietro Pascarelli
Bruno Dumont è descritto come un regista che spesso lascia interdetti per la secchezza delle immagini dirette e crude di violenza o di sesso, per il taglio inusuale delle inquadrature come anche dei procedimenti concettuali impiegati nei film, che sono il suo modo di fare ricerca e produzione artistica. In quest’ultimo film, L’Empire (Francia-Germania 2024), recentemente presentato e premiato a Berlino, siamo subito catapultati in medias res: nelle scene iniziali una giovane donna alquanto sexy confida per telefono a qualcuno, tornando forse dalla spiaggia, che si trova in un posto splendido, tranquillo, molto caldo, e che sì, ha preso il sole nuda, perché qui nessuno ci fa caso, e che deve assolutamente raggiungerla. Spiega con qualche dettaglio in quali parti inusuali del corpo si è abbronzata, con il linguaggio quotidiano di tanti giovani: popolare, gergale, immediato. Ma quel che conta qui rilevare è che, col suo modo di esprimersi in parole semplici ma complici e partecipi, la ragazza sembra mostrare una speciale soddisfazione, e suggerire una vicinanza al corpo, non in termini di compiacimento volgare o di liberazione verbale, ma del farsi strada di un nascente valore nuovo di ciò che attiene al corpo, ancora grezzo nell’espressione, che sarà più evidente col procedere del film. Siamo nel cuore stesso delle questioni che affronta l’autore con un discorso cinematografico insolito e spregiudicato, a mio parere dedicato a una rivisitazione del corpo nella nostra cultura, e alla contemplazione del niente che gli sta attorno, del mondo che come tale, e cioè come nulla, a mano a mano si rivela, sfarinandosi fra le mani in una polvere sottile di ipocrisia, conformismo, rituale e funerea negazione dei problemi e immobilità, proprio quando si avrebbe più bisogno di una sponda di senso e di un rilancio dell’intelligenza, di un rinnovamento della visione della vita. Sembra dunque nell’aria un pessimismo sulle possibilità del pensiero nelle sue forme attuali e dello sviluppo tecnologico della modernità come sollievo e rimedio veloce alla presente apocalissi culturale, e ai cruciali dilemmi oscuramente incombenti sulla società e suggeriti nel film. Un pessimismo presto dichiarato e via via discretamente confermato, nei limiti e stereotipie della comunicazione poco libera e intuitiva fra gli esseri che la voce, in questo rauca, del film, mostra, denunciando l’assenza di una parola che risuoni a fare luce. E sembra dichiarato finalmente, accanto alla necessità di un rinnovamento del pensiero, un primato ora del corpo, troppo trascurato fin qui, come agente di progresso personale e culturale. In questa nuova visione il corpo, dopo una sua risemantizzazione libera dal condizionamento di codici obsoleti, è capace di una riscrittura della storia, di un riposizionamemto dell’uomo nell’universo.
Il film in questione è solo apparentemente la storia di un conflitto per la conquista del pianeta Terra fra opposte potenze spaziali, denominate Zero (quella votata per definizione al male) e Uno, (quella votata per definizione al bene) ognuna delle quali cerca in realtà un suo bene vedendo soggettivamente nell’altra il male. Il film, dicevo, ci colpisce nel profondo e non molla la presa per qualcosa che eccede questa trama e lo rende speciale e soprattutto sorprendente, perché capace di centrare il bersaglio, di toccare l’inconscio e il reale. Potremmo citare, senza credere di poter davvero dire in modo esauriente, almeno alcune sue qualità: l’originale inventiva, la molteplice stratificazione di significazione, l’immediatezza e l’audacia della realizzazione nello stile e nelle immagini. Si rilevano filigrane surrealiste, dada, e un alto coefficiente di scanzonato e grande umorismo, ma anche di ilare o folle e terragno senso del comico, ancorato alle sue profonde radici popolari, e tragica ironia. Potremmo accennare alla sua costitutiva doppiezza e alla sua nascosta essenza. Circa la doppiezza, il film è un Giano bifronte che unisce il piacere della narrazione, con echi dell’antico ciclo cavalleresco, e di conflitti intergalattici di una fantasiosa realtà distopica, alla satira graffiante e sontuosa, alla dolcezza e malia delle immagini della natura: vi sono bucolici paesaggi con animali liberi al pascolo, che riecheggiano i dipinti di Monet e Corot o Pissarro o di Andrea Tavernier, e scene di voli spaziali, con grandi astronavi in cui trova il suo tempio un potere alieno, o forse il male camuffato da bene, ma anche viceversa, a seconda dei punti di vista, che hanno forme di cattedrale gotica semplificata, priva di statue teriomorfe, ma non troppo vagamente richiamano Notre Dame, o di cattedrali del potere temporale come la reggia di Caserta. E tutto scorre con un ritmo cadenzato, quasi a suggerire significati con le pause narrative e il montaggio, e a imitare il respiro e il ritmo pulsante del cosmo che, si veda o non si veda, comunque incombe sul film come su di noi, col suo caos spaventoso di energia, rispetto al quale è davvero poca cosa perfino l’immensa muta notte nera in cui filano i bolidi celesti, quella stessa tavola scura che in Odissea nello spazio di Kubrick luccicava nascendo e danzando al ritmo delle musiche degli Strauss padre e figlio e di György Ligeti, nonché l’ascetico e quieto e chiesastico interno, che sembra ispirato alla Sainte-Chapelle, dell’ammiraglia della flotta di navicelle spaziali di Uno, che appaiono peraltro, come quelle nemiche, forgiate nel vento, nel macigno, e nella terra stessa sulla quale esse planano con basi lapidee che ne sembrano la naturale continuazione, quasi a celebrare l’unione fra cielo e terra.
Circa invece la sua nascosta essenza, data l’esilità della trama e l’inesistenza di un vero intreccio, essa sembra piuttosto un pretesto ispiratore per presentare, e rielaborare con lo spettatore, una successione di sezioni che insistono su una struttura filosofica, e la interrogano trovando ulteriori interrogativi. Il film appare insomma come una serie di stazioni di riflessione artisticamente costruita, che ci dice forse ciò che l’autore intende per sua opera cinematografica, una meditazione spettacolare incardinata nelle scene e nei personaggi, e flemmatica o episodicamente concitata e urgente, dolorosa o fidente, erratica quanto rigorosa, aperta e dogmatica, insonne e fervida, lieve come piuma, pesante come il marmo, tutta incentrata sull’uomo e il suo destino, la sua natura, il senso della vita, liberamente interpretati, e che rappresenta il vero scopo del film. Come contrappeso di questo sforzo del pensiero, e per chiudere il cerchio del suo segno e sogno sul reale, il regista dispiega degli esilaranti intermezzi a sorpresa che da un lato segnano la nostra prossimità col mondo naturale e carnale, che non ci sembra mai di aver negato abbastanza, dall’altro mettono alla berlina l’umanità attraverso la sua assenza dalla scena, e le sue piccinerie, i suoi difetti, le sue istituzioni morali ottuse, malferme e incapaci, che trovano rappresentazione come hapax o in modo ripetuto in certi sguardi dei pochi umani veri, in certi dialoghi surreali senza possibilità di parola che ricordano Buster Keaton e Jacques Tati quando alla gogna è messa la polizia, nei panni di due investigatori distratti e inetti, magistralmente interpretati da Bernard Pruvost e Philippe Jore, che troviamo anche nel finale del film, quasi a dire con la loro nullità, con il loro essere senza essere, col loro non fare per fare il loro fare, che tutto e nulla coincidono, che il gran fragore spento della guerra spaziale, la tremenda energia di un buco nero che scuote a un tratto la Terra, altro non sono che orribili evenienze, ma di effimero momento, anch’esse oscene forme d’essere del nulla, che ci convoca e ci inquieta, giacché l’essere del niente ci infligge ogni volta un qualcosa, una espressione devastante della sua nullità, che è un orrore estetico, un buco esistenziale, un peso per la vita, un fattore negativo per l’umanità. Al centro della vicenda troviamo Jony (l’ottimo Brandon Vlieghe), pescatore che si muove come un pesce o un satiro saltellante, ma parla come un profeta barbuto sul monte, e vive in un villaggio del nord della Francia, nella Côte d’Opale cara al regista, che vi ha ambientato anche un altro suo importante film, Ma Loute. Jony è il padre alieno del piccolo Freddie, ritenuto riferimento spirituale in terra ed erede del reame di Margat degli alieni malvagi Zero, nato dalla sua relazione con una terrestre. Jony si trasfigura nella narrazione in un personaggio incarnato in corpo umano, che è eroe e antieroe, uomo e alieno, bestia e nume, uomo e demone. Ma soprattutto Jony, come la principessa Jane dell’opposta fazione, sempre accompagnata da Rudy (l’iconico Julien Manier) uno scherano simile paradossalmente a capro luciferino pur rappresentando la fazione del bene, la Uno, hanno e sono corpi, corpi umani, pieni di vita e passione, che si cercano per fare ciò che è in potere del loro essere come materia vivente con le sue forme e le sue pulsioni indomabili. Jony è attratto e conteso da due fanciulle assai avvenenti, procaci e sfrontate all’apparenza quanto innocenti e delicate e pure nei loro slanci sessuali intrisi di resinosa e gioiosa naturalità, interpretate da Annamaria Vartolomei (Jane) e da Lina Khoudry (Line). Entrambe sono entrate alla perfezione nella parte essendo riuscite a diventare sufficientemente estraniate da sé come personalità totale per poter interpretare la cognizione e la forza intrepida e assoluta del puro corpo. E si badi bene, in questo film c’è amore, ma solo fra corpi, animati da un inedito spirito, non fra generi. Le distese assolate, i prati ombrosi, perfino una barca ripresa dall’alto (da un occhio dello spazio?) sono la scena di caccia e il teatro d’azione di Jony, che è invero il Fauno, colui che raccoglie il flautato messaggio panico implicito come musica nel vento (esplicito nelle sue stesse parole dirette e senza freni con cui l’attrazione sensuale si manifesta fino a travolgere), e contenuto nei segnali di richiamo amoroso che i corpi lanciano. Il potere dei corpi è fra l’altro dare, come riescono, soddisfazione alle pulsioni. Insieme a queste ultime con la loro irresistibilità, e anche grazie all’esercizio del loro diritto di amare, i corpi si collocano in un dimensione di vitalità che racchiude un nucleo di sacralità laica, al di sopra di ogni morale, di ogni schieramento, di ogni eterocentrata ideologia, credo, religione, e delle stesse galassie. Il bisogno da parte dei corpi, sull’esausto pianeta degli umani che è diventato terra di conquista, di ritrovarsi in un senso dell’esistere, attraverso il piacere e il trionfo della carne secondo la sapienza dei corpi, è tanto più urgente in quanto si colloca in un momento critico, in cui la forma umana è contaminata dall’intelletto alieno, ed è difficile dire quale dei corpi sia abitato dall’intelligenza aliena, rimanendo vero tuttavia che il corpo e il senso di essere un corpo umano con tutte le sue prerogative sono comunque l’unica inviolata frontiera che i corpi possono dare qui alla loro esistenza per essere partecipi della vita.
Un corpo — sembra dire il film — può essere e fare molte cose, può apprendere e insegnare a vivere. Tiene traccia della vita propria e del mondo, che scrive sulla sua pelle e nelle sue fibre, fra i moti e le vibrazioni delle sue particelle e molecole, disperse nel soffio dell’energia vitale. Può invitare a guardarlo, e contemplare, e ammirare, la sua sontuosa e divina architettura, ma anche a pensare in base al significato della sua esperienza, ad alzarsi nei cieli più alti, senza la sponda del dio e della morale. I corpi, che vivono la pienezza dell’attualità dell’essere, non hanno paradisi futuri, e dunque non hanno padroni elargitori di false promesse, che l’intelletto può scegliere tuttavia, ma senza la loro partecipazione e sottomissione. I corpi continueranno a cercare la gioia di vivere nella loro indipendenza e nel tripudio dei sensi e non saranno mai soci di soggetti menzogneri che vorrebbero farli servi di un’idea, né hanno di per sé nel loro orizzonte colpa, peccato, devianza. Essi possono rappresentare un modello per un mondo nuovo e migliore, per riscrivere una storia mitica del mondo, o dei mondi. Questo sembra tanto più vero, se si tiene a mente la scena in cui nell’imminenza della battaglia il capo dei demoni alieni, interpretato magnificamente da Fabrice Luchini, che infonde nel personaggio del principe delle tenebre la sua arte, e gli dona lampi di genialità e disperazione, si presenta sulla scena fissandovi per sempre la sua sagoma inquieta nel costume da dissoluto joker goffo e informe simbolo dell’abisso, fatto di tessuto candido e maculato, simbolo della follia, che arringa in francese con enfasi sguaiata e cinica e con riso tragico il suo esercito. Questo capo-giullare di se stesso che si perde, si ricapitola e si riprende, appare e scompare, va in sfacelo per riapparire sotto nuova forma, è interessante perché, pur di intelligenza e intelletto alieno, è conquistato dalle caratteristiche degli umani, e fra tutte sembra adorare specialmente le mollezze anche caricaturali, la seduzione flessuosa e ammiccante dei corpi, tutte le movenze e le manifestazioni di pulsioni che sarebbero definite nella nostra lingua lussuriose, e in realtà si prestano anche a simbolizzare la ribelle, imperitura e impenitente vitalità dei corpi stessi. La sua sostanza è il nulla, la sua speranza è diventare corpo umano, rifondare un mondo di nuovi umani. Ma essi sempre oscilleranno fra Uno e Zero, fra il peccato e la virtù, fra bene e male. Il cielo sarà qui oscurato dai corpi volanti dei due schieramenti, ma non vedremo nell’aria l’anarchico volo del falcone che non ode più il falconiere, il collasso del mondo ordinato, come in The second coming di William Butler Yeats. Avremo di fronte il cielo tetro e acido di un videogame, della finzione cui si riduce una battaglia con grandiosi e immani schieramenti contrapposti che termina col risucchio di tutto nelle vertiginose profondità di un buco nero, di quel che sembra un genitale femminile cosmico senza fondo.
Al contrario la Reine della fazione avversa, del presunto Bene, molto ben interpretata da Camille Cottin, si presenta come un’accigliata, rigida o ringhiosa sacerdotessa, che sembra perdere la capacità di esprimersi in francese, e cioè di essere ecumenica, di intendere e di farsi intendere, quando è presa dalla rabbia o dall’enfasi della missione di conquista e di diffusione del suo verbo. La sua lingua, invece di rappresentare un mondo e principi superiori si riduce, così sembra, a un balbettio confuso, e quando va bene si rattrappisce in una specie di incomprensibile slang spaziale, fatto di sibili e roche bavoserie, che sanno di tempio del male e di aria fritta, di passioni e di consistenza di sé mal governate, di impossibile condivisione.
Il film, un’immensamente forte provocazione, è una sequenza di fasi di godimento, inteso come passione e assoggettamento e come delirio del piacere, illustrato per immagini seduttive trasversali, mentre il vettore longitudinale del tempo che attraversa fatti e spazi è pressoché immobile, e non disdegna scarti a ritroso. Tutto è sempre ancora da fare. Tutto si può rifare, emendare, migliorare. Il bene lotta continuamente, credendosi tale, contro il male, finché lo crede tale, e viceversa. Poi vi è riposo, silenzio e quindi risveglio, ciclica ripresa del godere, della pace e della guerra. L’universo è apparenza oltre la realtà, e la verità è un grande bluff che si regge sulla fede ma anche sull’ingenua credulità. Il mondo e il nulla sono retti data stessa fede. Meditate, sembra questo il suggerimento, meditate. Osservate, contemplate, fantasticate, squarciate veli e cieli, solcateli con astronavi vostre, perfino utilitarie, per cielo e terra, dove volete ma fatelo, andate, abbandonatevi alla libertà di immaginarvi in dimensioni inedite, sperimentate quel che è in vostro potere, non rimandate al domani, non affidatevi nelle mani avide di chi vuol solo carpirvi la vita e sfruttarla ai suoi fini. Non mortificatevi. La sottomissione adorante dei succubi si trasformerà nella sgargiante ribellione. Siete splendidi e amabili. Amatevi.
Il film, come complessità di stimoli, per stile e per qualche idea, mi sembra impalpabilmente vicino a Balzac (La commedia umana) e Flaubert (Bouvard e Pécuchet), a Hugo (per aspetti della sua visione dell’amore) e a Verne (ça va sans dire), prossimo all’Eric Rohmer dei racconti morali più che a Stanley Kubrick di Odissea nello spazio, lontano dal Tarkowski di Solaris, e, infine, più attento al presente che al futuro incerto, e ha per nume tutelare Baruch Spinoza. Il mondo vive sul filo del rasoio, danza senza saperlo sull’orlo dell’abisso. E c’è nel film l’annuncio di un riscatto poetico, per via di sapienzialità e ispirazione tellurica e laica, non gregaria e non sottomessa a falsi maestri, che potrà segnare una strada nuova ed elevata. La Terra resta a guardare continuando ad andare per la sua strada, ma i corpi gioiscono di sé. Dai corpi forse potrà partire il rinnovamento della vita che intravediamo oltre cupe visioni, ma per cogliere al meglio la profondità e la possibilità stessa di questo esito che qui sembra annunciato e non ancora raggiunto, dobbiamo forse invocare una unità di tutte le arti e collegarci a un’altra opera, alle righe che siglano la fine del poema di Thomas Stearns Eliot, The Waste Land. Righe oscure come formule oracolari pitiche, custodi di uno straordinario dispositivo per estrarre il senso dal caos, più complesso e potente di quelli presenti su qualsiasi astronave. Esso mette in tensione, cogliendo forse anche lo spirito di questo film, in discreta dissociazione e suprema spirituale alchimia, e in poesia, la voce numinosa del tuono, più Io parlanti in una sola voce, più lingue e differenti riferimenti culturali, modulando la babele degli slanci espressivi e delle passioni in un canto di respiro universale:
Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon—O swallow swallow
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
These fragments I have shored against my ruins
Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih
Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon – O rondine, rondine
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
Con questi frammenti tengo in piedi le mie rovine
Ecco, così vi aggiusto io. Geronimo è pazzo daccapo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih.
[Il poema The Waste Land di Thomas Stearns Eliot (The Criterion, London 1922, e poi Faber and Faber Limited) compare coi suoi versi finali, qui, in traduzione mia.].