di Stefano Bottero

 

Fabio Orecchini scrive: «Il segno è desiderio del segno». Posiziona la frase in uno spazio di pagina bianca, ampia, seguita da una minima barra verticale e da una sequenza di segni asemici. Guardando a Nemat (uscito per Industria & Letteratura nel marzo del 2024) come a un corpo, questo passaggio ne costituirebbe probabilmente il cuore. O, più precisamente, considerando la raccolta come un corpo dei lombrichi che tematizza al suo interno, diremmo che quella dichiarazione sul segno è uno dei cuori. Uno dei poli che pulsa in avanti la circolazione verbale, all’interno del libro-oggetto – la cui forma allargata, già di per sé divergente rispetto a una dimensione editoriale standard, implica una  problematizzazione della propria corporeità. A questa partecipa la diversificazione delle componenti, ordinata da un principio uniforme di occupazione della pagina: per ogni frammento è previsto un relativo spazio vuoto, atto a formare un continuum grafico.

Abolendo una gerarchia interna, i materiali paratestuali, testuali e d’immagine compongono il corpo dell’opera – tendendo, in esso, all’indistinguibile. Le parole di Emilio Villa, Giuliano Mesa, Ursula Le Guin, Euripide, Aldo Leopold, Ernst Mach, Carlo Ginzbrug (solo per dirne alcuni) o di sconosciuti, tendono a perdere la propria connotazione incipitaria. Diventano parte di un tutto composito, dove la semantizzazione del segno rasenta il non-senso e la struttura asemica del tratto, paradossalmente, si appresta al significato – senza raggiungerlo. Ancora, in questo, i vermi: l’esperienza performativa di osservazione dei corpi degli anellidi, come dichiara l’autore in un lungo inserto di prosa memoriale nella seconda metà del volume.

 

Curo i lombrichi nel mio giardino, li nutro con foglie, avanzi di cibo, letame e comphost, tra i colori incandescenti del marcio; dai fori nella terra mi osservano con pelle, stanno lì, pensiero solido che trafora, interregno dell’ombra, della fertile ombra. Mi inginocchio e mi accordo, sposiziono, ne prendo una coppia tra le mani, umidi e intangibili, né freddi né caldi, come terra. E mi metto in ascolto, con pelle, come loro, loro che ora sono Tifone ed Echidna, e una stortura mi assale: il simbolo tace, non sta mai fermo, crepita, sobbalza, il segno è una traccia ancora fresca, assenza da stanare, pratica di allontanamento dal sé, esilio dall’umano, desiderio compostato nelle viscere, impossibile lingua comune, pulsione erotica fra giovani anellidi.

 

Le contorsioni dell’altro, ingaggiato in un rapporto di coabitazione dello spazio, forniscono alla persona guardante uno spunto linguistico. La loro osservazione garantisce il principio e lo svolgimento di un ascolto – laddove la terra, invece, resta in silenzio. Nemat è infatti un libro di spazi – nello specifico della pagina: di spazi bianchi. L’assenza di corrispondenze materiali tra le sue componenti (verbali, verbovisive e visuali) determina le loro associazioni in un contesto di silenzio, inteso come il riverbero dei lughi vuoti, seriali, delle pagine.

La prospettiva autoriale, cara a una memoria villiana nel senso della poetica, combina quindi le direttive semantiche e retoriche del testo a ridosso della corporeità, intesa come unico polo semantizzabile. In altre parole: Orecchini si stringe a ridosso del corpo (dei corpi), constatando il vuoto semantico del resto. Per questo motivo – non solo le parole, ma i segni anche del corpo, diventano testo. Scrive:

 

sgorga dappertutto la mielata che fa tropo
la saliva dagli orti sbiecati
un niente sempre più arioso
cono policromo
la serpe stanata per la cura di un giorno

 

e ancora, altrove:

 

per astrazione, per muta dei moti inestinguibili forme, pietrificate estine, laddove tutto muove in levare, per estrazione di forme, remote l’orme pietrificate estinte, inestinguibile moto in levare, tutto muove verso dove, verso il peso lieve del dolore (amebe informi dal fondo delle caverne, idoli acefali, propulsori a bocca, mitogrammi)

per astrazione di forme, remota informe nata muta e già nera

la parola

(inestinguibile pietrificata estinta)

 

Nella sua composizione si osserva, così, una ragione estrattiva: dalla forma del corpo al segno – sia esso verbale o d’immagine, come testimoniato dagli inserti figurali che intervallano le componenti semantiche. Anche su questo piano, inoltre, prosegue il principio di alternanza tra le linee: le curve in bianco e nero delle figurazioni risuonano con quelle delle scansioni manoscritte, degli inserti asemici, e con le registrazioni di venature animali e vegetali.

È interessante notare quanto tutto questo non venga proposto dall’autore come tensione all’informità, ma che sia invece organizzato secondo una ratio macrotestuale ben precisa. Oltre alla scansione selettiva delle componenti del testo (organizzate canonicamente in sezioni), Orecchini offre una legenda utile per interpretarne, in sequenza, i movimenti. Apprendiamo quindi solo alla fine del volume che «i testi della sezione Ferecide fanno parte di uno studio più ampio su Alcesti di Euripide», e che quelli di «Underground Euphoria sono tratti da Per Os (Sigismundus, 2016) e testimoniano un lungo lavoro di ricerca scaturito dall’evento sismico de L’Aquila 2009».

 

Quest’ultimo segmento compositivo, che porta Nemat verso la conclusione, presenta una materia verbale sottoposta a un processo di rarefazione più radicale dei precedenti. L’isolamento dei lemmi sulla pagina tende qui alla costellazione, come correlativo oggettivo delle macerie evocate all’altezza dell’incipit della sezione:

 

Numerose persone estratte vive dalle macerie, anche dopo molte ore dalla scossa principale, tra cui Marta Valente, 24 anni di Bisenti, studentessa di Ingegneria, salvata dopo 23 ore, Eleonora Calesini, 21 anni di Mondaino, estratta dopo 42 ore, nonché Maria D’Antuono, 98 anni di Tempera, trovata viva dopo 30 ore, che ha dichiarato di aver trascorso il tempo lavorando all’uncinetto.

 

Il testo ripropone un estratto dell’uscita de «La Repubblica» in data 9 aprile 2009. Rifunzionalizzando la componente giornalistica, la descrizione dei corpi estratti è portata dall’autore alla stessa dimensione della materia poetica composta: mantenendo l’orizzonte di intellegibilità referenziale, il senso del testo retrocede dal testo. La missione documentale iniziale viene annullata dalla tensione interna al volume – che si stringe, ancora, a ridosso dei corpi.

 

Questi processi animano quindi la scrittura di Orecchini alla luce di una riflessione teorica radicale. Il versante di elaborazione macrotestuale, a cui già l’autore attribuiva grande centralità in precedenti pubblicazioni come Figura (Oèdipus, 2019), è portato al massimo grado di rilevanza. Ogni testo è ordinato armonicamente – secondo la poetica di Nemat: fisiologicamente. Grazie a ciò, pur ponendosi nel solco di una tradizione novecentesca ben identificabile (anche grazie alle epigrafi) negli antecedenti di Zanzotto, di Mesa e di Villa, come già detto, il volume tenta un’apertura di soglie nuove. Si pone nel vivo di argomenti centrali per il dibattito contemporaneo, avanzando una prospettiva disarticolata su argomenti come animalità, fisicità, tragedia per il decadimento del naturale ad opera dell’antropico.

 

 

Un libro, Nemat, quindi, che adotta soluzioni allucinatorie per penetrare in un corpo, sociale e singolare, animale, da cui estrarre il proprio segno.

 

corpo

nell’errore, nel farsi termine              tramite noi                                   come termite
nel dolore, a fare buchi cavi, valicare travi su travi, come cavia
per tornare ai noi, ai giornali terminali                                    e scavi e scavi

 

La coerenza metrica e ritmica è posta a servizio della figurazione, mantenendo centrale la ragione tradizionale della poesia-come-canto, senza per questo limitare le fioriture grafiche e le storture sintattiche. Il processo creativo di Orecchini, per questo motivo in particolare, appare un esempio di problematizzazione interessante delle forme del contemporaneo. Offrendo degli spunti di rilievo per la riflessione sul dibattito in corso, l’autore ripiega tuttavia il proprio prodotto in una forma circolare – priva di scioglimento definitivo.

Al termine del percorso verbale, prima della nota finale, l’ennesima immagine venata e percorsa da linee irregolari scansa l’ipotesi di considerare quanto detto in ultima battuta come il raggiungimento di un punto, o come una proposta. La frase finale, formattata in corsivo, «contra tempo l’animale muove il passo», non suona dunque solo come un invito alla prosecuzione. Appare come l’ennesima prolusione all’asemico: tentativo di aprire, nel testo, all’assenza di significato.

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