di Matteo Santarelli
[Esce in questi giorni il n. 80 della rivista “La società degli individui”, dedicato nella sezione monografica a “Musica, critica, politicizzazione”, a cura di Matteo Santarelli. Proponiamo come anticipazione un estratto dal saggio di Matteo Santarelli, accompagnato da una playlist]
L’antefatto
Nella vigilia dell’otto marzo 2024, il cantautore italiano Vinicio Capossela ha pubblicato un post Facebook in cui consigliava l’acquisto di un libro sulla musica italiana recentemente pubblicato:
“Alla vigilia dell’otto marzo un piccolo libro di grande contenuto, molto utile a smascherare forme di “cattiva educazione” che passano per cose apparentemente superficiali come le canzoni della musica leggera italiana. Perché “una canzone non è solo melodia. Ogni testo è portatore di un significato e in questo senso la musica leggera rappresenta un ottimo appiglio per un’indagine sociologica sui modelli culturali dominanti”.
Il libro in questione si chiama Il maschilismo orecchiabile. Mezzo secolo di sessismo nella musica leggera italiana e l’autore è Riccardo Burgazzi – con prefazione della filosofa politica Carlotta Cossutta. La tesi del libro è la seguente: sotto la loro apparenza innocua e, appunto, orecchiabile, le canzoni italiane di musica leggere sono veicolo di pregiudizi maschilisti e sessisti. Questi pregiudizi non vengono soltanto recepiti passivamente attraverso l’ascolto, ma vengono riprodotti attivamente – spesso inconsapevolmente – nel momento in cui queste canzoni sessiste vengono cantate sotto la doccia, nei falò di Ferragosto in spiaggia, nel karaoke, tra sé e sé mentre si aspetta il bus. Attraverso questi meccanismi e queste pratiche inconsapevoli e spontanee, pregiudizi e contenuti sessisti vengono performati nella quotidianità e diventano parte integrante del senso comune di una determinata cultura– nella fattispecie, quella italiana.
Con tono allo stesso tempo critico e ironico, l’autore prende in rassegna i testi di vari brani fondativi della canzone italiana. L’esempio forse più emblematico – menzionato nell’introduzione di Cossutta – è quello del La canzone del sole (1971, musica di Lucio Battisti, testo di Mogol). Un brano che si presta in modo paradigmatico a questo tipo di analisi, sia per la sua estrema popolarità, sia appunto per le sue infinite riproduzioni informali – è un brano noto per essere spesso il primo pezzo che si impara con la chitarra, ed è il prototipo della cosiddetta canzone da falò.
Sì esistono tutorial persino per “La canzone del sole”
Ma ancora una volta, dietro la presunta innocenza di un brano apparentemente dedicato all’amore, al sole e ad altri aspetti universali della condizione umana, si celano evidenti contenuti sessisti. Queste in particolare le parti del brano incriminate:
E la cantina buia dove noi
Respiravamo piano
E le tue corse, e l’eco dei tuoi no, oh no
Mi stai facendo paura
Dove sei stata cosa hai fatto mai?
Una donna, donna dimmi
Cosa vuol dir sono una donna ormai
Ma quante braccia ti hanno stretto, tu lo sai
Per diventar quel che sei
Che importa tanto tu non me lo dirai
Purtroppo
[…]
Io non conosco quel sorriso sicuro che hai
Non so chi sei, non so più chi sei
Mi fai paura oramai. Purtroppo.
Dal punto di vista del volume, il brano esprime il desiderio di possesso della voce maschile narrante, impaurito dall’autodeterminazione della sua compagna – forse ex compagna? Forse friend with benefits? – , dall’“eco dei suoi no”, dalle sue avventure precedenti che l’hanno resa quello che è, e così via. Pertanto, una canzone solo apparentemente innocua, tramandata da parenti inconsapevoli, la cui estrema orecchiabilità veicola al di sotto del livello di controllo cosciente il senso del possesso di un maschio geloso.
Eppure, vari passaggi sembrano offrire interpretazioni alternative. “Una donna, donna dimmi. Cosa vuol dir sono una donna ormai”. In che senso “donna”? Chi lo dice? In che contesto? “Per diventare quel che sei”. Cosa? Una “poco di buono”? Una donna indipendente? Semplicemente, la persona che è ora? Come interpretare il “purtroppo”? Come un segno di perenne risentimento e desiderio di controllo? Come la presa di posizione del disagio di un uomo degli anni ’70 di fronte alla libertà femminile? E infine, che dire della paura della voce narrante di fronte “al sorriso sicuro” di lei? È una paura tossica? Oppure il disagio di fronte a qualcosa di inaspettato?
In breve, non mancano gli elementi che sembrano resistere a un’interpretazione univoca del testo e del suo significato. Il che rende difficile affermare in modo univoco che nel momento in cui, dopo una lunga cena, imbracciamo una chitarra e intoniamo – in modo più o meno intonato – la melodia de “Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi”, noi stiamo veicolando esattamente quel significato.
Lo scopo del presente articolo non è evidentemente quello di criticare il saggio di Burgazzi e i suoi meritori intenti – né men che meno di difendere la presunta innocenza politica della canzone italiana. Il punto è un altro: il volume ci serve come pretesto mettere in luce una difficoltà generale che si incontra nel momento in cui critichiamo politicamente un prodotto culturale – nella fattispecie, una canzone – in virtù del suo significato. L’ipotesi è che questa difficoltà ha a che fare con la vaghezza: alcune canzoni sono – volutamente o meno – vaghe in alcuni passaggi, e questo rende difficile fissarne in modo univoco il significato. A livello politico, questa vaghezza gioca un ruolo ambiguo. L’obiettivo di questo breve articolo, consiste esattamente nell’esplorare questa ambiguità, a partire dall’analisi delle varie conformazioni in cui può presentarsi questa vaghezza.
Quale vaghezza
Prima di tutto, va chiarito cosa intendiamo per vaghezza nel contesto di questo lavoro. Nella letteratura filosofica contemporanea esistono vari modi di intendere la vaghezza. In questa sede, quella che ci interessa è la vaghezza come indeterminatezza, ispirata dalle riflessioni su vaghezza e senso comune di Charles Sanders Peirce. Dal punto di vista del filosofo e logico americano, alcune proposizioni sono vaghe in quanto il loro soggetto non è determinato – è un caso di indeterminatezza del riferimento. Pensate alla frase: “Qualcuno ha tradito”. È un’affermazione vaga, in quanto lascia indeterminata l’identità del traditore – o dei traditori. Altre proposizioni sono invece vaghe in quanto contengono un concetto nel predicato il cui senso non è determinato. È un caso di indeterminatezza del senso. L’esempio di Peirce in tal senso è la seguente affermazione: “L’universo è ordinato”. Il senso immediato di questa affermazione di senso comune è facilmente comprensibile: c’è un qualche tipo di ordine in ciò che accade nell’universo, le cose che accadono non sono puramente random e gratuite. Tuttavia, a tale livello e in tale uso spontaneo, non è per nulla chiaro in che senso specifico l’universo sia “ordinato”: moralmente? Dal punto di vista delle leggi della fisica? Dal punto di vista logico? Dal punto di vista di regolarità puramente empiriche? Nel momento in cui usiamo questa affermazione nell’ambito del senso comune – ossia, nelle nostre interazioni quotidiane col mondo e con le altre persone – il senso di “ordine” resta costitutivamente indeterminato, e va bene così: ci capiamo senza ulteriore determinazione. Sia nel caso dell’indeterminatezza del riferimento che dell’indeterminatezza del senso, la vaghezza si distingue dalla generalità. Pensiamo alla differenza tra gli enunciati “qui c’è qualcuno che vuole fare il jazz” (vago) e “tutti quanti vogliono fare il jazz” (generale) nel primo caso, e “questa persona è un po’ sporca, in un certo senso del termine” (vago) e “questa creatura è lurida in ogni possibile senso del termine” (generale).
Nelle canzoni troviamo sia vaghezza come indeterminatezza del riferimento, che vaghezza come indeterminatezza del senso.
Un caso particolarmente emblematico di vaghezza del riferimento – una sorta di manuale dell’indeterminatezza del soggetto – è la canzone di Vasco Rossi C’è chi dice no. In perfetta armonia con le tinte fosche della musica, il brano esordisce con un inquietante: “C’è qualcosa che non va/in questo cielo/ c’è qualcuno che non sa/più che ore sono”. Fino all’apoteosi vaga del bridge: “tanta gente è convinta che ci sia nell’aldilà/qualche cosa, chissà/quanta gente comunque ci sarà/che si accontenterà”.
“Fronte del palco”: il classico dei classici
Passiamo ora ai casi di vaghezza del senso. Questo tipo di vaghezza sembra svolgere dei ruoli diversi in canzoni differenti. In alcuni casi, c’è una vaghezza iniziale che viene piano piano articolata. In altri casi, la vaghezza resta inarticolata. Faccio due esempi, che ci aiutano a chiarire i due tipi diversi di funzionamento della vaghezza, dotati di potenziali conseguenze politiche ben diverse.
Pensiamo alla canzone L’appuntamento, un successo degli anni ’70 di Ornella Vanoni (versione italiana di Sentado à beira do caminho di Roberto Carlos e Erasmo Carlos, con testo italiano di Bruno Lauzi). Il brano si apre con un senso di incertezza: la voce narrante è in procinto di recarsi a uno “strano appuntamento”. Ma nei primi versi della canzone, non c’è nessun indizio che permetta di chiarire in che senso si tratti di un appuntamento. Capiamo solo che la voce narrante ha fatto errori in passato, che è triste, che è incerta e allo stesso tempo impaziente. Il ritornello e la strofa finale articolano parzialmente questa incertezza iniziale: si tratta di un incontro amoroso, di un amore infelice – che lui “ha sbriciolato tra le dita”, e che probabilmente si rinnova temporaneamente, ma senza speranze. In questo caso, siamo di fronte a una vaghezza iniziale che viene parzialmente articolata nel corso della canzone: arrivati/e all’ultima strofa, sappiamo di più rispetto alla natura dell’appuntamento – ma non tutto: hanno preso un caffè? Hanno fatto due chiacchiere? Lui non si è presentato? Hanno avuto rapporti intimi? E così via.
Forse il punto più alto della connection italo-brasiliana.
Ma non sempre la vaghezza iniziale viene articolata nel corso della canzone. Uno dei casi più noti è il capolavoro dei Beatles Something – testo di George Harrison. A differenza dei casi precedenti, qui il quadro generale è chiaro sin dall’inizio: la voce narrante elenca una serie di aspetti della persona amata che lo spingono a voler restare con lei e non andarsene. L’unica incertezza sembra riguardare il fatto che l’amore sia destinato a crescere o meno. Ma il vero elemento di vaghezza nella canzone è segnalato dal testo stesso della canzone, appunto: “Something”, qualcosa. Qualcosa nel modo in cui lei si muove, qualcosa nel suo sorriso, qualcosa nel modo in cui lei corteggia, in cui conosce, in cui mostra. Sì, ma: cosa? La canzone dice molto sugli effetti che questo qualcosa ha sulla voce narrante – lo attrae, lo spinge a restare, lo assicura -, ma pressoché nulla sulla natura di questo qualcosa. Harrison resta appunto vago fino alla fine: il punto resta inarticolato.
“Il mio brano preferito di Lennon e McCartney” (semicit. di Frank Sinatra).
Ma al fine di sviluppare il tema che interessa questo articolo – ossia, il rapporto tra canzone, vaghezza e critica – è distinguere due sottocategorie della seconda categoria. Nel primo caso la vaghezza è dovuta al fatto che chi parla è volutamente non chiaro – ossia, conosce il senso esatto di ciò che dice, ma volutamente lo tiene vago; nel secondo caso, le cose di cui si parla sono vaghe in se stesse, per tutte le parti in causa. Concentriamoci sul secondo tipo, che chiameremo vaghezza costitutiva.
Pensiamo a un’interpretazione benevola dell’incipit della già citata L’appuntamento. In qualche modo, le due persone concordano un appuntamento, dopo tanti anni. Non sanno bene quello che vogliono, sanno solo che avrebbero piacere di incontrarsi. “Appuntamento” è semplicemente la parola più adatta per dare espressione verbale alla loro forte ma non chiara voglia di vedersi. Non c’è nessuna strategia, nessuno/a nasconde niente a nessun altro/a. Il senso e la natura di questo appuntamento, se mai verrà chiarito, verrà chiarito solo a posteriori. E in questa interpretazione, il finale della canzone assume un significato del tutto diverso: la voce narrante è percorsa dalla malinconia dovuta al permanere della vaghezza – questo appuntamento, o questa serie di appuntamenti, non verranno mai chiariti, rimarranno sempre vaghi appunto.
Le ambiguità politiche della vaghezza
Tornando al tema iniziale, si potrebbe essere tentati di giungere a una conclusione, anche se provvisoria. La vaghezza costitutiva sembra porre un limite alla critica politica. Difficile criticare il significato politico di una canzone, se tale significato è vago – soprattutto se le frasi centrali di una determinata canzone sono vaghe.
Verrebbe dunque da pensare che la vaghezza costitutiva resiste alla politicizzazione in virtù di una sorta di valore estetico. Il bello delle grandi canzoni – si potrebbe dire – sta in questa vaghezza e variabilità costitutiva di significato, che le rende significative ed evocative anche in contesti molto diversi da quello in cui sono state scritte, registrate e pubblicate originariamente. Pensiamo a “Stand by me” di Ben E. King, o “Lean on me” di Bill Withers: sono canzoni religiose? Sono canzoni di amicizia? Sono canzoni d’amore? Non lo sapremo mai, ed è bene così, ed è questo che le rende ancora significative. In vari contesti storici, geografici e sociali, ci sarà sempre qualcuno/a che chiede a qualcun altro/a di stare vicino, chiunque sia questa persona – che forse è una divinità, il che farebbe della canzone una sorta di preghiera – e qualunque sia il senso di stare vicino. Pertanto, una critica politica di canzoni del genere risulta davvero poco credibile: non essendoci un senso e un referente fissi, non possono essere inchiodate a un messaggio chiaro ed esplicito.
Tuttavia, l’idea per cui la vaghezza costitutiva sarebbe per definizione apolitica – un’apoliticità richiesta dal suo profondo e duraturo valore estetico – rischia di essere idealistica e romantica. Più precisamente, questa concezione si basa su un’idea molto ristretta di politicizzazione. Se la politicizzazione viene intesa nei termini di una polarizzazione e moralizzazione che divide il mondo in ciò che è assolutamente buono e giusto da un lato, e ciò che è assolutamente cattivo e sbagliato dall’altro, allora la vaghezza costitutiva è sicuramente un ostacolo alla politicizzazione. L’indeterminatezza e la variabilità costitutiva di significato non si fanno tirare dalla giacchetta: sfuggono a ogni tentativo dicotomico e polarizzante.
Tuttavia, il potenziale politico della vaghezza costitutiva emerge quando adottiamo un’idea diversa di politicizzazione, che non si riduce necessariamente alle dinamiche di polarizzazione. Secondo questa idea, la politicizzazione è un processo in due fasi: 1) rendere qualcosa contestabile; 2) rideterminare questo qualcosa attraverso un’azione collettiva. In questo senso, una canzone vaga può svolgere un ruolo di ispirazione in entrambe le fasi: 1) può mostrare il carattere aperto e contestabile di ciò che viene presentato come fisso, rigido, indiscutibile; 2) può aprire a possibilità al momento solo immaginarie di articolazione e di agency collettiva della realtà.
Pensiamo a Il suonatore Jones di De André. Il testo menziona molto spesso un classico concetto vago, ossia libertà. La canzone non precisa in alcun modo il senso specifico in cui va intesa la libertà. Piuttosto, vengono descritti diversi contesti in cui il suonatore ha visto la libertà “dormire” – “nei campi coltivati a cielo a denaro, a cielo e amore, protetta da un filo spinato” – e in cui ha visto la libertà “svegliarsi” – ossia, ogni volta che ha suonato gratuitamente per “un fruscio di ragazze a un ballo”. Il testo sembra suggerire dei possibili sensi di libertà– ad esempio, la libertà di suonare senza ricompensa, senza un pubblico ufficiale – da aggiungere magari al concetto dominante di libertà nelle nostre società, ma senza con ciò pretendere di stabilire un senso univoco del termine. Il compito di articolare questi ulteriori sensi possibili è lasciato, senza imposizione, a chi ascolta. C’è un chiaro potenziale politico, il cui senso non è deducibile in modo incontrovertibile dalle idee politiche dell’autore.
Assoluto masterpiece di De Andrè.
Pertanto, mettere in luce la dimensione della vaghezza non consiste in alcun modo nell’affermare una presunta apoliticità delle canzoni “vaghe”. Da questo punto di vista, la vaghezza ha un chiaro potenziale politico. Tuttavia, si potrebbe ipotizzare che questo potenziale rischia di rimanere nascosto. Questo soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui sembrano coesistere polarizzazione e de-politicizzazione. Da un lato, si assiste a tentativi di politicizzazione basati su una pretesa di interpretazione univoca di canzoni che invece risultano essere costitutivamente vaghe. Dall’altro, viene spesso espressa l’esigenza di de-politicizzare la cultura, la tradizione e tutto ciò che finirebbe in una sorta di senso comune acritico. In questo rientra l’idea per cui è bene che le canzoni restino vaghe e quindi apolitiche per definizione. Come avviene spesso nel caso delle dicotomie, entrambi i tentativi condividono un assunto comune: la riduzione della politicizzazione a polarizzazione e moralizzazione.
Al di là di questa dicotomia, la vaghezza costitutiva può aprire a una diversa politicizzazione della musica, con tutti i necessari rischi che ciò comporta. Uno dei rischi è l’appropriazione indebita. La varietà costitutiva di significato può far sì che una canzone venga eletta a inno politico sia a destra che a sinistra – pensiamo a “Povera patria” di Battiato, cantata paradossalmente da persone che hanno in mente obiettivi polemici completamente diversi. Un altro rischio rientra nella fattispecie cristallizzata nel noto detto “tira il sasso e nascondi una mano”: si scrive una canzone evidentemente sessista, razzista o quant’altro, e poi ci si rifugia nella vaghezza: “eh ma non l’avete capita”, “eh ma non era quello il senso”. C’è sempre il rischio che la vaghezza venga usata come una sorta di strategia difensiva, e che lo spazio della discussione venga pensato come una sorta di aula di tribunale. Ritorniamo al caso de “La canzone del sole”. Il fatto che non ci siano chiari indizi di sessismo non esclude che un’interprete possa usare il testo per riflettere sui contenuti politicamente rilevanti veicolati da canzoni di grande popolarità. Con una strategia di politica culturale, si può riflettere sul potenziale politico (positivo o negativo, a seconda dei punti di vista) di una canzone, senza che questa discussione preveda necessariamente la figura di un imputato, di un’accusa, di una difesa e di un giudice. Oppure, si può legittimamente decidere di concentrarsi sulle conseguenze di un determinato prodotto culturale. Magari una canzone estremamente vaga può aver comportato nel suo successo delle conseguenze politiche morali e indesiderabili molto chiare.
Il tutto è aggravato da quella che potremmo chiamare vaghezza dei layer di significato. Alcune canzoni sono offensive e sterotipizzante a un certo layer, ma questo layer è usato per ironizzare contro qualcuno/a o qualcosa. Questa vaghezza del layer è una sorta di assicurazione contro l’accusa di essere offensivi – c’è sempre un livello di senso che chi ascolta non ha capito e non ha colto.
Allo stesso tempo, la coesistenza dei layer e un certo livello di vaghezza in tal senso è in qualche modo una condizione necessaria all’uso del registro ironico, e del suo potenziale politico. Un esempio classico in questo senso è il brano Omosessualità di Elio e le Storie Tese (1996). Un brano pieno di stereotipi sull’omosessualità (“Vacanze in Turchia, vacanze in Marocco, vacanze in Grecia: Omosessualità”) e di marchiane confusioni tra le diverse identità sessuali e di genere (“Avere rapporti anali, sentirsi donna in un corpo di uomo, Omosessualità”). Eppure, un brano premiato dal circolo Mario Mieli, per mano di Vladimir Luxuria, per la sua carica ironica e sovversiva, al netto degli errori contenuti nel testo.
Tutto vero.
In breve
Pertanto, gli usi della vaghezza in senso politico comportano delle ambiguità e dei rischi. L’ambito musicale non fa eccezione in questo senso. Ora, vale la pena prendersi questi rischi? Una risposta a una domanda del genere è forse di natura strategia e politica, e non teorica. Il suggerimento che mi sento di dare con questo articolo è il seguente. I rischi segnalati sono costitutivi e ineliminabili, una volta che accettiamo il potenziale politico della vaghezza, e le aperture che essa comporta. Questo potenziale può tuttavia svolgere un ruolo importante, in un’epoca di diffusa riduzione della politicizzazione a polarizzazioni e moralizzazioni. Ovviamente, ogni tanto le polarizzazioni sono importanti, se non necessarie. Pensare che l’unico tipo di politicizzazione possibile sia dicotomia e moralizzante comporta tuttavia dei rischi di conformismo e appiattimento. Con tutti i suoi rischi e le ambiguità, il paradigma della vaghezza è un buon antidoto contro tali rischi.