a cura di Laura Pugno
In questa nuova rubrica per LPLC, un autore o un’autrice ci consegna le sue quattro parole chiave, un nome (comune o proprio), un verbo, un aggettivo e un avverbio, dal primo o dall’ultimo libro o dall’intero della sua opera.
Oggi rispondo Valentina Durante e Antonella Lattanzi.
Valentina Durante
Nome: Gabbia
In: L’abbandono (La nave di Teseo, 2024). Scrivo di scarcerazioni, per lo più. Scarcerazioni volontarie tanto quanto le (auto)-reclusioni che le precedono. Non m’interessa la gabbia come condizione statica, osservo semmai il movimento che i miei personaggi compiono per uscirne. È un movimento che nel disfare sempre fa, edifica l’edificio per una modalità di vita alternativa – materiale, psichica. La gabbia resta, è lì; sussiste nella sua (forse) eternità, perché è difficile negarsi come figli, impossibile farlo come genitori e come amanti e amati – vada come vada – ti restano addosso le impronte dell’altro, cicatrici eloquenti e stabili, insieme all’illusione di poterti nascondere sotto la tua stessa pelle. Corpi che si sfinano, che tirano in dentro l’addome per sgusciare fra sbarra e sbarra e in questo loro tzimtzum danno forma a un universo nuovo. Evadono, i miei personaggi, in definitiva soprattutto da loro stessi perché cos’è l’auto-reclusione in una qualche santità, eroismo o nevrosi se non la forma suprema di vanità, il digiunatore che si lascia ammirare dal pubblico pagante nella gabbia più grossa e più bella del circo dei viventi.
Verbo: Dilaccarsi
In: L’abbandono. Conio dantesco mutuato dal padre. Nel canto XXVIII dell’Inferno il verbo chiude una serie lessicale di registro umile e spregiativo, ma di grande espressività creaturale: rotto dal mento infin dove si trulla (spaccato dal mento fino a dove si scoreggia), minugia (budella), tristo sacco (stomaco), merda, trangugia e infine dilaccarsi, ossia dividersi, squarciarsi tra costa (lacca) e costa. È l’aspetto tragico e grottesco del trapassare che svela un’angoscia – questa invece vivissima – che è comune a molti dei miei personaggi e che definirei un’angoscia dell’incontinenza: morale, sentimentale e naturalmente anche fisica. Da qui, l’ossessione per il controllo delle proprie funzioni e la continua sorveglianza di sé; si veda la giornata-tipo del padre all’insegna di una meticolosa ipocondria che diventa, per tirannia dell’affetto, l’unica giornata possibile anche per la figlia. Aprirsi, scoprirsi, rendersi preda, rendersi bestia. Il corpo è l’unico luogo dove natura e cultura davvero s’incontrano, accadono simultaneamente, ma nei miei personaggi questo accadere è sempre sofferto, problematico, una disappartenenza lacerante.
Aggettivo: Limpido
In: Enne (Voland, 2020). È alla radice di ogni mia scelta formale: il rifiuto della torbidità e la ricerca di una precisione che non si adagia nella possibilità del sinonimo – che nella pratica per me non esiste. Esiste una sola parola valevole per ciò che si sta tentando di esprimere e significare e ogni alternativa è più che sia smacco e rinuncia. È anche l’impegno a una parola morale (non moralistica) che assuma su di sé il compito principale di chi scrive, l’unico che non possa essere surrogato da altre forme di narrazione, peraltro spesso assai più efficienti e immediate: fare manutenzione della lingua. Compito del poeta, certo (l’espressione è di Elio Pagliarani), ma non meno anche del prosatore. Osservare il tragitto che ogni parola compie nella storia della lingua – da invenzione, a cliché, ad acquisizione stabile dunque quasi mai ragionata –, scegliendo di volta in volta dove e come collocarsi, senza preconcetti; la scrittura come carotaggio, come avventura speleologica.
Avverbio: Irrimediabilmente
In: Enne, usato due volte nello stesso giro di frase, con effetto percussivo. Quest’avverbio è una festa per gli occhi e per gli orecchi, e non si dica di no. Cinque sillabe che corrono srotolandosi per atterrare nell’accentazione piana della sesta; ma è un arresto solo temporaneo perché l’abbrivio non si esaurisce, non si spegne, e dà anzi slancio alla parola che segue; e laddove compaia un punto a recidere, è un punto ricco di dramma, di enfasi. Gli avverbi in -mente sono per me lusso e tentazione continua. Osteggiati dai manuali di bella scrittura che ne imporrebbero l’epurazione, si mettono volentieri a servizio di sfumature sottilissimamente ironiche. Le volte che mi prenderebbe la smania pudica di rinunciarvi, attacco a rileggere Centuria di Giorgio Manganelli: il -mente – che è modale, ma anche razionale, intenzionale (il suffisso è l’ablativo del latino mens mentis) – mi ripiglia all’istante, con il suo ritmico vento di rapina.
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Antonella Lattanzi
Nome: Dita
Le unghie di Emma Bovary sono bellissime, luccicanti, ma le dita no, e nemmeno le mani. Le dita ci servono per scrivere, per accarezzare, per indicare, per dire di no. Le dita sono da pianista, o sono tozze. Le dita di mia madre sono nodose perché ha lavorato sempre. Saranno nodose anche le mie.
Verbo: Viaggiare
Il console Firmìn di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry ha viaggiato tanto per arrivare in Messico ma non ha trovato la sua pace. Anzi. Viaggia coi sui mezcal, uno dopo l’altro, ma è un viaggio dell’orrore. I viaggi possono essere reali o mentali, possono essere paradisiaci o viaggi dell’orrore. Viaggiare può essere l’unico motivo per non scomparire, o uno dei maggiori.
Aggettivo: Perso
Milton ne La questione privata di Beppe Fenoglio si è perso. Fulvia, che ama, è lontana quanto la vittoria dei partigiani su fascisti. Privato è un’altra bella parola, oppure asfissiante. Troppo spesso ci perdiamo. Non è detto che saremo ritrovati. Bisogna sperare.
Avverbio: Sempre
Come sarebbe bello essere per sempre.