di Roberto Contu
Consigli di classe. Scuola, democrazia e società,
rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Con questo contributo voglio condividere alcuni pensieri nati a seguito di una lezione problematica, ovvero che ha sollevato problemi sui quali mi sono trovato a riflettere e che anzitutto, brevemente, mi è necessario raccontare.
Insegno lettere nella secondaria di secondo grado, e pur convinto della continua e necessaria rigenerazione di ogni contenuto didattico (alla luce di un’idea di storicizzazione dei testi da fondare nel loro passato, ma per poi metterli a sistema con un presente che muta e che ne risignifica sempre il portato culturale), ci sono alcune lezioni che ripropongo periodicamente senza cambiamenti e una di queste è quella che ho dedicato negli ultimi anni nelle mie classi quarte a Dei delitti e delle pene e alla questione della pena capitale. Si tratta di un piccolo monte orario, che si inserisce nel modulo sull’Illuminismo, che per prassi concordo sempre con il collega o la collega di Storia e Filosofia, alla quale demando la trattazione del contesto europeo, per potermi dedicare personalmente al caso italiano. In estrema sintesi (non è del modulo in sé che intendo dire), il percorso è questo.
Dopo un’introduzione quadro sull’Illuminismo milanese, e dopo un commento di un passo dalle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri per dedurre alcune questioni di metodo, porto in classe la figura di Cesare Beccaria, la genesi e le questioni di Dei delitti e delle pene, del quale leggiamo e commentiamo, senza fretta e con attenzione, alcuni passi tratti dal capitolo XVI, quelli nei quali si argomenta il perché no alla pena di morte («Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può; ma è una guerra della nazione con un cittadino»). Con la premura di avere attivato la comunità ermeneutica della classe in un confronto sulle motivazioni del XVIII secolo, passo quindi all’altro corno della questione, ovvero quale sia lo stato attuale della pena capitale.
Il punto di partenza è il quadro mondiale, dalla Cina a paesi come l’Iran, ma il riferimento più circostanziato è l’occidente che ancora perpetra tale abominio, con un riferimento inevitabile agli USA e ai suoi stati dove ancora è in vigore. A riguardo, da un paio d’anni parto dalla vicenda simbolica di Lisa Montgomery, come ho avuto già modo di raccontare leggiamo le parole della sua lettera di notifica della condanna, quindi ci addentriamo per quanto possibile nella «rigorosa coerenza» delle varie modalità di esecuzione della pena (per altro, le lezioni di quest’anno si sono svolte in prossimità dell’esecuzione di Carey Grayson, giustiziato il 21 novembre 2024 per soffocamento nella camera a gas), sull’organizzazione del braccio della morte e infine, attraverso varie fonti e in particolare quelle di Nessuno tocchi Caino, prendiamo atto dei nomi e dei volti di alcune persone che, nel momento stesso in cui ne parliamo in classe, sono sospese in quel limbo «infero».
Un ultimo momento in classe, non prima di un riferimento necessario alla storia e al significato dell’articolo 27 della nostra Costituzione, consiste nella lettura di alcune pagine tratte da L’idiota di Dostoevskij ovvero quelle in cui il principe Myškin racconta gli ultimi venti minuti di quel condannato a morte poi graziato sul patibolo e che, come noto, altro non è che referto di quanto vissuto dall’autore stesso nel 1849. Il modulo si conclude con una consegna, ovvero la visione a casa in piccoli gruppi del film di Tim Robbins Dead man walking, sul quale discuteremo dopo qualche giorno insieme, film oltre che bello ricco di potenzialità didattiche, su tutto la scelta felice di mettere problematicamente lo spettatore (che veste i panni dell’inizialmente ignara protagonista, la suora interpretata da Susan Sarandon, alla quale viene affidata la cura spirituale di un condannato nell’imminenza dell’esecuzione) al cospetto del punto di vista di tutti i soggetti coinvolti, dal protagonista Matthew Poncelet (Sean Penn), colpevole del più efferato dei delitti, ma anche delle famiglie del ragazzo e della ragazza uccisi, del sistema giudicante, della famiglia del condannato.
La discussione
È proprio di quanto avvenuto durante la discussione che mi interessa dire, precisando che quest’anno le classi coinvolte sono state due (di circa venti alunni e alunne ciascuna), trovandomi a insegnare in due quarti anni del mio istituto, di due indirizzi diversi, ma nelle quali porto parallelamente avanti lo stesso programma.
Il discorso si è sempre avviato sul valore del film, sulla bontà della rappresentazione, sulla democraticità dei molteplici punti di vista, e su questo c’è sempre unanimità nelle classi a distanza di anni (come detto, da tempo ripropongo lo stesso modulo, con il film parte integrante dell’attività) e anche quest’anno è avvenuto lo stesso. Ma è quando arriviamo alla problematizzazione del protagonista che la discussione acquista sempre peso specifico. Per tutto il film la colpevolezza di Matthew Poncelet viene lasciata nell’ambiguità, a mezzo di analessi ricorrenti ma non del tutto chiare (è stato lui o il complice Carl Vitello, condannato al “solo” ergastolo, a compiere materialmente il delitto?), ma al termine della pellicola si palesa chiaramente come Matthew Poncelet non solo sia effettivamente l’assassino, ma anche colui che prima ha ignobilmente abusato della ragazza.
A questo punto, senza infingimenti, pongo la domanda: «alla luce di quanto visto, del finale del film, a vostro parere è giusta o no l’esecuzione di Mattew Poncelet?».
Sempre senza infingimenti, nei limiti di quanto è opportuno riportare, dico che quest’anno la percentuale di chi si è dichiarato comunque e a prescindere contro l’esecuzione capitale è stata assolutamente minimale, mentre la percentuale di chi si è apertamente dichiarato a favore di quell’esecuzione, è stata sensibilmente superiore a quei pochissimi che si sono detti contro a priori.
La gran parte di coloro che hanno voluto precisare la loro titubanza ha portato invece motivazioni che alla fine si sono rivelate ricorsive nelle due classi, e che possono essere suddivise in due ordini di ragioni. La prima, la più ricorrente, è stata questa: «va bene, al limite non la pena di morte, ma uno come lui deve avere l’ergastolo e non uscire più per il resto dei suoi giorni», mentre un’altra, meno ricorrente della prima ma ripetuta più volte in entrambe le classi e densa di ulteriori e problematiche considerazioni, è stata questa: «va bene l’omicidio, ma uno come lui, che ha stuprato oltre che ucciso una ragazza, se non merita la morte non deve mai uscire più per il resto dei suoi giorni da una prigione».
Per altro, in una delle due classi, questo posso dirlo, la discussione è capitata proprio nel giorno della sentenza a carico di Filippo Turetta, che sarebbe arrivata nel pomeriggio. Quella mattina, in quella classe, ho allargato esplicitamente la discussione a quel fatto reale, in deroga alla regola che mi do durante le discussioni, ovvero quello di non intervenire mai nel merito, al massimo di moderare gli scambi. Se a un certo punto mi sono permesso di fare cenno al tema della giustizia riparativa alla luce dell’articolo 27 e alla questione dell’ergastolo ostativo come pena di morte bianca, al valore irrinunciabile della rieducazione della pena, in definitiva alla possibilità di redimersi, praticamente all’unanimità hanno risposto in questo modo: «uno così non cambia, non può cambiare. O l’ergastolo fino alla fine della vita, oppure nient’altro. Va buttata la chiave». Alcuni e alcune hanno confermato come proprio questa evidenza fosse una delle ragioni forti a favore della plausibilità della pena capitale: «certe persone non cambiano. Alla fine, devi prenderti le tue responsabilità, devi pagare tutto quello che hai fatto».
La domanda
Le due classi sono due bellissime classi, e non si tratta questo di un misero espediente retorico. Non sono classi problematiche, lo stesso istituto dove insegno, al di là delle contingenze naturali di una scuola, è ben lontano dall’essere un istituto complesso, che si trova in un contesto di provincia relativamente tranquillo. Le ragazze e i ragazzi di queste due classi sono splendidi, non ho remore a dire che ognuno e ognuna di loro sono corrispettivi reali e incarnati di quella speranza che ogni giorno pesco in quel serbatoio di futuro che è la scuola vissuta e praticata.
Va anche da sé che non avrebbe senso alcuno trarre considerazioni generali su un campione statistico inesistente. Eppure, in merito a questo tema, ancora una volta (che tale esito è capitato in modo così evidente almeno negli ultimi tre anni, mentre parlo di pena capitale da quando sono a scuola, ovvero da oltre vent’anni), ho avvertito, certo come esperienza personale, fallibile e per natura confutabile, che quel diritto naturale alla vita, che dovrebbe confinare e in parte storicamente ha confinato la barbarie dell’esecuzione capitale alla stregua di un tabù, potrebbe non essere più tale nella percezione delle nuove generazioni e destinato in proiezione a un futuro se non altro incerto. Certo, si potrebbe obiettare che in fondo così è sempre stato, ma a riguardo, pur sempre per limitata esperienza, posso dire che no, fino ad almeno dieci anni fa, anche in istituti ben più problematici, la mia percezione era che il rifiuto della pena capitale fosse nei giovani un dato oramai inculturato.
Ma in fondo, ed è qui che volevo arrivare, non è nemmeno per questo importante scenario, per le riflessioni che implica, che ho raccontato tutto questo, tanto più che credo che ognuno avrà già fatto considerazioni più a fuoco delle mie e che sono ben disposto ad accogliere. Ciò che mi interessa è invece definire, da insegnante, da persona che vive e pratica la scuola, quale sia il mio ruolo oggi rispetto alla funzione educativa che mi è affidata, specie in casi decisivi come questo.
I problemi
Perché il tema è proprio questo. Si tratta di una questione che anzitutto, come tutte le grandi domande sull’educazione, andrebbe collocata a debita distanza dei due estremi polari che naturalmente e continuamente si scoprono, anche in virtù dell’inquinamento della comunicazione digitale (vedi la recente e a mio parere non meno significativa vicenda di Tony Effe a Capodanno). Da una parte l’«o tempora o mores», il «non hanno più valori» (fossero anche i più nobili e seri) e dall’altra il «chi siamo noi per giudicare questi ragazzi», «dovrebbero solo riderci addosso per la pretesa del nostro giudizio». Da un lato la sclerotizzazione del non sapere fare posto a chi ci oltrepassa anzitutto biologicamente e dall’altro lato una totemizzazione di un concetto vuoto di ingiudicabile, intoccabile giovinezza, che spesso altro non è che è un modo di esorcizzare l’emorragia personale di senso. Ecco, a me pare che anzitutto lo stare in classe, il fare scuola e non solo il dirla, dovrebbe lasciare poco spazio allo stazionamento su questi due bordi parassitari, proprio per il naturale posizionamento che tale esperienza impone, ovvero il trovarsi giorno per giorno, ora per ora, difronte al senso storico del divenire sociale e politico e del suo farsi attraverso la dialettica generazionale. Ed è proprio in questa terra di mezzo dove vive il rapporto educativo, dove esiste la scuola, che si generano continuamente domande decisive, che lascio qui aperte, come lo sono continuamente nelle mie giornate da insegnante.
Dove sta andando questa generazione di ragazzi e ragazze rispetto a quei valori fondativi che continuano a essere rintracciabili, pur nella loro fragilità, nella nostra Costituzione? Quanto paga questa generazione il peso di un totalitarismo del mercato, di una cultura dell’individualismo e del possesso che se ha annullato definitivamente la domanda novecentesca del «che fare?», assolutizzando il «chi sono?», oltre a polverizzare il senso stesso delle comunità, ha posto sull’altare della storia il culto dell’io? I valori che da un certo momento in poi ci sono sembrati dati, da quello democratico a quello della solidarietà sociale, saranno ancora per un futuro illimitato effettivamente tali?
Inoltre, in che rapporto stanno da una parte il dovere del giudizio adulto dell’educatore, la prerogativa educativa dell’accompagnamento e del discernimento, e dall’altra la convinzione intima di come i passi da fare siano sempre e solo sulle gambe degli studenti, della loro libertà e della loro responsabilità, delle loro intelligenze? In che termini è possibile quel patto generazionale che, fuori da ogni retorica vuota, è vettore di senso di ogni dialettica storica?
E per quanto mi riguarda, in che modo, nello statuto epistemologico e nel portato conoscitivo di ciò che insegno, riesco ancora a trovare un terreno fertile di incontro, affinché i codici complessi della conoscenza possano fornire un vocabolario comune, le domande giuste e le logiche adatte, le opportune correlazioni tra le incertezze e le presunte verità, la contezza delle conseguenze di ogni atto unilaterale di giudizio?
Infine, esiste ancora oggi, nel tempo della dematerializzazione dei corpi nella relazione, uno spazio sociale che tenda verso un orizzonte di senso attraverso la via comunitaria? E se questo posto è la scuola, gli adulti che la abitano e con loro i ragazzi e le ragazze ai quali appartiene, sono ancora disposti a farsi carico di queste domande, di tali problemi?