di Stefania Barca

 

[Esce nei prossimi giorni per Alegre, nella collana “Working Class” diretta da Alberto Prunetti, Malesangue, di Raffaele Cataldi, un romanzo duro e coinvolgente che racconta l’ambientalismo operaio a Taranto.

Il volume è accompagnato dalla prefazione di Virginia Rondinelli e dalla postfazione di Stefania Barca, che pubblichiamo qui].

 

La storia raccontata in questo libro si svolge in una città operaia del sud Italia – anzi, è quella di questa città, in un certo senso – e non potrebbe essere altrove. È una storia di rabbia e sangue amaro, di amore e amicizia, di passione politica e calcistica, di grandi speranze e grandi delusioni, e di solitudine: quella non soltanto di un uomo, ma di un’intera classe operaia lasciata a districarsi da sola con ingiustizie gigantesche, vecchie e nuove – la più grande e invincibile delle quali sembra essere quella del ricatto occupazionale, o anche l’ingiustizia ambientale. Perché l’ingiustizia ambientale in una comunità operaia del sud si presenta così, come una promessa meravigliosa – l’occupazione, il reddito, i diritti… la normalità! – che nasconde un costo umano spaventoso, così spaventoso che nessuno vuol vederlo, che si può solo provare a esorcizzare, o alla peggio anestetizzare. È una promessa che nasconde un grande ricatto e un grande tradimento: il ricatto del lavoro (occupazione contro ambiente e salute), e il tradimento della politica. Questa è stata, e continua a ripetersi stancamente, la storia dello stabilimento Ilva di Taranto dagli anni Sessanta a oggi: fin da quando il sacrificio degli ulivi secolari, abbattuti per far posto al siderurgico più grande d’Europa, presagiva quello del suolo e delle pecore, contaminati da diossina, quello del mare e del cielo carichi di veleni, quello dei bambini e di un’intera comunità, a cominciare dagli operai che morirono per costruire il mostro e quelli che quotidianamente, da allora, entrano tutti i giorni nelle sue fauci.

 

Studi e opere artistiche e letterarie di vario genere che documentavano tutto questo si sono susseguiti negli anni, testimonianza di una città che non si rassegnava al veleno, che credeva, nonostante l’evidenza, nel proprio diritto ad una vita “normale”; e dei suoi alleati: saperi tecnici, scientifici, socio-umanistici, artistici e dell’informazione, che si sono mobilitati per misurare, denunciare, raccontare la storia giusta. Voglio ricordarne uno specialmente, che mi sta a cuore perché è stato condiviso con me fin dalla sua prima presentazione pubblica, l’uno maggio del 2018: Piano Taranto, documento collettivo di pianificazione dal basso prodotto di uno straordinario lavoro di amore e unità tra i tanti gruppi e realtà territoriali che operano – ciascuno dalle sue posizioni e convinzioni – per la giustizia ambientale e il riscatto di Taranto. Raffaele ne accenna nell’ultimo capitolo, senza entrare troppo nei dettagli – che questa è la sua storia, non un saggio o un documento politico. Però Piano Taranto vale davvero la pena leggerlo, e soprattutto discuterlo, anche a distanza di anni, perché una comunità operaia non è un oggetto passivo e inerte ma una cosa viva capace di informarsi, analizzare, proporre, sognare e programmare un futuro diverso, lontano dalla “monocultura dell’acciaio” e dalla logica del sacrificio.[1] Piano Taranto ci dice che un’altra Taranto è possibile – non quella che vogliono le banche o lo Stato, ma quella che vorrebbero i suoi abitanti – e che per realizzarla c’è bisogno di una politica che prenda le loro parti. Perché quello che distingue questo piano da qualunque altro è il suo carattere di parte: il suo esprimere i dolori, le perdite, le speranze, le delusioni, le rivendicazioni di chi ha vissuto la monocultura dell’acciaio sulla sua pelle e chiede ora giustizia. Questo è il primo, enorme passo verso l’orizzonte collettivo della giustizia ambientale.

 

Questo libro nasce da un incontro, quello tra il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti e un gruppo di ricercatori e ricercatrici di diverse Università europee, attraverso un progetto di ricerca Horizon 2020 sulla giusta transizione a un’economia circolare, che ha studiato, tra le altre cose, Piano Taranto, grazie anche alla collaborazione attiva del Comitato.[2] Ne sono nati un rapporto con il titolo Case-study ex Ilva Taranto, oggi reperibile sul sito www.just2ce.eu, un documento di sintesi e proposte politiche sulla giusta transizione a Taranto e nei siti industriali contaminati, indirizzato alla Commissione Europea, e il libro che avete tra le mani, che racconta questa storia dalla prospettiva operaia. Perché questa è la prospettiva da cui dobbiamo partire, e che ci deve orientare nell’analizzare, studiare, proporre, e lottare, se quella che vogliamo è una giusta transizione per Taranto e per tutti i siti industriali contaminati di questo Paese.

 

Note

 

[1] Documento può essere scaricato dal sito web del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti:

https://www.liberiepensanti.it/home/chi-siamo-2/piano-taranto/

[2] Mi riferisco al progetto Just2CE (A Just Transition to the Circular Economy), coordinato da Mario Pansera (Università di Vigo, Spagna), all’interno del quale Piano Taranto è stato studiato dal gruppo di ricerca formato da Ilaria Boniburini, Alessandro Esposito, Emanuele Leonardi, e coordinato da Stefania Barca.

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