di Alberto Casadei
Proviamo a triangolare fra le più recenti pubblicazioni di Walter Siti: la Palinodia aggiunta nella riedizione del 2023 di Il realismo è l’impossibile, il ‘romanzo’ I figli sono finiti, uscito nella primavera del 2024 e seguito, pochi mesi dopo, dal ‘saggio ibrido’ C’era una volta il corpo[1]. Nella prima, dopo aver analizzato le caratteristiche di molte serie televisive di successo (in gran parte passive rispetto ai canoni proppiano-strutturalisti del raccontare), Siti afferma che quel quid che aveva sempre cercato, e che aveva individuato attraverso “piccoli lampi”, equivalenti alle tante ‘epifanie-occasioni’ primonovecentesche, insomma il Reale, in effetti sta sparendo: “La realtà può essere sostituita, questa è la novità dei nostri tempi”. E prosegue ritornando al commento di Picasso riguardo al celebre quadro ‘osceno’ di Courbet, L’Origine du monde, che pare fosse appunto “la realtà, è l’impossibile”: ma quando è ormai l’Intelligenza Artificiale a creare immagini cariche di fascino erotico, un Picasso di oggi forse direbbe “il realismo è l’accessorio”.
Mentre confeziona questa Palinodia, Siti sta scrivendo il suo romanzo per ora conclusivo, e si è di sicuro reso conto pure nella sua pratica che la categoria di ‘realismo’ deve essere ripensata: i presupposti stessi di una divisione fra ciò che è proprio del novel e ciò che invece è ‘fantastico’, di fatto combinabili p.e. in una serie televisiva coreana o indiana, sono cambiati a livello di cultura di massa. Ma soprattutto la nozione di ‘realtà’ muta per chi vive gran parte della propria esistenza nei social, impiegando ogni mediazione informatica e invenzione da IA: si parla dei Millennials, ossia di chi è vissuto con Internet e gli smartphone sempre disponibili. In effetti molti di loro non hanno interesse a incontrare una realtà in quanto materialità, non vogliono improvvise apparizioni e destabilizzazioni, accettano insomma che esista una condizione virtuale che unisce chiunque, al di là del genere sessuale e addirittura dei sentimenti in quanto possibili attrazioni fuori di sé. Magari, conclude la Palinodia, la realtà tornerà non come dettaglio rivelatore bensì come “un’esplosione, una riapparizione pesante, violenta”, in analogia a quanto è accaduto agli esordi del romanzo moderno, con il Don Quijote e La Princesse de Clèves, testi ex lege nati in ambienti dalle convenzioni onnipervasive.
Nei Figli sono finiti non a caso s’instaura una forte dialettica tra un mondo umano al suo tramonto e un altro a venire grazie alle divaricate prospettive dei due protagonisti. Da una parte, il professore settantenne Augusto, debilitato nel corpo e menomato per la perdita del suo compagno Vincenzo, ma ancora pronto a seguire sino in fondo il suo desiderio ossessivo di corpi maschili con un ennesimo escort-semidio gnostico, Franco, il più erculeo di tutti quelli sitiani e però anche esemplare del “crepuscolo della sessualità contemporanea” (p. 177). Dall’altra, il ventenne Astore, che con la sua intelligenza acutissima ma fredda riesce a demistificare ben presto la facciata dei buoni rapporti fra i genitori (d’altronde, il padre si rivela una sorta di inetto con vari tipi di abiezione, mentre la madre muore presto e crudelmente, come quasi tutte le donne nei testi di Siti), e poi si riduce a vivere recluso da solo in un appartamento, sia a causa del Covid sia per la sua decisione di tenere rapporti a distanza informatica con quasi tutti i suoi coetanei. Si tratta di due figure-emblema della condizione umana occidentale, nella quale i desideri e in specie gli amori, che potevano ancora veicolare ricerche dentro il Reale, stanno diventando giochi anodini da svolgere soprattutto con icone perfette e senza residui materiali, mentre l’ideologia privata che trasformava le vicende terrene in una sorta di grottesca e tragica sequenza di passioni e pulsioni, insoddisfatte perfino quando giunte al loro scopo (in ossequio al versante psicanalitico che da sempre guida Siti nelle sue ricognizioni), sembra ormai incapace di opporsi alla reductio verso il consueto e il banale, verso l’“è tutto qui”, esito apparentemente inevitabile di ogni scandaglio nel Reale.
Già con Il contagio (2008) Siti aveva voluto uscire dalla forma narrativa, l’autofiction in senso lato[2], che era diventata sin troppo vincolante dopo avergli consentito le prime ricognizioni romanzesche. Adesso si orienta a uscire proprio dalla forma-romanzo, tanto è vero che I figli sono finiti manifesta ancor più dei testi precedenti fratture e vie di fuga: sono numerose le didascalie di tipo teatrale, le note di commento dell’autore, le infrazioni ai codici strutturalisti da novel ben fatto, nonché le prese di distanza rispetto ai miti da tempo instaurati: la storia di Franco, pur carica di risonanze persino delicate, si svolge come un déja-vu rispetto alle tante analoghe susseguitesi da Troppi paradisi in avanti, e la descrizione dei rapporti intimi procede all’insegna del voluto manierismo sadiano, con un’atmosfera mortuaria che non predomina perché viene parodiata dalla praticità sentimental-commerciale di quello che sarebbe l’Escort Supremo. Lo stesso rapporto Augusto/Astore, quasi due facce delle età dell’uomo (il Vecchio e il Giovane), al di là dell’esito drammatico e grottesco finale, risulta quasi un esperimento in vitro, nel quale la verosimiglianza è sì mantenuta ma arriva ai suoi limiti di rottura, generando una sorta di grande sceneggiatura tra Buñuel e Haneke, anziché una compagine stratificata e però coesa come più o meno tutti i romanzi anteriori.
Siti sonda quindi il limite delle ‘narrative stratificate’[3], e tematizza le sue risorse e persino le sue idiosincrasie proprio mentre, come ha indicato già nella Palinodia da cui siamo partiti, sta sfuggendo dalla sua galassia del romanzesco quel Reale dentro e oltre l’apparenza fenomenica che in fondo ne costituiva il nucleo essenziale. Arrivare a denudare, in senso narrativo e filosofico, il quid oscuro che riguardava tanto il vissuto e l’inconscio dell’autore, quanto i movimenti delle masse nell’Occidente sull’orlo della sua fine, era un obiettivo continuamente tenuto nel mirino, fonte di ricerche complesse, come quella che condusse al fondativo Scuola di nudo nel 1994, e però sempre all’interno di un perimetro cultural-letterario piuttosto netto: nel romanzo si possono sperimentare, alla Proust o alla Kundera, moltissimi livelli di interpretazione del Reale, che è presupposto, deve esistere perché esiste il Corpo divino. L’intera fenomenologia della vita umana va indagata per arrivare a definire quel Corpo che, in teoria, potrebbe davvero ‘far divino’ chi lo ha conquistato (e invece resta sempre un’insoddisfazione); d’altra parte, proprio la tensione incessante verso il Reale consentiva, un po’ come accadeva in Balzac, di cogliere il misterioso-ignoto dentro le prassi degli esseri umani operanti tra XX e XXI secolo.
Nei Figli sono finiti troviamo invece una scena che veicola un grado zero del ‘realismo corporeo’: nell’opera di Siti, esso potrebbe implicare la demistificazione dell’intera ideologia del Corpo per arrivare a un altro tipo di rapporto con il reale (con la minuscola). È quella in cui Augusto, di notte, cerca di fotografare con il cellulare l’intera superficie del suo corpo di vecchio dal cuore trapiantato, un processo senz’altro desublimante ma proprio per questo di grande importanza: non ci si aspetta certo un’apparizione numinosa, la scoperta del Corpo, si punta piuttosto a ottenere una sorta di collage che dovrebbe essere il corpo di Augusto. La valenza speciale di questo evento è aumentata dal fatto che, come ha dichiarato l’autore, l’ispirazione gli è venuta da un video di Bill Viola, visionato nell’ambito della mostra Rinascimento elettronico a Palazzo Strozzi (Firenze, 2017). L’azione di Augusto è, quindi, il trasferimento nel reale-quotidiano di un video artistico: è un’implicita messinscena-performance di un’opera d’arte che pure, come spesso accade nel caso di Viola, risultava ad alta caratura allegorica. Qui è in gioco il riappropriarsi in qualche modo del proprio corpo, quasi che fosse un oggetto estraneo da fotografare: di certo non un Ente sublime da glorificare.
Da questo grado zero è partito forse l’impulso a scrivere C’era una volta il corpo, saggio che pone subito in discussione la valenza assolutizzante del Corpo: eppure, si legge, questa era stata la certezza che aveva guidato sin dall’adolescenza l’autore, dato che i corpi quotidiani erano già percepiti come un’emanazione dell’Assoluto, la cui esistenza andava postulata per non vivere hegelianamente da servo, anche a costo di arrivare all’ossessione: “La certezza che il corpo sia un’esca per il divino, mediata dal desiderio, mi possedeva e sarebbe stata per sempre la mia ossessione; anzi era diventata per me una questione di vita o di morte” (p. 17). Siti esibisce sin dalla Introduzione (Ma perché io?) il suo coinvolgimento personale nell’indagine che sta per compiere, perché l’ideologia del Corpo lo ha segnato sin dai suoi primi anni: forse in maniera non fittizia vengono qui rievocati episodi dell’infanzia e dell’adolescenza che, nei romanzi, emergevano semmai per vie trasposte. Questo ibridismo fra ricordi iniziali e scavo storico-critico successivo è consentito dal genere o modo saggistico nella sua accezione più ampia: ed è significativo che Siti non abbia adottato un altro tipo di ibrido attualmente abbastanza praticato, il romanzo-saggio per esempio alla Pecoraro[4]. Qui deve prevalere la ricognizione sull’invenzione.
Non è purtroppo possibile soffermarsi sulle notevoli acquisizioni specifiche di C’era una volta il corpo, che ripercorre storicamente le percezioni e le pratiche corporee, sin da quelle riscontrabili nelle caverne del paleolitico: in quanto entità da collocare nel mondo e insieme da indagare per la sua ‘complicatezza’ che va ben oltre la mera funzionalità organica, il corpo ha attraversato tante stagioni, durante le quali ci si è resi progressivamente conto, a livello artistico e poi medico-scientifico, che esso reagisce, invecchia, si compra e si vende, si riproduce, aggredisce, comunica ecc. Snodi importanti, in questa trafila scritta senza alcun vezzo da ‘saggista ispirato’ e con parecchi tocchi ironici, riguardano la lotta epocale e ridicola contro l’invecchiamento biologico, secondo la laicizzazione del mito dell’eterna giovinezza (cfr. p. 50); oppure la progressiva sconfitta della ‘finalizzazione del corpo’ in ambiti ideologico-religiosi, specie riguardo al destino dei figli, che sembrano davvero ‘finiti’ in quanto corpi riprodotti (cfr. p. 110). E tante sono le intuizioni fuori degli schemi, per esempio riguardo alle attuali categorie della Gender fluidity e sui desideri indotti, già esperiti dal romanziere e trattati qui con acribia da ricercatore.
Ci sono comunque vari aspetti che vale la pena di sottolineare riguardo alla scelta di far seguire all’ultimo romanzo un nuovo tipo di saggio, creando una continuazione del primo con altri mezzi. Pensiamo per esempio a un caso in parte confrontabile, quello del Roman eines Romans (1949) con il quale Thomas Mann sentì il bisogno di esplicitare l’Entstehung del Doktor Faustus (1947): lo svelamento di elementi autobiografici nascosti dietro la vicenda romanzesca fu sollecitato dall’importanza dei cambiamenti personali e storici, durante e dopo la II Guerra Mondiale, che Mann ritenne fondamentali per comprendere meglio il suo romanzo ‘a chiave’[5]. Siti invece deve aver percepito di essere giunto a un punto di non ritorno riguardo alla sua personale mitologia; in particolare, chiarendo un fondamento decisivo per I figli sono finiti, nel saggio afferma senza cortine fumogene: “Se l’immagine può essere considerata un surrogato soddisfacente del corpo, un campo immenso si apre […]. Qui accade il salto oggi più interessante: se a esercitare la seduzione sono principalmente le immagini, allora non è necessario che quelle immagini raffigurino persone realmente esistenti” (pp. 92-93). Questo è il presupposto di quanto fa Astore nel romanzo, ed è una prospettiva sinora non presa in considerazione da Siti-autore: ci si può innamorare di immagini, è accaduto nella letteratura antica come nella poesia medievale, però esse dovevano corrispondere a un essere umano in un corpo, mentre adesso non è detto che sia così. Si tratta di una dimensione che nella fantascienza a sfondo etico-psicologico era già comparsa da tempo (pensiamo a Her di Spike Jonze del 2013), ma ora è diffusa pure nella ‘realtà’ esterna, che sembra sopravanzare i limiti posti nel territorio letterario-artistico di Siti.
In generale, Siti conferma che “l’Occidente ha abdicato all’esplorazione coraggiosa dell’esistenza: il corpo esce da sé non per entrare in altri mondi ma per sottrarsi a questo in cui si sente così spiazzato” (p. 134). È una diagnosi che vuole ribadire, nell’attuale contesto storico, alcuni punti fermi sull’Occidente come categoria gnoseologica e sociologica della condizione umana, votata alla sua autodistruzione nelle modalità prevedibili in un orizzonte integralmente capitalistico. Quanto Pasolini aveva espresso in forme contraddittorie e attraverso tentativi interrotti brutalmente, nella fase che si sarebbe dovuta sviluppare dopo Salò e la conclusione di Petrolio, è ormai raccontabile secondo un avanzato grado di sviluppo. Mancano tuttavia le componenti ‘apocalittiche’, notate da molti nelle opere sitiane sin qui uscite, da intendersi come segnali di un futuro ‘disvelamento’, perché poteva esserci davvero il Corpo Divino da raggiungere, in qualunque modo esso fosse tangibile. Adesso non è più così, e i figli sono “finiti” perché, come i corpi, importano sempre meno per le loro implicazioni gnostiche e semmai solo per le caratteristiche ‘commerciabilizzabili’ tutte terrene, mentre il travaso del biologico nel tecnologico risulta per molti giovani quasi un’opzione positiva anziché una distopia.
Sarebbe sin troppo facile sottolineare che la prevalenza del virtuale, dei desideri mediati dal deep learning delle IA, in effetti potrebbe condurre a un’ennesima acquisizione di estensioni corporee, e che tra non molto i fenomeni indagati da Siti faranno parte delle potenzialità di ogni vita umana, come lo sono diventati nel corso di centinaia di migliaia di anni quelli che sono stati esattamenti o correzioni nel processo evolutivo dovuti pure agli strumenti extracorporei impiegati. Per ora Siti mette un punto fermo a una lunga stagione della sua opera e insieme, con il suo saggio ibrido, prova a indagare il suo immaginario da una nuova angolatura. E va notato che la chiusa di C’era una volta il corpo non è affidata tanto a una sorta di wishful thinking (anche in futuro avremo “corpi che comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi”, p. 144), bensì a un Epilogo dal titolo Speranze dei corpi in primavera (pp. 147-149). Si tratta di un breve poemetto in versi di aura lirica minima, dove compaiono due nuovi Adamo e Eva, come segnala già l’incipit: “Ancora maschio e femmina in un giardino”. Sono appunto due giovani, che nel parco dietro alla torre Unicredit di Milano si fanno selfie e chiedono al Siti personaggio-poeta di spostarsi. Il rapporto effettivo fra questi attori, filtrato grazie alla mediazione stilistica della poesia a basso voltaggio, fornisce lo spunto per varie riflessioni che coinvolgono chiari assunti pasoliniani (“Ah, il corpo da sempre dimenticato e sempre / risorgente, che umile mi ossessiona”) e personali affondi quasi in forma di monologo interiore (“Se perdo l’odio non mi resta che il mondo”). Ma importante è il confronto fra i nuovi “ibridi” umani, che comunque sanno ancora sperare, e il “nevrotico rottame” del vecchio, che sopravvive a stento e però s’illumina per un ricordo d’infanzia all’insegna dell’amore come caritas (due rozzi braccianti che offrono dolcissimo zibibbo a lui bambino). Come in una celebre poesia di Philip Larkin, When I see a couple of kids, l’osservazione dei comportamenti dei giovani, specie in ambito erotico, suscita un ripensamento completo sulla propria condizione.
Nella veste di saggista che conclude il suo ibrido con una poesia, Siti, in analogia a quanto aveva fatto al termine della sua prima prova narrativa, afferma che non gli si deve credere sino in fondo: “Non credetemi quando parlo di corpi”. La solita riapertura dei giochi, con rimescolamento delle carte nel momento in cui ogni cosa sembrava a posto? Piuttosto, potremmo parafrasare: il mio Corpo è diventato questi corpi, ma non è ancora finita. Si tratterebbe, se così fosse, di un’armonica imprevista che viene introdotta pure nel saggismo ibrido, magari in vista di ulteriori sviluppi.
Note
[1] Il primo volume è edito da Nottetempo, il secondo da Rizzoli, il terzo da Feltrinelli.
[2] Sull’argomento, fondamentale L. Marchese, L’io possibile. L’autofiction come forma fondamentale del romanzo contemporaneo, Massa, Transeuropa, 2014. Per altre osservazioni, specifiche sulla prima trilogia di Siti, rinvio al mio Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2007.
[3] Su questa categoria ho scritto nel contributo Semplice e stratificato nelle arti e nelle narrative contemporanee, anticipato in parte in “Doppiozero”, $ gennaio 2025.
[4] Oltre che al classico A. Berardinelli, La forma del saggio, Venezia, Marsilio, 2002, si veda almeno S. Ercolino, Il romanzo saggio, Milano, Bompiani, 2017, e anche il fascicolo 9, 2018 della rivista “Ticontre” (https://teseo.unitn.it/ticontre/issue/view/108). Sulla componente saggistica ben presente nei testi narrativi di Siti, si veda R. Donnarumma, Ipermodernità dieci anni dopo. Verifiche sulla prosa italiana, in “Moderna”, XXVI, 2024, 1, pp. 17-36, specie 20-21.
[5] Ho trattato questi aspetti nel mio Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Roma, Carocci, 2000. Si veda adesso l’introduzione di Luca Crescenzi al Meridiano del Doctor Faustus, Milano, Mondadori, 2016.