di Andrea Cortellessa

 

A uno dei pochissimi suoi eredi possibili, Alberto Arbasino, che era andato a intervistarlo per il doppio numero-omaggio del «verri», nel ’74, raccontava il «carissimo Aldo» giunto alla soglia dei novant’anni (poco prima di compierli se ne andrà in punta di piedi, discreto come sempre, in una Roma d’agosto deserta e piombata) che tanti studenti andavano a trovare il reduce sopravvissuto di quei fuochi lontani, e gli chiedevano del Futurismo: «mi par di rievocare cose remote come l’Impero romano». Due anni prima nel suo ultimo e miracoloso libro di poesie, Via delle cento stelle, aveva scritto che sarebbe stato lecito stupirsi di questa curiosità, considerando il «feroce ostracismo» che lo accolse al «suo nascere», e invece è cosa «naturalissima»: «il futurismo non poteva nascere che in Italia / paese volto al passato / nel modo più assoluto ed esclusivo»; «è attuale oggi il futurismo / perché anche il futurismo è passato».

 

In questo mix di fierezza e liquidazione, pensando a quel remoto slancio verso l’avvenire, c’è tutta l’ambivalenza di Palazzeschi – in primo luogo, nei confronti di sé stesso. Al Futurismo, in effetti, aveva aderito per caso: nel 1909, tre mesi dopo il clamoroso Manifesto di fondazione, lo agganciava infatti Filippo Tommaso Marinetti (non ancora Accademico d’Italia, ma già nelle vesti dell’impresario facoltoso sempre alla ricerca di nuovi talenti – anche se poi le stampe nelle Edizioni Futuriste di Poesia, dei libri di Aldo, se le farà sempre pagare…), che chissà come s’era procurato l’edizione autoprodotta e autoillustrata dei Poemi (curata da «Cesare Blanc», cioè dal gatto dell’autore…), non a torto trovandovi «un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talvolta riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova». Ma quella sfiammata d’anni e di equivoci, 1910-1914 (quando, disgustato dal suo orribile bellicismo, infine Palazzeschi si decise a prendere ufficiali distanze dal movimento), coincide con la sua giovinezza. E quando dopo più di mezzo secolo di prosa (con successi anche clamorosi, come Le sorelle Materassi) tornerà alla poesia, nel ’68 con Cuor mio, lo farà all’insegna delle quattro volte vent’anni: «ho conosciuto anche la saggezza», dichiarerà, «ma la gioventù e la vecchiaia sono il tempo della follia».

 

L’icona proiettiva del folle ricorre ossessiva, in effetti, nel ricco repertorio poetico giovanile che ora – grazie alle cure di Simone Magherini e all’impegno diuturno dell’Ateneo fiorentino, erede del lungimirante autore – torna finalmente in libreria. Si sospetta un pericoloso sovversivo nel Frate rosso appunto dei Poemi, il cui altare è andato in fiamme insieme forse all’officiante volatilizzato, ma è certamente tale il «birbaccione» piromane che hanno esposto al pubblico ludibrio in una «gabbia di ferro […] in mezzo alla piazza centrale / del paese» (un po’ come si farà davvero, quarant’anni dopo, con Ezra Pound…) e che alla fine il «poeta», «povero incendiario mancato, / incendiario da poesia», sceglie di sprigionare perché «corra, a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo!». È L’Incendiario, certo, il lungo poemetto d’esordio che dà il titolo alla prima raccolta palazzeschiana edita da Marinetti, nel 1910 (e infatti è dedicato a lui, «anima della nostra fiamma»), nonché a una sua «seconda edizione», tre anni dopo, che in verità è libro tutto diverso. Si tratta infatti, annota Magherini, della «prima consapevole scelta autoantologica che Palazzeschi compie sulla propria opera lirica»: che recupera gran parte delle tre raccolte pubblicate prima della liaison con Marinetti (I cavalli bianchi del 1905, Lanterna del 1907, e i fatidici Poemi del 1909) e vi aggiunge sette straordinari episodi nuovi, in parte anticipati su «Lacerba», fra i quali figurano i capolavori assoluti del Palazzeschi poeta: Una casina di cristallo, I fiori, Postille e soprattutto l’inaggettivabile Passeggiata. Il poemetto eponimo è presente, ma con robusti tagli: e nelle successive auto-antologie del ’25, del ’30 e, ne varietur, nelle Opere giovanili del ’58, addirittura verrà del tutto cassato dall’autore, come a voler espellere da sé il tossico urticante dello spirito dell’avanguardia (che allegorico Palazzeschi aveva ritratto pure in narrativa; forse nella folle libertina che dà il titolo al postumo Interrogatorio della contessa Maria, certamente nel «pazzo volontario» Zarlino, che nel formidabile Codice di Perelà espone la sua follia programmatica: «Il pazzo non annunzia mai quello che fa, io invece annunzio sempre tutto. Io dico per esempio: ora emetterò ottantotto grida altissime»).

 

Sicché il centro incandescente di quell’adesione casuale ma effettiva, che fa di Palazzeschi senza discussioni l’autore maggiore dell’avanguardia italiana (e proprio per questo, oggi, il più rimosso protagonista del nostro Novecento; bene ha detto Gino Tellini, primo motore della renaissance, nella bella monografia dedicatagli presso Salerno tre anni fa: anziché «dire che Palazzeschi non è futurista» sarà il caso di «rivedere l’idea corrente di Futurismo […] monolitica e compatta»), finisce per essere, con ulteriore ed eloquente allegoria, assente. Così come (sottolinea sempre Tellini), nella poesia pre-futurista, era del tutto resecato l’io lirico (come, negli ipnotici Cavalli bianchi, una certa «statua», «tolta nei tempi lontani» dalla sua nicchia «in fondo al viale profondo»): Marinetti lo avrebbe predicato nei manifesti tecnici, ma quasi mai davvero praticato (glielo rimprovereranno, ascoltatolo declamare, i seguaci russi visitati nel ’14). La conseguenza è che non c’è più traccia, di quel colpevole Incendiario, né al titolo né nel corpus di questa edizione dello «Specchio»: che sceglie di mettere a testo (diversamente da quanto fatto da Adele Dei nel «Meridiano» di Tutte le poesie, 2002) l’ultima volontà d’autore. Meglio sarebbe stato, forse, riproporre viceversa L’incendiario del ’13, recuperando in appendice tagli e aggiunte posteriori (come il fondamentale Boccanera del ’15, invece così cancellato a sua volta: nel quale dell’incendio appiccato il «saltimbanco» di turno, un mangiafoco, finisce vittima lui per primo). È quella infatti, piacesse o meno all’interessato, l’insegna che gli resterà appiccicata addosso – nonché la lezione dal maggior «prestigio storico», cioè quella più letta nel corso del Novecento.

 

Resta il fascino straordinario della pronuncia «facile e difficile», come la chiama Tellini (poesia facile per gente difficile, come in un vecchio titolo di Tommaseo), del «carissimo Aldo». Con la solita ambivalenza, quel comico scandaloso e bruciante lo rivendicherà nel ’71; ricordando gli editori che ai suoi esordi lo prendevano «a calci nel sedere», dirà Palazzeschi: se poesie come La fontana malata ora «le mettono nelle antologie per i bambini», allora invece «la poesia era quella paludata di Carducci» e la sua era considerata, appunto, «pura pazzia». Una pazzia da considerare tale, forse, alla lettera, in senso schizoide cioè: se quell’«allegria» scatenata, nella quale a un certo punto «come per un miracolo» s’era capovolta – diagnosticava lui stesso – la sua «giovinezza turbata e quasi disperata», rivela a ben vedere (come dice presentando nel ’22 un’antologia del Giusti) un «riso con un brutto rovescio, un riso che nasconde la cattiva sorpresa della sua origine». Quello messo in scena dal geniale “manifesto” dell’Antidolore, pubblicato su «Lacerba» col titolo marinettiano di Controdolore, è sì l’esplosione di gioia che si deve «scoprire dentro il dolore»: ma si produce nel corso di un funerale. Il «carissimo Aldo» lo aveva infine punito, quel criminale d’un piromane, mettendo a morte sé stesso. Per questo non poteva smetterla di ridere.

 

 

Aldo Palazzeschi, Poesie 1904-1914, a cura di Simone Magherini, Milano, Mondadori, 2024, pagg. 392, € 19

 

[Una versione più breve di questo articolo è uscita sulla «Domenica» del «Sole 24 ore»]-

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