di Mario Pezzella
Questo libro di Antonio Tricomi [1] compone registri stilistici diversi: poesie narrative autoironiche e in fondo malinconiche, la scrittura spezzata ed espressionista del racconto Dov’ero io prima. Ad alienarmi e Di un altro congedo, una rapsodia teatrale clownesca e surrealista. Questa «trama, quasi jazzistica, di variazioni», l’ibridazione continua di linguaggi differenti ha un suo sostrato amaro, ha ben poco di giocoso gioioso postmoderno: siamo in un «feudo dopo-borghese, che forma a più forme vuote del sé». Alla molteplicità truccata della società dello spettacolo nessuno può veramente sfuggire, «sono, non sono quello ch’è in scena»; anche se occorre comunque resistere, sia pure «imbastardendo linguaggi, pensare». L’ibridazione praticata dal libro rovescia in senso critico quella manipolatoria dello spettacolo. Un tema ricorrente percorre le parti disperse come una metafora ossessiva: il fantasma del corpo in frammenti e l’elaborazione di figure che li ricompongano insieme: ma mostrandoli come tali, lucidamente, senza falsarie consolazioni. Frammenti o frantumi dell’io individuale colpito dai traumi personali, certo, ma anche poi dell’inconscio collettivo di una generazione, quella dell’autore, che dalla superfice euforica del berlusconismo è passata al disincanto scellerato del nuovo fascismo.
La crisi epilettica descritta nel libro è ben lontana dall’essere una pura notazione biografica e comunque non è ad essa attribuito alcun particolare allargamento della coscienza normale: è piuttosto un’esperienza emblematica, una profonda percezione del fondo oscuro, della minaccia della corporeità in frammenti, che è sì un vissuto patologico, ma che ci investe tutti, collettivamente, sottoposti come siamo all’incombere quanto meno immaginario della guerra e della malattia della nostra civiltà: è il «farsi irreale e sovrastarci di ogni cosa… Sono il tremore completo che d’improvviso, e per un tempo all’apparenza crescente, sconquassa ogni parete del corpo, frastagliando tutti i volumi percepiti dagli occhi, frammentando i vari suoni e persino il silenzio, prolungando la eco dei nostri pensieri, se un’ansia d’errore s’impossessa di noi. Sono niente che ciascuno non abbia» (41, 42). La stessa sessualità perde confini e contorni, diviene un liquido trasmutare oltre la dicotomia rassicurante del maschile e del femminile: «infine pareva liquefarsi, o anzi mutarsi in un ermafrodito che, nudo, si slabbrava in una trama di schegge», ricomparendo qui la metafora ossessiva della scomposizione (53), la quale si slarga a percezione cosmica, transitando dall’inconscio personale a quello collettivo: «il corpo gli s’era aperto in un ventaglio di crepe infinite… Era morto, consapevole di ridursi in frammenti…il mondo cedeva… tutto, intorno a me, si squaderna…l’intero creato sarebbe andato in frantumi» (55,56,57), in un preannuncio di tempo apocalittico.
Un altro tema dominante del libro, la morte o addirittura l’assassinio fantasmatico dei padri, si può leggere come chiave di volta di un’epoca che non ammette più transizione, eredità e tradizione dei saperi e dell’ethos, coinvolta in una drammatica crisi della presenza, a malapena coperta dalla banalità grottesca dei poteri attuali. In Elegia di un centone Tricomi compone in un montaggio di frammenti suoi e di altri scrittori una breve storia italiana a partire dal secondo Novecento, nel transito sempre più dissolutivo verso il trionfo del consumo e delle immagini di merce: disgregandosi la possibilità di un linguaggio che tramandi esperienza oltre la devastazione antropologica prima ancora che culturale del berlusconismo. Ovunque «un assurdo che assedia», un «gioco truccato», nella «latrina occidentale» (così nella poesia Rivoluzione, in casa mia). Il padre si configura continuamente come un fantasma, un’assenza che assilla il figlio, destinandolo a una decisione impossibile: «ne sento spesso la voce, non è» (14). Nella prima parte della narrazione Al terzo piano fra la polvere il narrante è costantemente dissociato fra un osservatore che gli si rivolge col tu e un io che cerca di ricomporre, senza riuscirci, i frammenti di se stesso, di fronte a un trauma fondativo della sua psiche: la morte, il suicidio, o anzi l’omicidio del padre, con l’inenarrabile senso di colpa che ne deriva:
«davvero io credo che potresti finire potrei pure finire in troppi pezzi sì, mille pezzi… qualche cosa non sai bene che cosa sta per farmi sta per farti scoppiare sì, straripare… non c’è niente proprio più niente che possa saldarli tutti saldarli in una sola figura in una vana figura che abbia il mio nome che conservi il tuo nome» (25-26).
O in forma più icastica: «e mi chiusi la porta dietro di sé»
«Un fatto però l’ho capito: che ho immaginato morto mio padre prima del tempo, che ho quasi agognato morto mio padre prima del tempo, che ho temuto morto mio padre prima del tempo, che mi sono condannato al senso di colpa prima del tempo per aver percepito morto mio padre prima del tempo» (240).
L’assoluta mancanza di stima per il padre, vittima e vittimista, dominato da «uno spudorato processo regressivo» (62), da «un autentico desiderio, si sarebbe detto, di reinfetazione» (71), fino all’indistinzione sessuale, «una donna incinta e con incontenibili voglie: sempre di più il padre prese ad apparirgli questo» (73), il non riconoscimento di alcuna transizione ereditaria, diviene psichicamente fantasma di morte, assassinio, rivolta cruenta e senso di colpa che si rovescia in irriconosciuta dipendenza, che poi invece diventa matura coscienza di una «reciproca abiezione…fino al punto che lui, sentendosi perso, mi vuole con sé, nella morte; fino al punto che io, vedendolo perso, mi voglio con lui, nella morte» e dunque anche di un disperato e intenso amore. Solo nel suicidio il padre riacquista dignità creaturale: questo stato d’animo rivela qualcosa dell’inconscio del collettivo del secondo Novecento, di una relazione tragica con la figura paterna, più che di una semplice “evaporazione”, nesso di dolore che oggi invece, non so se sia meglio o peggio, sta mutandosi in una spenta anoressica atonia, verso un padre «senza finestre né porte» (130). Il narrante è ancora sospeso tra fra il tragico rapporto al padre della modernità (freudiana, kafkiana, lacaniana…) e quello postmoderno asettico e anaffettivo, percepisce, in bilico, entrambe le cose e ha ancora la memoria per confrontare la tragedia edipica con l’anaffettività dell’evaporazione.
C’è «una frattura fra pensiero e parola» (35), uno sfaldarsi delle parole, tanto più nel vuoto sospeso in cui viviamo dopo l’era Covid, rapidamente trascorsa in una drôle de préguerre e nell’avanzare di nuovi fascismi: e la previsione politica del finale del libro è ormai sconcia evidenza: «un avveniristico neotribalismo con signori di orde primitive a renderci schiavi del loro godere» (242), un godimento che qui va inteso nel suo significato lacaniano più negativo, e cioè come illimitante pulsione di morte, rovesciata sull’altro, e fondamento di un imperialismo di nuovo conio, tanto più sciagurato in quanto si esibisce come connubio, vuoto di ogni ideologia, tra personalità autoritaria e anarcocapitalismo libertario (in apparenza). Un godimento mortifero sembra dominare l’apparenza di superficie euforica e isterica dell’Occidente, «simulazioni di vita sino alla morte; ossessioni di godimento sino allo schianto; prigioni di totale anarchia per marcire da schiavi» (160). Alcuni versi colgono la deriva delirante del tempo del Covid, quando i neofascisti novax in piazza assalivano una sede della CGL gridando “libertà, libertà”, le case farmaceutiche lucravano e negavano i vaccini ai paesi poveri del mondo, e una sorta di anarcoliberismo dislabbrava gli stessi concetti di destra e sinistra: «Soltanto ipnosi ed eccidi/quando l’accrocco è tutto perfetto/ tra – qui – autoritari deliqui/ e – là – tirannia libertaria» (166). Eppure c’è in Tricomi un disperato dovere di resistenza, eretto come un persuaso stare di fronte al nulla di senso che minaccia la storia, e forse l’esistenza in generale: non c’è dubbio che Tricomi parta da un’antropologia originariamente negativa, che però lo spinge a ulteriormente affermare quella solidarietà resistente, di cui è maestra la Ginestra di Leopardi: «non mi voglio piegare all’osceno, se dovesse arrivare o che già percepisco (244)…
Gli strumenti di comprensione, le categorie concettuali del Novecento non bastano più a comprendere il vuoto di tempo in cui viviamo, soprattutto non permettono di distinguere il futuro: «cianfrusaglie novecentesche che già quando iniziavo a cumularle, trent’anni fa, erano robaccia per ferravecchi, adesso non spiegano niente, nel nostro un po’ sconcio bailamme di civiltà» (244). Non si può però abbandonare la «speranza di rinverdire la manutenzione, ciascuno per come riesce a supporsene in grado, dell’essere insieme, dell’essere storia, del non imbestiarci» (230). Il compito della poesia in questo contesto è necessariamente umile: si limita a «qualche barlume da incatramare» (122), a recuperare «l’orma appena d’una fede perduta» (205). Ma di fronte al tempo sospeso indicato dal titolo, la poesia può comunque aprire uno spazio utopico, «strappare una forma all’informe accadere», «preservarle, le cose, per quanti verranno…fumeranno, le rovine del tempo, /di luce, l’aria screziando d’incerto» (230, 219). La poesia deve cogliere la percezione della fine di un ordine simbolico, quale stiamo vivendo, l’incertezza di questa crisi della presenza, senza temere di mostrare le macerie del tempo, che si accumulano di fronte allo sguardo dell’Angelus Novus di Klee, evocato da Benjamin nelle sue tesi sul concetto di storia: ma non perdendo quel bagliore di luci sia pur fioche e confuse che si ostinano a persistere aleggiando sopra queste rovine:
«Poi magari sarà vero, che lì tutto muore, ma intanto non resta, per vivere, che fare come se così non fosse, come se poi si potesse ricominciare da capo. Lo spazio della propria tenace dignità, della propria vera resistenza alla barbarie, della propria decenza individualmente politica, è questo “come se”» (200).
È con un accento pasoliniano che il poeta residuale riconosce la tragica bellezza del creato, da sempre incrinata da sospetto del nulla, ed ora minacciata anche da una sparizione storica: «E ovunque quanta, quanta bellezza. /Ignara incolta felice bellezza. /Stupita esatta tremante bellezza. /Ambita offesa tenace bellezza. /Mentita ingorda svanita bellezza» (211). Dove la bellezza è tremante perché internamente ferita dalla sua labilità, da un suo non arrestabile trascorrere e questo può essere un dato archetipico: ma storicamente oggi questo tremore è minacciato esso stesso di scomparsa perché lo spettacolo ci dà una bellezza offesa, mentita, svanita. Ma la bellezza è tale proprio in quanto percorsa dal dolore della caducità, che accetta e contrasta ad un tempo: mentre il godimento mortifero, ingordo, del discorso del capitale cancella la percezione della finitudine in favore di simulacri e di immagini che dovrebbero stimolare all’infinito il desiderio, nell’illusione immaginaria di una pseudoeternità, di una fantasmagoria di appagamento, che è solo apologia delle merci. Mentre la bellezza, la poesia, non può mai definirsi totale o assoluta, ma esatta nel cogliere il tremito del tempo, «se poco è poi quel che conta, se la polvere di ogni qui vivo si perde nell’aria per d’un tratto svanire, il nulla soltanto, Francesco, sa arrampicarsi, in ultimo, a perfezione. All’esattezza di un verso». Nel nutrirsi di questa esattezza, e precisione, nel rifiutare gli orpelli compiaciuti del Kitsch spettacolare, nella ferma descrizione del trauma, e nel tentativo di riscattarne la negatività, difendendo la creatura dalla morte, anche se il successo è impossibile, sta il dovere etico della poesia, e non in declamazioni retoriche o ideologiche.
«Perché un verso che offra presenza, dove c’era l’assenza, può, più di altri, non andare disperso, pur senza l’autore a cantarlo».
In una crisi della presenza, come quella che stiamo attraversando, la poesia può costituire una riparazione del trauma, una traccia di ricostituzione di un nuovo ordine simbolico, una difesa e un confronto di contro all’irruzione del Reale: e sopravvive perfino alla scomparsa dell’autore. La nostra condizione storica è espressa dai versi «non è più oggi, tirando le somme, non già ieri, non ancora domani», che esprime un vuoto delle dimensioni temporali, che esistono svanenti e trapassanti: e cioè come incerta prospezione immaginaria e non come progetto e memoria. Ad esse sembra che solo la poesia possa dare una qualche espressione simbolica.
È a un amico morente che si riferiscono queste parole, in cui risuona la tragedia dell’esistere: «vorresti gridare, anzi gridi, nel vortice muto. Non senti levarsi le urla, né altri le ascolta. Insisti più forte, sulle corde vocali, ma sei risucchiato in un’afona spugna» (224); questo viene certo detto di una singola morte reale, per un amico perduto e la sua parola ammutolita, ma forse vale pure per altre morti, quelle che avvengono nelle nostre guerre e nei nostri mari, perché anche qui si levano urla che nessuno può o vuole ascoltare. Il verso che offre presenza
«si nutre di ciò che trascorre, si vuole precario come quello che afferra mentre scompare, non cerca rimedi contro l’oblio, sembra allora non sappia durare, e invece magari resiste, anche un attimo solo di un’era in rovina, quale orma dell’orma di quant’è svanito».
Il trascorrimento dell’esistenza è un apparire sparendo, transito di forme, e la poesia oggi, anche nella scansione ritmica e nelle figure, deve mostrarlo, perché è il tratto di un’intera epoca storica, la quale, come ha detto al suo folgorante modo Hölderlin, diviene nel trapassare, e allora si capisce che il rimando agli antichi ordini e alle antiche scansioni si mostri come traccia sparente, citazione sviata (détournée), eppure resistente perché il passato non resti interamente muto, e l’oggetto desueto oltre che mostrare la fine di un mondo ne permetta anche una salvazione simbolica; «addirittura, i canti di Tasha e di Wolfi ricalcheranno, da un certo punto in poi, lo scheletro della terzina dantesca o incatenata» (155), e in molte poesie del libro riecheggia il suono di incurvate quartine in rima, frammenti di sonetto o di poema.
«Traccia sommessa che alcuni e qualcosa, prima del crollo, non hanno trasceso, nascosti, la propria immanenza. L’hanno vissuta» (232).
Il verso «può essere leggero come le nuvole ma perché sa e proviene dalla durezza, dalla fatica, dal dolore che non ha voce per dirsi» (Scarabicchi). Traccia dunque labile eppure fondamentale, se rivela, ricorda e in parte riscatta il trauma vissuto, sporge, anche solo di poco, oltre di esso, e ce lo
mostra
(come se fosse)
redento.
Nota sul padre. Come altrove ha sottolineato lo stesso Tricomi[2], l’evaporazione del padre non si identifica affatto con quella del patriarcato, che anzi si ripresenta oggi in forme identitarie, fondamentaliste e razziste, coesiste in un ibrido politico e psichico con l’individualismo neoliberista. Né a mitigarne la violenza vale il fatto che i partiti neofascisti e grandi istituzioni economiche siano talvolta diretti da donne dal duro volto autoritario, quasi che il sesso biologico potesse di per sé modificare la loro appartenenza psichica alla tradizione del dominio e all’impersonalità astratta del capitalismo. Lacan parla di «evaporation du père» in una nota del 1968, che però va letta per intera, per comprenderne il contesto e il valore politico: «Credo che, nella nostra epoca, la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del padre, potremmo metterla nella rubrica e sotto il titolo generale della segregazione. Noi crediamo che l’universalismo, la comunicazione della nostra civiltà omogeinizzi i rapporti tra gli uomini. Penso invece che ciò che caratterizza il nostro secolo…è una segregazione ramificata, rafforzata, stratificata a tutti i livelli, che non fa altro che moltiplicare barriere».
Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi[3], Lacan ha sempre più distinto un «discorso del capitalista» dal tradizionale «discorso del padrone». Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita «ingiunzione al godimento», caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento. Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del 68 e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, a parere di Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un «padrone repressivo» nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico.
Il «discorso del padrone» è un tipo di legame sociale e di potere ancora fondato sulla sua incarnazione personale. Lacan ricorda il rapporto tra il padrone e lo schiavo, che si appropria del suo sapere, nel dialogo Menone di Platone, la relazione tra il servo e il signore feudale, la dialettica servo-padrone così come è descritta da Hegel nella Fenomenologia. In un certo senso anche il primo capitalismo fino all’Ottocento mantiene questo carattere concreto del potere, configurato in una persona a cui ci si sottomette come a un buon padre o che si odia come un despota. Passando tuttavia dal regime formale al dominio reale del capitale, il luogo del padrone si spersonalizza: non troveremo più in questo posto simbolico un corpo di carne e di ossa, ma la scheletrita astrazione del capitale, che diviene il vero unico invisibile soggetto del movimento sociale; e se figure ancora compaiono sulla scena, esse sono agite dall’impersonale moto, sono in realtà maschere di capitale, la loro autonomia è un gioco di apparenze. Tale è il discorso del capitalista: più che di evaporazione del padre si può allora parlare di processo di astrazione crescente che sostituisce e si incorpora quella che un tempo era la sua funzione personale edipica.
A compenso di questa indigeribile astrazione sorgono, contraddittori in apparenza ma in realtà complementari i friabili capi neofascisti attuali, sollecitando e calamitando in forma perversa l’emotività che non trova più espressione nell’ordine simbolico; l’imago materna subisce una involuzione parallela a quella paterna, divenendo amalgama colloso, e perdendo i suoi tratti generativi e protettivi. Non è che il matriarcato si sostituisca al nome del padre: è che entrambi decadono in una reciproca perversione.
Va detto che il primo a notare la sostituzione del padre edipico con queste potenze arcaiche e preedipiche è stato Adorno, nei suoi studi sulla personalità autoritaria e nei Minima Moralia.
Il tema Di un altro congedo[4] è il lavoro del lutto e il suo rapporto con la morte e con la memoria. Nel nascere e nel morire non c’è niente di naturale, almeno per noi umani che siamo consapevoli dei due termini, che non chiediamo di nascere e per cui è del tutto assurdo morire. In verità la nostra vita appare come un incidente nella storia del cosmo, o forse il cosmo stesso è un incidente tra l’essere e il nulla,
è uno sbavo nel rammendo,
il nascere, appena.
È un inciampo del corsivo,
perdere fiato, battito, luce,
nascere è appena una slabbratura nel tessuto del mondo,
che di noi poco si cura,
quasi inavvertibile,
mentre morire interrompe l’abitudine del vivere, il corsivo, lo scorrere inclinato che ci è divenuto consustanziale, ovvio, e se si arresta appare dunque soggetto ad un inspiegabile inciampo, un ostacolo casuale e immotivato e immotivabile, forse il corsivo interrotto è quello delle lettere del nostro nome che talvolta si cuce sul tessuto delle maglie e delle camice, ed ora è perduto,
finché siamo vivi ci sembra bello, ci rallegra che felice schiumi sudore, /il corpo, dilatando i tessuti, che marchi così la sua presenza vitale, ritorna notiamo continua la metafora del tessuto,
nascere è un rammendo,
vivere una dilatazione della stoffa dell’essere,
ma cosa lasciamo noi di veramente nostro sul tessuto della vita, quale figura ricamiamo, quale segno del nostro passaggio e del nostro uso, che riveli ciò che siamo stati? Ebbene poco, poco più di un filo sbeccato,
Consolarsi non vale
che ghiacci una smorfia,
sbecchi un ordito,
il tempo di ognuno, sul raso.
Il nostro tempo slabbra appena il tessuto, il raso, ricama appena una smorfia, ghiacciata perché solidifica in una figura senza futuro una vita che era in effetti fluire e mutare, prospettiva e ricordo,
poi qui la poesia subisce una cesura e una svolta, dalle considerazioni di ordine generale si passa una situazione concreta,
La veglia ha scolpito l’assenza
Si parla di qualcuno che veglia una persona amata e scomparsa, e in questo la perdita gli sembra dura, rigida, immota, immodificabile, inassorbibile, come una pietra scolpita e insensata,
non è subito discernimento
ma dolore quand’è schiava energia
meccanico schiudersi addosso.
È diniego o allucinazione,
l’orma slabbrata sopra il respiro.
In tale stato il dolore è irredimibile, incomprensibile, diniego perché la morte è rifiutata come impossibile, e dunque la persona perduta è presente come allucinazione, compare come fantasma vivente, un’orma slabbrata che si identifica con il proprio respiro, il non essere è acerbamente rifiutato, e piuttosto che ammetterlo si sceglie il delirio, meglio il delirio, si potrebbe dire, che il vuoto e la mancanza assoluta, ma in realtà non è così, perché l’allucinazione impedisce che la mancanza si trasformi in memoria, e la persona perduta continui a vivere come figura interna dell’anima, e come tale se ne propaghi il ricordo, il lavoro del lutto è in questa trasformazione dell’allucinazione in memoria, e però non ha fretta:
è per caso se ti lasci scostare
dalla trama delle riapparizioni,
le riapparizioni non sono memoria, sono anzi il contrario di essa, lasciano il perduto all’esterno di sé invece che nella più profonda sopravvivenza interiore,
poi accade qualcosa una sera, un’incomoda sera, il delirio allucinatorio si arresta, il combaciare con una presenza irreale si allenta,
Il calco della voce dà tregua,
l’odore non stinge intero il palato,
non s’accosta un passo ad un altro
nella febbre dell’immaginario
arrancare tra vecchie salite:
non si aderisce più interamente alla voce all’odore perduti, non si fantasma la loro impossibile presenza, nell’immaginario arrancare, nella ripetizione di gesti passati, che si vorrebbe ripetendo eternare presenti, c’è un distacco dall’adesione immediata allucinatoria, che permette l’interiorità della memoria, compare il ricordo di un viaggio di un tempo felice,
fuori del Duomo; laggiù si va in Grecia
sull’acqua del porto scaglie di sole.
Non è solo un ricordo
è l’apertura di uno spazio e di una luminosità
l’alterità del mare
la lontananza di isole e onde screziate
e a questo punto l’immagine di colei che è scomparsa riappare, non più come fantasma, ma come grato ricordo, profondamente immerso nel cuore e nella psiche, interiorizzato,
Ed è lì che la vedi, che la rivedi,
in una ruga malcerta del vuoto,
dentro i contorni di qualche suo gesto,
mentre non chiama, non vive e non è:
è una presenza certo, ma non più incombente col malessere di un reale fittizio, riconosciuta nella sua assenza dalla realtà e nel suo esistere nel fondo interiore, non chiama non vive non è, ma proprio per questo riconoscimento nel vuoto d’essere, malcerto, è possibile conservarne l’essenza in una visione intima, che nulla può cancellare, è una
privazione finalmente assoluta
che arresa può farti annaspare
è l’ammissione, il riconoscimento della perdita, ma è frammista l’angoscia al sollievo, perché il delirio della denegazione allucinatoria della morte lascia ora il posto al rito intimo e al dialogo profondo con l’immagine interna, in cui lei sopravvive per sempre,
in un capogiro, quindi una fitta
di colma luminescenza cieca.
Fermiamoci un attimo su quest’ultimo verso, che possiede un raro spessore di significato: perché – indipendentemente da qualsiasi fede positiva – mi ha ricordato la notte oscura di San Giovanni della Croce: «La sua chiarità mai non s’oscura /e so che ogni luce in lei s’accende, /sebbene sia notte». Questa coincidenza di luce e cecità, di vuota assenza che si trasforma in pienezza dell’intuizione intima, è trasposta nella poesia di Tricomi dal teologico nel quotidiano esistere, ma conserva l’intensità dell’esperienza in cui la luminescenza è colma e cieca ad un tempo, un paradosso che si configura qui in quella che Benjamin avrebbe chiamato una “illuminazione profana”, la simultaneità di un’assenza che pone l’amata, perché posta su un piano diverso dal reale, sottratta al trascorrere, in una presenza spirituale di ordine superiore, esperienza che come tale dura, non può durare che un attimo solo. Poi è trascorso. / La stanza, di nuovo, ora è ferma, il lavoro del lutto è giunto a compimento,
Scopri che adesso in silenzio principia
Il grato ricatto della memoria
che ci interroga e interrogherà per sempre, ma è grato questo “ricatto”, è una possessione divenuta amica, libera da ogni colpa e da ogni negazione, oltre la fissità dell’Io, metamorfosi dell’amore in memoria che non muore.
Nota sul lutto. Secondo Freud l’avversione ad ammettere la perdita di un oggetto amato «può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria del desiderio…l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata…Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all’oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi»[5].
Secondo M. Klein, il lutto ci riporta nella “posizione depressiva” che abbiamo sperimentato nella prima infanzia, quando «mosso dalle angosce depressive (timore della distruzione dell’oggetto amato e timore della distruzione di se stesso) l’Io crea immagini fantastiche onnipotenti e violente volte in parte a controllare e dominare gli oggetti ‘cattivi’, pericolosi, e in parte a salvare e restaurare quelli amati»[6]. L’idealizzazione estrema coincide qui con ciò che la Klein chiama «il diniego»: «Senza un diniego parziale e temporaneo della realtà psichica l’Io non potrebbe sopportare la catastrofe da cui si sente minacciato quando la posizione depressiva giunge al culmine»[7]. La perdita che subiamo in un lutto presente riattiva anche quella originaria che, in modo più o meno grave abbiamo sentito nell’infanzia, ed è per questo che ciò che è attuale può portare a una regressione e disgregazione dell’Io. Il “lavoro” del lutto agisce per cercare di attenuare e integrare questa minaccia: «Ogni volta che si prova la perdita di una persona amata si sente come se anche tali oggetti [gli oggetti buoni interiorizzati, sostanzialmente i genitori amati] venissero a mancare, fossero distrutti. Si ha quindi la riattivazione dell’antica posizione depressiva, originata a suo tempo dalle modalità naturali dell’allattamento, dalla situazione specifica dello svezzamento, dalla situazione edipica e da ogni altra fonte del genere e, insieme ad essa, delle angosce, del senso di colpa, dei sentimenti di perdita e cordoglio»[8], sentimenti la cui causa resta in certa misura inconscia e di cui si stenta a cogliere il nesso con la situazione attuale, che non sempre sembrerebbe giustificarli. Nel lavoro del lutto «si deve soffrire lo spasimo di ricostruire un mondo interiore che si sente in pericolo di disfacimento e di crollo. Nel lutto normale si riattivano anche le antiche angosce psicotiche»[9]. Nel lavoro del lutto compiuto, «l’individuo stabilisce dentro di sé l’oggetto d’amore perduto… ripete l’acquisizione di ciò che già aveva conseguito nell’infanzia»[10], e che ora era di nuovo minacciato di disgregazione.
Note
[1] Marcos y Marcos, 2024. Numeri di pagina delle citazioni tra parentesi in corpo testo.
[2] “Padre nostro, che sei il capitale”, in AA. VV., Psicoanalisi senza dio. Per una critica del nuovo discorso religioso, a cura di Francesco Luigi Clemente, Franco Lolli, Cristian Muscelli, Antonio Tricomi, Poiesis, Alberobello, 2021.
[3] Mi riferisco soprattutto al seminario XVI (J. Lacan, Da un Altro all’altro.1968-1969, Torino, Einaudi, 2019), al seminario XVII (Il rovescio della psicanalisi.1969-1970, Torino, Einaudi, 2001), alla conferenza Du discours psychanalitique, (in “Lacan in Italia”, Roma, La Salamandra, 1978), al testo Televisione (in J. Lacan, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 505 e sgg).
[4] Nel libro a pp. 143-144. Nel commento che segue i passi in corsivo appartengono alla poesia.
[5] S.Freud, “Lutto e malinconia”, in Opere complete, vol. 8, Bollati-Boringhieri, Torino, 2013, ed. digitale, pos. 4720.
[6] M. Klein, “Lutto e stati maniaco-depressivi”, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, p. 331.
[7] Ivi, p. 332.
[8] Ivi, p. 336.
[9] Ivi, pp. 336-337.
[10] Ivi, p. 346.