di Marco Fontana

 

È utile qualificare come “fascista” la nuova faccia della reazione odierna? Non propriamente, spiega Alberto Toscano in Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (DeriveApprodi, 2024), un libro che tenta di pensare il fascismo come “processo e potenziale” che avanza rispondendo, a modo suo, a uno scenario di crisi. Per capire se Trump stia portando gli Stati Uniti verso un nuovo fascismo non ha senso riflettere in maniera analogica rispetto al passato, facendo paragoni con le tappe che hanno portato al ventennio o all’ascesa nazista. È più sensato, secondo Toscano, cessare di considerare il fenomeno nella sua straordinarietà e legarlo sulla lunga durata alla dominazione capitalista e ai suoi funzionamenti. Il problema del fascismo, ha detto Karl Polanyi, è vecchio quanto il capitalismo: per questo occorre guardare al modo in cui reagisce a scenari di crisi e al modo in cui, come tutti gli altri fenomeni, varia al variare del contesto socio-economico.

 

Lasciare la strada dell’analogia storica per prendere quella della disanalogia, per Toscano significa misurare l’articolazione del fascismo su livelli temporali diversi, cioè sul suo collocarsi dentro e fuori dalla contemporaneità (con Ernst Bloch) mobilitando progetti nostalgici e nazionalisti di palingenesi. Il tipico discorso fascista tende a rifarsi a un passato eroico e ad aspirare ad un futuro non realizzato, svuotando di senso ogni concreta storicità e trasformandola in una “pappa”, come ha detto Furio Jesi, modellabile a seconda del bisogno[1]. Di questa continua operazione di ri-significazione del passato, di cui Mimmo Cangiano ha recentemente spiegato i funzionamenti[2], la cultura di destra fa il suo marchio speciale presentandosi come rigeneratrice sociale e come baluardo di fronte ai colpi disgreganti della modernità. Oggi lo vediamo nel panico che il tardo fascismo manifesta nei confronti dell’ideologia del gender e della sostituzione etnica che porta il nostro governo, ad esempio, a inseguire i trafficanti di migranti su tutto er globbo terracqueo [sic]. Salvo che poi, come dimostra il caso Almasri, non è così; così come non c’è nulla di rigenerativo nelle promesse trumpiane di protezione delle classi popolari, perché la difesa dei maggiorenti della Silicon Valley non può accompagnarsi a quella di chi per loro lavora[3].  Ogni progetto populista di cambiamento sociale, spiega infatti Toscano, diventa una “parodia del cambiamento”, dato che il (falso) progressismo della destra promuove un egualitarismo repressivo e mai emancipatorio. Il fascismo, che non ragiona in termini di totalità, quando si rivolge a una “classe” propone discorsi identitari che trasmettono un predicato razziale. Non ha senso, allora, parlare da sinistra della “fine della classe operaia” se la si imputa all’elettore bianco, perché quella “classe” non esiste realmente come corpo collettivo ma è solo un «simulacro di classe». In questo modo non si dà il primato al ruolo che quella classe gioca realmente nella catena di produzione ma si finisce per conferirlo alla bianchezza. Viceversa, per Toscano la classe va pensata come basilare anticorpo a una politica di sfruttamento e va slegata dal contenuto identitario che ne inficia la posizionalità.

 

Per mettersi in contrasto a queste logiche, Toscano trova un altro anticorpo essenziale sul piano critico nel vasto archivio del pensiero antifascista del XX secolo. Il secondo capitolo di Tardo fascismo è una discesa nel pensiero radicale nero, risorsa indispensabile per ragionare in senso differenziale sul fascismo e sui meccanismi di sur-sfruttamento (Claudia Jones) del capitalismo razziale. Nelle riflessioni e nelle esperienze di George Jackson, Angela Davis e Cedric J. Robinson, Toscano trova un repertorio utile a uscire dall’impasse del pensiero analogico e a sfatare il mito dell’antitesi tra dispotismo fascista e democrazia liberale. Il legame tra nazionalismo e capitalismo illustra infatti sulla lunga durata le radici violente del colonialismo attivo in forme di fascismo prima del fascismo. Guardare al pensiero nero serve a inserire il nostro presente all’interno di un arco temporale segnato con ricorsività dal fascismo razziale. Un fascismo quindi da intendere come processo, suggerisce Angela Davis, cioè come una forza incipiente posta a difesa di una supremazia bianca che agisce in maniera “preventiva” esautorando un’intera comunità dal sistema dei diritti. Robinson, in Black Marxism[4], spiegava che il fascismo per i neri non è un’aberrazione storica del passato, ma una concreta e attiva disciplina sociale di dominio: ecco perché serve uscire dall’analogia e ragionare sul fascismo potenziale insito nelle dinamiche statali. Seguendo questa via, Toscano invita ad osservare le modalità con le quali uno Stato afferma pratiche razziali e sottrae diritti mediante azioni “invisibili” che si riversano poi sulle maggioranze. Da questo punto di vista, il Ddl Sicurezza è per noi più pericoloso del movimentismo episodico dell’estrema destra perché modifica strutturalmente la cosa pubblica. Spiega Toscano, infatti, che le democrazie liberali odierne non fanno automaticamente da argine contro il fascismo incipiente, ma possono servirsi del potenziale congenito che ha il capitalismo nella gestione violenta delle crisi. Una violenza che, ai nostri giorni, è favorita dall’assenso concesso a pratiche economiche neoliberali che, percepite come ordo naturalis, conducono senza rimedi al graduale smantellamento dello stato sociale. Il risultato è il formarsi di quello che Toscano, via Gilmore, chiama lo «Stato anti-Stato», cioè una forma di laissez-faire coercitivo (niente affatto neutrale sul piano politico) che radicalizza la supremazia delle classi dominanti (l’ultimo insediamento di Trump ce ne dice qualcosa). Tutto ciò dà il la a un’estrema destra che si muove ambiguamente tra il bisogno di uno Stato forte a difesa di una “razza” e un antistatalismo che infine lascia indenne un capitalismo privo di ogni direzione ideologica. Lo si vede bene, ad esempio, nella promessa del mantenimento di un’“italianità” coesa e il contemporaneo avvallamento all’ingresso dei capitali stranieri che svuota le nostre città distruggendo il tessuto urbano – a conferma che in questo scenario l’unica comunità reale, come aveva già detto Marx nei Grundrisse, è il denaro. Da qui sorge un nuovo fascismo che è tanto una reazione contro gli effetti del neoliberalismo (lo “sfaldamento” organico di cui ha timore la cultura di destra) quanto un’identificazione con le pratiche coercitive presenti nello Stato anti-Stato: «questo tardo fascismo, che arriva dopo le inutili profezie sulla neutralizzazione neoliberale del politico, è una sorta di affermazione di secondo ordine o di riflesso del rovescio autoritario del neoliberalismo» (85).

 

Quello descritto da Toscano è, in definitiva, un fenomeno ricorsivo che cattura malesseri diffusi e che si presenta sempre come una contro-rivoluzione senza rivoluzione. Ecco perché ogni tentativo di politicizzazione (falsamente) promosso dal tardo fascismo si arena nell’anti-politico: lo vediamo non solo nella difesa di un simulacro della classe operaia, ma anche nella difesa di un “antifemminismo femminile” che agisce normativamente sancendo ulteriori forme di diseguaglianza. Il tardo fascismo è quindi da intendersi come un processo che perpetua forme di dominio e violenze ed emerge in tempi di crisi a cui risponde in maniera anti-emancipatoria. La prospettiva da cui Toscano guarda a questo fenomeno – la disanalogia e la potenzialità proiettata sulla lunga durata – risulta funzionante perché adotta la strategia di quel “manichino” delle Tesi sul concetto di storia che vinceva sempre a scacchi grazie alla sua contromosse. Quella contromossa, come ha detto Benjamin, è il “materialismo storico” che serve a capire che, in questo processo, l’unica cosa che continua a salvarsi, al di là di ogni revanscismo o populismo autoritario, è il capitalismo, un capitalismo così forte di fronte alle crisi da riuscire a «salvare il capitalismo dal capitalismo» (171). Per questo – chiude Toscano con Horkheimer – va compreso che «chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe tacere anche sull’antifascismo».

Note

 

[1] F. Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Roma, Nottetempo, 2011.

[2] M. Cangiano, Culture di destra e società di massa. Europa 1870-1903, Milano, Nottetempo, 2022 p. 103.

[3] Ne ha parlato di recente Luca Celada: https://centroriformastato.it/il-piano-di-silicon-valley-per-la-tecno-repubblica/.

[4] C.J. Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera (1983), Roma, Alegre, 2023.

 

[Immagine: Angela Davis].

1 thought on “Tardo fascismo

  1. Articolo di rara oscurità e pieno di sciocchezze, ereditate dal cumulo di sciocchezze della tradizione dottrinale e politica del marxismo, fatte proprie senza spirito critico e con un linguaggio che è il «fantasma» di quello marxista. Rispondere punto per punto sarebbe troppo lungo. Mi limito ad alcune perle.
    1) «Il problema del fascismo, ha detto Karl Polanyi, è vecchio quanto il capitalismo». Non so se storicamente, nella nostra profonda preistoria, sia nato prima il «fascismo» o prima il «capitalismo», ma so che il fascismo è un tipo di regime politico e sociale che rientra nel genere della dittatura, cioè dei regimi antidemocratici che non riconoscono ai cittadini diritti di libertà politica e civile. Il capitalismo è invece una forma di produzione e riproduzione delle risorse economiche che è trasversale a ogni tipo di regime. Le uniche forme sociali davvero non-capitalistiche sono le società prive di risparmio, di accumulazione e di investimenti, la cui economia è di pura sopravvivenza. In sostanza, si tratta delle società della lontanissima preistoria o, oggi, quelle residue dei pigmei boscimani, degli aborigeni australiani, dei popoli dell’Amazzonia privi di contatti e rapporti economici con le «società moderne».
    Per cui non capisco, e non ho mai capito pur leggendo centinaia di libri di economia e le opere complete di Marx, Lenin e di altri «anticapitalisti», che cosa vuol dire essere anticapitalisti. Capisco perfettamente che cosa voglia dire lottare per forme capitalistiche diverse, eliminando i tratti più speculativi, di rapina, di parassitismo, ma non cosa vuol dire una «società non capitalistica». I regimi che si sono ispirati, o che si ispirano ancora oggi, al marxismo e all’anticapitalismo, come quello sovietico, che cosa hanno fatto? Hanno esasperato il capitalismo, facendone un monopolio in mano allo Stato, di fatto in mano a una ristretta oligarchia. Così facendo hanno costruito regimi capitalistici peggiori di quelli del capitalismo liberale, sotto ogni profilo. Hanno represso libertà e diritti in misura maggiore, hanno sfruttato operai e cittadini in misura maggiore; hanno dato ai loro popoli una qualità di vita inferiore; hanno promesso il paradiso e dato l’inferno. Non per nulla i socialisti e gli anarchici massacrati da Lenin e da Stalin hanno definito, già nei primi anni dopo il 1917, il bolscevismo «fascismo rosso» e Lenin il «duce del fascismo rosso».
    Nessuna società che si è richiamata al marxismo ha costruito un regime «socialista», e nemmeno democratico, nemmeno imperfettamente democratico. Si tratta sempre e solo di regimi totalitari o tendenti al totalitarismo: Russia, Cina, Corea del Nord, la Cambogia di Pol Pot, la Cuba di Castra e suoi eredi ecc. ecc. Nessuna democrazia, nessuna forma di socialismo.
    Ed è logico. Marx è stato uno dei peggiori nemici del socialismo e del comunismo, perché ha trasformato una istanza etica che tendeva di realizzarsi in forma comunitaria autonoma, o come riformismo delle società in cui viveva, in una dottrina che non tratta del socialismo ma della strategia rivoluzionaria per conquistare il potere, riducendo il socialismo a mera bandiera propagandistica. Però, conquistato il potere in quel modo, non è mai stato usato per costruire il socialismo ma solo e sempre per costruire delle tirannie. Non si tratta di degenerazione, ma di anima del marxismo, dottrina che non contempla la libertà e la democrazia. Già i contemporanei di Marx, da più punti di vista, avevano previsto che il comunismo marxismo, se e dove fosse stato vittorioso, avrebbe prodotto solo tirannie. Lo hanno previsto gli anarchici, democratici come Mazzini e tanti liberali che, nell’Europa di quel tempo, erano ancora portatori di istanze considerate «rivoluzionarie».
    La sinistra italiana (e non solo), ancora oggi, si richiama troppo spesso a quelle forme di «fascismo rosso», rivelandosi non «antifascista», ma solo contro il »fascismo nero», favorevole però ad altre forme di fascismo. Ciò porta, anche a livello di studi storici e di studi teorici di dottrina politica, alla falsificazione sistematica della realtà, o per mala fede, o proprio per incapacità di comprenderla. Che fiducia può avere un socialista libertario come me in chi si richiama a Lenin o a Castro, massacratori di socialisti? Che fiducia può avere in chi, pur ormai lontano dal marxismo e dal bolscevismo, come il Pd italiano, è immerso fino al collo nel capitalismo di Stato, nonostante tutte le smentite della storia, e nelle sue conseguenze in termini di assistenzialismo parassitario, di burocratizzazione, di inefficienza dei servizi nonostante gli alti costi fiscali, ecc. ecc.?
    Oggi di socialismo vero e proprio non parla più nessuno, perché il marxismo lo ha cancellato dalla storia. L’unica comunità comunista esistente in Italia è infatti Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini, comunità comunista che si ispira al Vangelo e alle comunità cristiane del primo secolo. Il mondo laico, non religioso, non parla più di socialismo perché non ha più una dottrina etica, politica e sociale socialista. Chi parla di «socialismo» intende il falso socialismo del capitalismo di Stato o del riformismo socialdemocratico, che è comunque basato, anche nei casi migliori, sulla liberaldemocrazia e sul capitalismo non (o meno) speculativo.
    2) «con Horkheimer – va compreso che “chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe tacere anche sull’antifascismo”». Altra enorme sciocchezza. Io sono disposto a parlare di antifascismo, di anti ogni ideologia e regime non democratico; e sono disposto a parlare di riforma del capitalismo, di gestione sociale dell’economia, ma non di «anticapitalismo» senza specificazione perché non capisco che cosa vuol dire.
    Traviati dall’enorme forza propagandistica delle sciocchezze “scientifiche” di Marx, si scambia per anticapitalismo il problema della conquista e dell’esercizio del potere, nucleo forte, cuore della pratica politica. Non per nulla il marxismo non ha una dottrina dello Stato e del potere e, nella sua pratica, ha oscillato fra affermazioni teoriche sull’estinzione dello Stato e la pratica reale della costruzione di Stati Leviatano. Ancora oggi la sinistra non è favorevole alla distribuzione del potere, alla socializzazione del potere, ma alla sua centralizzazione nello statalismo. In coerenza con l’articolo uno della Costituzione, che dice che la sovranità appartiene al popolo, per smentirsi subito affermando «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ma la Costituzione non l’attribuisce al popolo, bensì ai partiti e alle istituzioni create dai partiti. Dunque non sovranità popolare, ma una forma molto limitata di democrazia partitocratica. Anche questa è una eredità del passato e in particolare del fascismo del Ventennio, ma gli «antifascisti» del fascismo rosso non l’hanno mai contestata e non hanno mai chiesto l’applicazione verace del principio di «sovranità popolare», che può venire solo da una applicazione reale del principio di sussidiarietà dal basso e dalla socializzazione e distribuzione del potere politico ed economico in forme cooperative e federalistiche, di ampio federalismo dal basso, a partire dai comuni.
    3) Un accenno, infine, al razzismo degli antirazzisti che oppongono alla «supremazia bianca» una «supremazia di colore», con tutte le assurde conseguenze che ne derivano, fra cui le follie del «politicamente corretto». Chi si aspetta che nei Paesi capitalisti (e con ciò, erroneamente, intendono solo i Paesi occidentali a regime liberaldemocratico, mentre dovrebbero includervi con più ragione Paesi come la Russia, la Cina, Cuba ecc.) si realizzi una qualche rivoluzione di marca leninista o fac-simile, basata sulla «lotta di classe», non più della classe operaia ma della classe generica degli emarginati, dei poveri, degli immigrati, dimostra di non avere capito nulla e di avere idee perverse decisamente antisocialiste e anche antidemocratiche. La via della emancipazione, della giustizia e della maggiore uguaglianza sociale è altra e molto diversa. Quella prospettata dagli antifascisti fascisti e dagli antirazzisti razzisti rassomiglia molto di più alla solita lotta fra bande per la spartizione del bottino. In questo, Marx e Lenin e Castro possono essere utili. Ma che c’entra con la libertà, con i diritti, con la giustizia, col socialismo?

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