di Lorenzo Graziani

 

Qualche settimana fa è venuta a mancare una mia prozia. A gennaio avrebbe compiuto 100 anni. Quando scompare una persona così longeva, il naturale cordoglio per la perdita di una persona cara difficilmente si accompagna al dolore che nasce dalla sensazione di una vita interrotta prematuramente. Forse proprio a causa di questo leggero distacco, i riti di commiato – funerale, inumazione ecc. – lasciano trasparire con maggiore nitidezza la loro ordinaria convenzionalità. O meglio, è ancora più evidente il contrasto tra la presunta solennità delle cerimonie e la cornice di trivialità in cui si inseriscono. Durante il rito delle esequie pensavo – tra le altre cose e in ordine sparso – al fatto che entro in Chiesa solo per i funerali, ai parenti che non vedo mai, a cosa avrei mangiato a pranzo, alle scarpe da ginnastica logorate del prete indiano. Per di più, ogni volta che incrociavo altri sguardi, avevo la sensazione di non essere l’unico a errare con la mente in zone poco intonate alla serietà della circostanza. Il momento dell’inumazione è stato il culmine. La mia attenzione era calamitata dai becchini che mal si coordinavano per calare la bara nella fossa, mentre le frasi e i gesti usuali – condoglianze, frasi di circostanza – manifestavano tutta la loro meccanicità, completamente svuotati di senso: ipocrisie che non riescono a celare la natura di un dovere da sbrigare prima di passare ad altre scocciature burocratiche.

 

Forse sono troppo cinico, e quindi il mio giudizio è troppo drastico. Molte persone ritengono i propri gesti autentici e profondamente significativi. Ma di certo nei funerali, come in tutti gli altri eventi che segnano tappe rilevanti della nostra esistenza, le cose importanti rivelano una parte di banalità nella quale inevitabilmente s’immergono.

Tale incongruenza mi sembra centrale in Storie di un secolo ulteriore, l’ultimo libro di prose di Andrea Inglese. Gli sforzi di un professore di provincia di apparire dignitoso di fronte ai suoi studenti sono traditi dalla sua patta sempre aperta; al colloquio di lavoro per un posto in una distopica azienda impegnata a selezionare le emozioni dei clienti, individuando quelle due o tre “che meglio si attagliano alle strategie di produzione e diffusione della […] ditta”, il candidato si concentra sull’assumere la giusta quantità di vitamine del gruppo B e sul trovare una scusa credibile per giustificare la perdita del monopattino elettrico prestato dallo zio; un bambino che è riuscito finalmente a conversare con un pesce siluro non riesce a raccontare la sua esperienza perché il padre è troppo impegnato a seguire le ennesime elezioni e la sorella non alza mai gli occhi dal telefonino in cui chatta con le amiche. È così che la voce si confonde e dissolve in un brusio insignificante.

 

Sono stati ritrovati dei cadaveri – sebbene alcuni, pur rimanendo indubbiamente cadaveri, ancora respirino. Perché si trovano in questa condizione? Non sono stati ammazzati. Era forse un suicidio filosofico dovuto all’angoscia esistenziale o allo “schifo della vita”? Di solito la gente così lascia un biglietto. È un’opzione da escludere. I più astuti, però, lo hanno capito. Visto il mondo in cui hanno vissuto, ammazzarsi per questi qui è stato solo “un modo come un altro di portarsi avanti”, di “perfezionarsi nella governance della propria vita”:        “si sono proprio ammazzati, ma con un atteggiamento, diciamo, costruttivo”. L’evento meraviglioso – dei cadaveri che ancora respirano – genera trivialità appartenenti a universi del discorso eterogenei: la conversazione da funerale si mescola al linguaggio motivazionale educativo-aziendale. Ed è proprio l’attrito tra i due universi del discorso ad accendere il significato simbolico dell’evento: “Sono morti per darsi daffare, per non restare impotenti di fronte a tutto questo […]. Hanno affrontato le difficoltà di petto, e in modo radicale. E hanno portato a casa molto. Molto tranne la pelle”.

 

Mostri quotidiani sono pure gli ospiti dell’“asilo municipale” che giungono “da ogni dove, da ogni abbandono e persecuzione”, “magri come sciacalli, ripugnanti come insetti”. In questi esseri – che vanno sostenuti a “cioccolata calda” e “frasi bisbigliate” – la figura del bambino in età prescolare si (con)fonde con quella del migrante appena giunto al centro profughi. La voce narrante appartiene a uno degli operatori di questa comunità e attraverso di essa emergono ipocrisie e contraddizioni legate non solo alla difficoltà occidentale di rapportarsi con la povertà (“io li accarezzo, ma ho sempre i miei guanti di lattice”), ma anche all’ambiguità irrisolvibile del compito di educare e/o civilizzare, spesso ridotto a un rimpiazzo di costumi barbari con dosi di dogmatismo, perbenismo e asservimento: “A forza di cioccolate calde, panini, letture edificanti, qualcuno ha almeno imparato a camminare da solo e a eseguire ordini elementari”.

Le storie di Inglese ci trasportano in un mondo assurdo che, sebbene sembri distante, somiglia fin troppo al nostro. Un mondo assurdo è un mondo privo di un orizzonte di senso, i cui abitanti hanno dimenticato chi sono.

 

Non siamo più esseri umani da un bel pezzo. […] Dovevamo farci scrupoli, dovevamo diventare colti e importanti, dovevamo piangere di fronte a un genitore o un figlio morto. Ora invece possiamo andare avanti, anche senza l’umanità. Siamo rimasti tipi attivi, soprattutto da giovani. […] Anche se sembro respirare, cantare, passeggiare, non c’è più, in me, la più piccola traccia di umanità. Quella vecchia storia è stata sostituita da una tabella, ampia e comunque precisa.

 

Anche questa storia sembra proprio parlare di noi, immersi in un processo incessante di accumulo di informazioni che non seleziona né ordina, ma aggiunge senza criterio. Questo accumulo, però, è profondamente disumano: solo un computer può ricordare e archiviare tutto. La memoria umana, invece, è parziale, selettiva, spesso incerta e talvolta persino mendace. L’eccesso di informazioni ci sta allora alienando dalla nostra stessa natura: se, come sostengono i neuroscienziati, l’essere umano è un animal narrans, è proprio nella narrazione che risiede la nostra essenza. E abbandonarla significa disumanizzarci, trasformandoci in meri cataloghi privi di senso e di storia.

Il rapporto tra narrazione e nuove tecnologie è infatti centrale in diverse “storie”, tra cui quella di Nisrina, donna ormai matura inghiottita da Tik Tok. Un video come un altro – una coreografia di tre ragazzi asiatici su di un pezzo funky anni Ottanta – aveva risvegliato in lei chissà quali “fantasmi adolescenziali”. Nei giorni successivi tenta di ricordare senza successo l’esperienza acustica che quel video le aveva dato; inizia così una ricerca che le toglie il sonno per ritrovarla

 

in modo tale che la giusta concatenazione musicale scacciasse la falsa, e ristabilisse una sorta di giustizia psichica, ridando pieno equilibrio alla sua intera personalità, che ora invece barcollava sotto i colpi di questa ossessione. […] Ma più questo esercizio ripetitivo ed estenuante si prolungava, abbuiava e avvelenava i suoi giorni, più la speranza di risalire a quella prima esperienza acustica si palesava come assurda e impossibile.

 

Una ricerca dal sapore proustiano, ma che, questa volta, non può che fallire: il tempo perduto tra le storie dei social – storie solo di nome, poiché non sono altro che informazioni audio-visive destinate a dissolversi in fretta – non può in alcun modo essere ritrovato.

Sebbene l’allusione sia raramente esplicita, mi sembra che il gioco metalettario non sia infrequente – dal quasi omaggio al Dick de L’uomo nell’alto castello a Tasmania di Paolo Giordano – e viene sfruttato per portare allo scoperto temi di importanza capitale, come accade in Storia con lotteria, la cui logica mi ricorda un po’ A Modest Proposal. Tuttavia, mentre l’ironia di Swift risulta chiaramente visibile nel cinismo mascherato da buon cuore del narratore, il caso della lotteria si presenta, in un certo senso, più realistico. Non perché la “proposta” sia più umana – si tratta infatti di scommettere quale bambino malato morirà per primo – ma perché la società in cui viviamo appare ancor più priva di alternative al dominio assoluto della “ragion di mercatura” rispetto a quella in cui viveva Swift. D’altronde, non solo metà del premio è destinata alla famiglia del bambino morto prematuramente, ma, come osserva il narratore e ideatore di “Lotteria in pediatria”, l’iniziativa ha anche lo scopo di interessare il grande pubblico alla tragedia vissuta da famiglie altrimenti lasciate sole a combattere contro la malattia degenerativa: “l’innata ambizione umana di diventare ricchissimi grazie a uno straordinario colpo di fortuna, si sposa qui con la possibilità di essere solidali proprio con i più sfortunati, e di dividere con essi, come già San Martino con la cappa, la propria straripante ricchezza”.

 

Se le storie di Inglese parlano in fin dei conti di noi – e c’è ragione di pensare che sia così – finiamo inevitabilmente per chiederci se sia rimasta qualche speranza per l’umanità. Io non lo so, ma mi pare di capire che la risposta di Inglese sia affermativa, sebbene consapevolmente utopica (e quindi concretamente irrealizzabile). Così leggiamo in Storia con pendenza:

 

Il mondo saprà meglio di noi […] portarci nel giusto movimento, non in virtù di un’intenzione o un disegno, ma per una semplice pendenza, da qualche parte s’inclinerà, scivolerà oltre, il mondo, ed è questo che noi aspettiamo […]. Noi aspettiamo di capire da quale lato, verso quale angolo, dove insomma pende, perché tutta la nostra persona si posizioni, sia pure lei volta nella giusta direzione, dia la sua lieve spinta, accompagni il movimento, il mondo si avvarrà anche di noi, oltre che delle tante cose in pendenza.

 

La “pendenza” ricorda il clinamen degli epicurei, quel principio di deviazione che spezza l’equilibrio e consente l’origine, lo sviluppo e la fine di ogni cosa. Se c’è clinamen, tutto è soggetto al cambiamento e niente è determinato. Affermare la contingenza della realtà non solo restituisce un paradossale senso anche al non-senso, ma mette in luce la sua natura aperta. Evidenziare questo aspetto non significa però abbracciare il nichilismo, bensì spronare all’azione. Infatti, in una realtà aperta e contingente, il senso non è predefinito, ma deve essere costruito progressivamente, un passo alla volta: “La marcia indietro astuta, l’arresto salvifico, il testacoda spettacolare da finale felice, tutto ciò purtroppo non è possibile, né per noi, né per le cose, né per il mondo stesso nel suo puro trascinamento acefalo”.

 

Ebbene, come interrompere questo “puro trascinamento acefalo”? Forse il modo c’è e ce lo suggerisce ancora Inglese con la Storia del giro. Uomini, animali e alieni contano di entrare nell’unico “giro” – chiara metafora dell’unica vita che ci è concessa. Tutti scalciano e scalpitano, ce la mettono tutta. Gli esseri in grado di parlare emettono un profluvio di atti comunicativi, sebbene nessuno li prenda in considerazione. Ma per uscire da questa solitaria routine basterebbe “smettere tutti assieme di correre innanzi. Tireremmo allora fuori le sdraio, per contemplare tutti quanti i selvatici e gli inumani rotolarsi sulla schiena […]. Non succederà probabilmente mai, eppure è questo tipo di pensiero che ci dà la forza di avanzare, di continuare.”

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