di Marco Nicastro

 

Leggendo la corposa raccolta di saggi su Vitaliano Trevisan, edita nel 2024 da Mimesis,[1] è tornato a galla nella mia mente il ricordo di quell’unica volta che ebbi modo di ascoltarlo dal vivo.

Fu in occasione, se non ricordo male, di una rassegna culturale organizzata presso il Centro S. Gaetano di Padova, evento che prevedeva anche degli incontri con gli autori. Era il 2016, non molto tempo dopo l’uscita di Works. A presentarlo e a dialogare con lui quella sera c’era un altro scrittore, Marco Franzoso.

Ricordo che in una saletta ampia e comoda, un tardo pomeriggio, ad ascoltare non eravamo più di quindici persone. Allora avevo letto di Trevisan soltanto I quindicimila passi, libro che mi aveva profondamente colpito, così come mi colpì quel pomeriggio il numero esiguo di persone presenti ad assistere a un evento in fondo raro, qualcosa che, a posteriori, dissoltosi l’entusiasmo per quell’incontro, vidi come uno dei tanti esempi del disinteresse per la cultura e i libri in generale che ammorba il nostro Paese.

 

Quello che voglio riportare qui sono però solo dei frammenti, probabilmente distorti dal filtro soggettivo della memoria, più che un chiaro ricordo. Sono passati diversi anni, non presi appunti quel pomeriggio o nei giorni successivi; successivamente non ripensai più a quell’evento, che solo adesso, nel corso della lettura dei saggi inclusi nella raccolta, si risveglia con più forza nella mia memoria.

Ricordo che si creò presto, dopo le prime domande di Franzoso, un’atmosfera molto seria, forse un po’ cupa, rafforzata dal viso arcigno e dalle risposte secche di Trevisan. Più che a un dialogo tra due scrittori sembrava a tratti di assistere a un processo, o a un interrogatorio, in cui un autore un po’ infastidito e reticente doveva precisare e motivare le ragioni che l’avevano portato a scrivere certe cose, ribattendo a volte in modo perentorio alle osservazioni o ai pareri di chi lo presentava al pubblico. Ricordo che alla definizione di Works come “romanzo” data da Franzoso, l’autore rispose un po’ infastidito che non si trattava di un romanzo ma di un memoir; ricordo le critiche taglienti alla cultura mercantile-industriale (ma provinciale) della sua terra natale, al fare politico italiano e all’Italia come stato ancora profondamente democristiano. Ricordo anche il disprezzo verso la televisione e i giornali per il tipo di notizie a cui di solito danno risalto.

 

Il bravo e intelligente Franzoso a un certo punto mi parve in difficoltà nel capire come “prendere” Trevisan, come non urtarne la sensibilità con le sue domande e osservazioni. Le risposte dell’autore, in ogni caso, erano efficaci ed esaustive ma molto concise; Trevisan andava dritto al punto senza dilungarsi o perdersi in approfondimenti e specificazioni, contorsioni espressive o aneddoti personali (tutto il contrario della sua prosa), che sono elementi comunque utili a riempire il tempo di una presentazione o di un qualsiasi incontro pubblico. A ogni domanda una risposta netta e precisa, spesso pronunciata col tono perentorio di una sentenza o di una massima, seguita da un lungo silenzio, con l’intervistatore che attendeva di sentire qualcos’altro e l’autore che ostinatamente non lo soccorreva nel suo disagio riempendo in qualche modo quel silenzio, creando così un’atmosfera sospesa e quasi surreale per la presentazione di un libro. E tutto ciò, io credo, non per pretenziosità o eccessiva convinzione nei propri mezzi, quanto per la necessità caratteriale di Trevisan di non perdersi in chiacchiere, di centrare il nocciolo delle questioni ed esprimersi nel modo più chiaro possibile nel tempo breve che, a differenza della scrittura, concede in genere l’esposizione orale. Dunque più per un bisogno di sincerità con sé stesso e con chi l’ascoltava che per una posa da personaggio noto e inarrivabile. Altro piccolo dettaglio che ricordo è la sua passione per il fumo: durante il dialogo, se la memoria non m’inganna, iniziò a rollare una sigaretta di tabacco, pur senza accenderla (cosa che sicuramente gli costò enorme fatica). Mi colpì poi particolarmente la descrizione del suo strenuo e solitario lavoro sulla scrittura: disse che in quel periodo, per migliorare il suo stile, si esercitava a riscrivere a mano la monumentale Institutio oratoria di Quintiliano, opera che apprezzava moltissimo. Questo aspetto mi fece capire meglio il suo modo di essere scrittore. Probabilmente intendeva la scrittura come un’arte fisica (un vero mestiere artigianale), la cui fatica logorante doveva invadere non solo la mente ma tutto il corpo perché l’opera possa compiersi. Quel logorio della mente dovuto all’inarrestabile e ridondante flusso di pensieri che caratterizza il protagonista dei suoi libri trovava un analogo nel logorio del suo corpo durante la creazione dell’opera. Allora mi venne in mente Michelangelo con le sue dure prestazioni fisiche mentre lavorava alla Cappella Sistina. E poi lo scrivere a mano sulla pagina ciò che stava leggendo in quel momento pensai fosse come incidere quei contenuti nel suo corpo, come se la pagina su cui scriveva fosse la superficie del suo cervello, tentando così di fare in modo che quei concetti lasciassero una traccia più profonda nella sua mente.[2]

 

Altre cose significative sicuramente accaddero e furono dette durante quell’incontro – che probabilmente non durò più di un’ora e che non fu caratterizzato, se non erro, da domande degli astanti – ma io non le ricordo più. Conservo memoria solo di un ragionare faticoso tra due scrittori, pieno di silenzio e di mistero tra una domanda e la sua risposta, con Trevisan che non guardava il pubblico (e solo raramente Franzoso) ma un punto imprecisato dinanzi a lui,[3] un po’ a disagio nel dire e spiegare la propria opera e forse anche nel partecipare a incontri pubblici, ma comunque deciso a starci, ad assumersi il peso, la responsabilità di un confronto su ciò che aveva scritto. L’idea e l’impressione emotiva generale di Trevisan che dopo quel pomeriggio rimasero in me – sensazioni che rafforzarono l’intento di proseguire nella lettura dei suoi scritti – fu quella di un uomo di pensiero che viveva la scrittura come una parte essenziale della sua vita, e dico essenziale nel senso più letterale del termine, cioè insita nella sua natura, anche corporea come si è potuto intuire. Uno scrittore che con lo scalpello del suo ragionamento scavava le questioni esistenziali come facevano i protagonisti dei suoi libri, e una volta giunto a una chiarezza razionalmente accettabile definiva il problema affrontato per quello che era, eliminando gli orpelli concettuali e il superfluo, aborrendo il compromesso, cercando la cruda verità a ogni costo.

 

Del resto era proprio questa spasmodica e incessante attività riflessiva, sempre lucida e perfettamente coerente nella sua architettura logico-sintattica (come testimonia la sua prosa), a contenere le contraddizioni, le fragilità e le profonde angosce individuali che si intravedono nei suoi scritti e nella sua esperienza di vita. Sicuramente un individuo che non faceva sconti né a se stesso (credo innanzitutto) né agli altri (alla società), carismatico perché capace di guardare in faccia la realtà con sicurezza e senza infingimenti. Originale come la sua scrittura, intellettualmente spietato come il suo indimenticabile volto.

 

Note

 

[1]    Barbieri A., Giancotti M. (a cura di), Una (non) prospettiva. Percorsi intorno all’opera di Vitaliano Trevisan, Misemis, Milano-Udine 2024. La raccolta include, tra gli altri, saggi di Barbieri, Cortellessa, Giancotti, Policastro, Renzi, Zinato.

[2]    C’è del vero in questo esercizio, per quanto forse Trevisan non lo facesse con questa specifica consapevolezza o motivazione: le neuroscienze hanno dimostrato che la scrittura a mano, e non ad esempio quella al computer, crea maggiori collegamenti sinaptici tra i neuroni e quindi consente la strutturazione di una traccia mnestica (e di un ricordo) più resistente all’oblio.

[3]    E forse per chi l’ascoltava quella sera è stato meglio così: ho sempre pensato che Trevisan avesse uno sguardo molto penetrante, difficilmente sostenibile.

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