a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia

 

Con l’intervento di Davide Castiglione, poeta e critico letterario, si apre il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia. Questa “serie”, che sarà interamente ospitata da LPLC, si distingue dalla precedente perché non sceglie più la forma dell’intervista, ma del saggio breve.

 

Non sono solito dare troppo peso all’etimologia delle parole, sia perché non ho una preparazione da filologo classico o da storico della lingua, sia perché è l’uso corrente semmai a interessarmi. Eppure, nel caso di autenticità mi sento di fare un’eccezione. L’etimologia di questa parola rimanda al greco αὐϑέντης, composto di autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): la definizione che se ne può estrapolare, “autentico è chi agisce secondo il suo vero sé”, ha la nettezza di una massima morale e consuona d’istinto con con riflessioni e sensazioni che vado attraversando da tempo. Questa definizione chiama in causa tre grandi sfere dell’esistenza: l’agire, cioè il comportarsi o la parte pubblica, sottoposta a scrutinio, del vivere; il vero, e con esso il presupposto che un vero esista e sia distinguibile da un non-vero; e il sé, ovvero qualcosa che ha a che fare con l’identità personale profonda, o meglio con la consapevolezza incrementale che un organismo ha di sé e della propria storia. Etica, verità e identità sono condensate in questa definizione come una novella trinità.

È risaputo che ciascuna di queste sfere è stata messa radicalmente in crisi nel ventesimo secolo: scoperta dell’inconscio e dell’irrazionale, relativismi culturali, scuole del sospetto, ermeneutica verticale e costruttivismi vari hanno trasformato il mondo da un testo almeno parzialmente intelligibile a un groviglio di segni ingannevoli. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Maurizio Ferraris ripercorre le tappe principali di quest’attitudine facendola culminare nell’ossessione postmoderna di virgolettare ogni idea per distanziarsene ironicamente e scacciare ogni sentore di dogmatismo – o di fede.

 

Oggi dovremmo renderci conto di quanto nociva quell’eredità sia stata e continui a essere per il discorso pubblico, e quindi per lo stesso vivere civile: ancora con Ferraris, “il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori” (Manifesto, p. 5). Ne è un esempio l’irresponsabile acrobatismo verbale per cui una guerra d’invasione imperialista viene riverniciata con l’eufemismo “operazione speciale”, e un plausibile genocidio in mondovisione con l’eufemismo “guerra”. La proposta del secondo Wittgenstein che sia l’uso, e non la denotazione, a stabilire il significato delle parole viene così grottescamente avverata. Recidere il legame fra le parole e loro denotazione equivale a privarle delle loro condizioni di verità – intesa qui come validazione intersoggettiva fondata sui dati d’esperienza e il più possibile estranea a preconcetti ideologici. La caduta delle condizioni di verità accelera il crollo della coesione sociale e dello scambio democratico che queste condizioni presupponevano e fondavano.

 

L’abbandono di ogni norma conduce alla legge del più forte, dove “legge” sta per arbitrio o legge naturale (per riprendere l’Arendt de Le origini del totalitarismo) e non certo per legge umana, imperfetta sì ma orientata verso un sistema coerente e fondata sull’idea classica del limite. Non è un caso che le più prestigiose istituzioni legali – penso alla Corte Internazionale di Giustizia e alla Corte Penale Internazionale –abbiano di recente subìto intimidazioni sempre più gravi e spudorate: il loro spirito illuminista, il valore della denotazione e delle definizioni, è inconciliabile con il relativismo prima rivendicato dal postmoderno, e poi cavalcato dai demagoghi populisti. In questo contesto, l’emancipazione si eclissa nella libertà di agire impunemente per sé stessi e, se necessario, contro altri.

 

A tal proposito, la questione della lingua è più centrale di quanto possa sembrare di primo acchito. Secondo i postmoderni la lingua, nel senso di langue, è un sistema di segni arbitrari (di signifiers) autonomo e differenziale rispetto alla realtà (l’insieme dei signifieds). L’iconismo, cioè la somiglianza motivata fra mondo e discorso, è confinato alla riserva indiana delle onomatopee. Pure la lingua incanalata nel discorso (parole) viene ritenuta un medium distorcente perché produrrebbe illusioni referenziali, oscurando in tal modo la struttura del reale. Anti-realismo, attitudine ludica e meta-linguistica, parodia, pastiche, ecc. traggono alimento da qui. Se la lingua falsifica per statuto, allora tanto vale impiegarla contro sé stessa, complicarla in dettati oscuri ma seducenti come quelli di tanta filosofia continentale. Se la lingua falsifica comunque, vacilla poi la possibilità di distinguere giornalismo d’inchiesta da propaganda, memoir da mito, guerra da genocidio.

 

La propaganda, ovvio, precede cronologicamente il pensiero postmoderno; ma il pensiero postmoderno ha finito per legittimarla presso i ceti còlti, rendendo ancora più accettabile il populismo degli story-teller. Credo che questa deriva ci abbia portato, o quantomeno accompagnato, a dove siamo globalmente – sull’orlo di un distruttivo nichilismo narcisista che, abilitando in linea di principio qualsiasi possibile punto di vista, finisce per promuovere solo quelli con più risorse materiali o contenuti di shock.

Questo mio argomento di ordine etico-morale è teso a riabilitare il concetto di verità – non come feticcio essenzialista, ma come orizzonte possibile e anzi necessario per fondare il vivere civile, la giustizia e l’uguaglianza dei diritti. Scriveva Montale che “la verità è nelle nostre mani / ma è inafferrabile e sguscia via come un’anguilla” (Amici, non credete agli anni-luce). Credo che il primo di questi due versi vada riscoperto e giocato contro il secondo.

 

La concezione postmoderna della lingua ha l’ulteriore demerito di proiettare un argomento-fantoccio, ovvero la superstizione che la lingua sia uno specchio fedele del reale su vari livelli (fisico, psichico, semiotico). Ma non lo è, e basterebbe il fenomeno dei gap lessicali a dimostrarlo: per esempio, l’italiano non lessicalizza un periodo di due settimane come l’inglese fa con la parola fortnight. Il fatto che la lingua non sia uno specchio non autorizza però a credere l’inverso, ovvero che la lingua sia una sovrastruttura avulsa dal resto del reale, quasi una camera dei giochi o un mondo parallelo senza attrito dove si possa fare ciò che si vuole senza conseguenze.

La lingua è piuttosto un diagramma del reale, una mappa – la più complessa che abbiamo, ma certamente non un duplicato del mondo, per riprendere il paradosso enunciato da Borges nel frammento Del rigore della scienza. Meglio ancora, sulla scorta del linguista funzionalista M. A. K. Halliday, possiamo immaginare il potenziale di rappresentazione della lingua come lo schermo di un televisore: per quanto alta sia la risoluzione, coi pixel che corrispondono a diverse scelte lessicali e strutturali, ci saranno sempre innumerevoli vibrazioni cromatiche o qualia sacrificati perché accorpati all’interno di quell’unico pixel uniforme.

 

A volte la risoluzione scende ai livelli di PacMan o Tetris: valgano a esempio un aggettivo generico come “bello” o un sintagma trito come “la freschezza della sera”. Nonostante ciò, è difficile negare che la lingua, quale strumento di sopravvivenza, civilizzazione e interazione col mondo, non istituisca sistematiche corrispondenze con il reale. Tali corrispondenze sono state riconosciute tanto dalla linguistica funzionale quanto da quella cognitiva – entrambe non a caso sorrette da un realismo empirico di fondo, imbevuto di etnografia e psicologia. Ancora una volta, i poeti lo avevano capito: per Sereni la parola non è la cosa (posizione ingenua dello specchio), ma comunque “la approssima” (posizione della mappa o schermo). L’approssimazione richiede inoltre uno sforzo continuo, che esige lavoro e fiducia: è una parola-processo.

Questa idea iconica del rapporto fra lingua e realtà presuppone un elemento al quale il postmoderno è strenuamente ostile: mi verrebbe di chiamarlo fiducia, o persino fede. Dopotutto, già la Genesi sancisce una consequenzialità fra parola e cosa creata: “Poi Dio disse: “sia la luce!” E la luce fu”. Oggi l’aspetto performativo della lingua è visibile nelle istituzioni (le sentenze del tribunale, il sì pronunciato ai matrimoni) come nei post incendiari di Elon Musk e altri, vòlti a cambiare i comportamenti e incitare le folle: ne sono un recente esempio i riots in Inghilterra tra giugno e luglio 2024. Mi si potrebbe obiettare che Musk e Trump agiscono anch’essi autenticamente, ovvero in conformità con il proprio vero sé; e che se la cultura in generale, e la poesia in particolare, volessero distanziarsi da questo tipo di autenticità, farebbero bene a rinnegare tout court il confessionalismo, l’espressivismo e l’autobiografismo.

 

A questa obiezione mi viene di rispondere così: primo, che la verità è un orizzonte da inseguire (l’anguilla che sfugge, per dirla di nuovo con Montale) e non una cristallizzazione presente o un fortino da difendere. Il vero sé non è banalmente un sé coerente con la propria storia, ma un sé venturo che trascenda quello presente, un sé

che ricerchi un cambiamento; e non un cambiamento qualsiasi ma un cambiamento che includa il bene di altri esseri sempre più a macchia d’olio, riducendo gli strappi dopo averli attraversati e sofferti. Secondo, non si dà un vero sé senza introspezione, cioè senza dibattito e dubbio interno. Lo spontaneismo e la franchezza che molti ammirano nei nuovi e vecchi demagoghi non equivalgono ad autenticità perché sono il frutto di una rimozione radicale che “risolve” la discrepanza fra mondo psichico e mondo pubblico schiacciando il primo sul secondo.

 

Per esempio, se distruggere o sminuire gli altri mi dà piacere, allora un’ideologia della distruzione e del suprematismo sarà quella in cui la mia mente si identificherà, sopprimendo aspirazioni più difficili e mediate. La pseudocoerenza che risulta da questo allineamento è rassicurante, da fuori, perché liquida il fantasma dell’ipocrisia: uno può anche comportarsi orribilmente, ma almeno lo fa seguendo i suoi principi, senza trucchetti. Hitler faceva così. Questa pseudocoerenza è dunque il frutto patologico di un appiattimento psichico estremo, non certo di un tentativo di modellare il proprio comportamento secondo quanto si sente essere internamente giusto. Mi accorgo adesso che ciò a cui mi sto riferendo è una pratica di virtù – non a caso una delle parole più demodé e derise che si possano immaginare.

 

I caratteri concessi stanno per terminare, e mi rendo conto di non aver detto ancora nulla sulle pratiche di scrittura che possano inverare questa idea di autenticità. Non è questo lo spazio per farlo, perché l’urgenza era quella di una difesa dell’autencità, non tanto come concetto in sé ma come pratica e direzione di vita, come fedeltà coniugata ad apertura e analisi critica. L’autenticità in scrittura procede in parallelo con quella nella vita dei comportamenti: quando si sente che qualcosa è forzato, cioè che fa tòrto a come siamo e soprattutto a come vorremmo diventare, bisogna reagire e allontanarlo. Qui, autenticità è controllo e presa su di sé per sfuggire a un controllo esterno: che sia quello di politiche illiberali o di relazioni amorose o amicali tossiche.

Quale che sia lo stile o la poetica perseguiti, una scrittura autentica non dovrebbe aggirare la questione della verità, del sé e dell’azione orientata: la scrittura diventa un agire su di sé (e su altri) in una direzione che si riconosce proficua al di là di sé stessi, ed è sempre disposta a rivedere e correggere i propri passi, un po’ come il razionalismo critico di Popper ci ha insegnato a fare. Una scrittura autentica dovrebbe inoltre aumentare il numero dei pixel nella resa a tutto tondo del reale, ovvero scoprire nuove regioni dell’esistere. Da questo punto di vista, mi sembra esemplare il percorso di un autore purtroppo da poco scomparso, Alessandro Broggi: nelle sue pagine il sé è mobile, multiplo, assorbito nello spettacolo del mondo ma non rimosso né aggirato. E c’è una fiducia, un’orizzonte di senso che, dopo aver attraversato la diagnosi, cioè la denuncia delle falsità (delle forme di vita alienate) procede a restaurare un’immaginazione che è cura – tanto della psiche quanto della lingua.

 

[Immagine: Mariah Robertson, 364, 365, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 2023 (particolare)].

1 thought on “Autenticità e poesia contemporanea. Nuova serie /1: Davide Castiglione

  1. I campi della lingua e quello della verità sono, credo ma di continuo mi ricredo o tento inutilmente di farlo, appiattiti l’uno sull’altro, non foss’altro che perché il territorio delle lingue (vocabolari alla mano) è così delimitato (in italiano credo arrivi tuttora all’onomatopeico zzz delle Culicidae ), che le parole per (pour) la verità sono poi anche quelle per (pour) la bugia o la falsità o la menzogna. A noi resta solo (ahinoi o beati noi!) la umana, troppo umana, consapevolezza che i due mondi si eccedono appena dopo l’occhio. Porto un esempio: una striscia di pelle con un nevo testé chirurgicamente rimosso sono proprio il brandello che paziente e chirurgo vedono, se li si passa al microscopio ottico? La pelle, dapprima uniforme, ci si rivela multistrato di cellule con tutte le differenze da una zona rosea ed autonoma, così come il nevo, profilatticamente asportato, può essere già un cancro, col suo aspetto malignamente disorganizzato. Se poi si passa il campione al microscopio elettronico si troverà un altro mondo e così fino al bosone o perfino oltre, se avessimo strumenti a simile capace risoluzione. Allora la mia domanda è: abbiamo strumenti verbali che ci permettano di giungere al bosone linguistico, l’entità, voglio dire che garantirebbe realtà e verità al flatus vocis del parlante o il poeta moderno deve, e non solo perché glielo impone la postmodernità, o perché Je est un autre, giocare, ironicamente o crudelmente, non dico à la Sade, ma almeno à la Artaud, sul triste, in quanto non più ingenuo, consapevole confine e limite dell’approssimazione, che, per me almeno, segna anche il confine etico e critico (da κρίσις, senza diacronici isterismi) tra lirismo e illirismo, con la i privativa s’intende, ovvero tra una posizione aderenziale alla parole ed una meno smaccatamente prona sia alla langue che alla lalangue, pur col languore (per lo scaffale di poesia invenduta) che ne rimane.

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