di Daniele Sormani

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

[È uscito recentemente per la rivista trimestrale ‘aut aut’ de Il Saggiatore il fascicolo edito da Massimo Filippi e Giovanni Leghissa, “La filosofia davanti al massacro degli animali” (n. 401/2024, pp. 200). Ne proponiamo una recensione a cura di Daniele Sormani.]

 

L’importanza del fascicolo La filosofia davanti al massacro degli animali, opera collettanea a cura di Massimo Filippi e Giovanni Leghissa, è difficilmente sovrastimabile. Il fascicolo, infatti, nasce in seno alla rivista ‘aut aut’, la quale ambisce a contribuire al dibattito filosofico in modo critico con uno stampo fortemente fenomenologico. In questo contesto, il numero recensito apre alla necessità di interpellare la filosofia di fronte al massacro continuo e sistematico degli animali non umani, richiedendo che il dibattito filosofico affronti politicamente pratiche e ideologie che agiscono, validano o sostengono questo massacro.

Da tempo, infatti, con sempre più insistenza si discute della necessità di integrare i ragionamenti dei movimenti radicali con una lente antispecista. In questa cornice, sono numerose le analisi sociali e, soprattutto, politiche dello specismo e del movimento antispecista. Negli ultimi decenni si è infatti andata via via affermandosi una necessità di caratterizzare politicamente l’antispecismo, in un quadro generale di lotta contro una matrice comune di sistemi di oppressione e sfruttamento.

 

Tra le voci che si sono sollevate, una forte mancanza si percepiva per l’assenza di un supporto filosofico. O meglio, laddove si interpellava anche la filosofia lo si faceva su un piano etico o morale, e non politico. In controtendenza con questo orientamento, il fascicolo parte dalla necessità di un posizionamento che è, e deve essere, eminentemente politico. Quest’opera, dunque, restituisce un primo e importante contributo di filosofia politica al dibattito su specismo e antispecismo nel panorama italiano, avendo come scopo dichiarato quello di contribuire a decostruire il concetto di specie.

Il fascicolo nasce infatti dalla necessità di tratteggiare una mappa del pensiero critico sulla questione animale ignorato dalla filosofia maggioritaria. Per farlo, nella Premessa – a cura di Filippi e Leghissa – viene tratteggiato lo specismo, definito una ‘macchina’ composta da tre parti: una cornice sacrificale – che crea divisioni di specie producendo corpi scartabili; dei dispositivi di smembramento – che rendono possibile e materialmente realizzano lo sfruttamento di quei corpi scartabili; e l’idea giustificazionista – che legittima i meccanismi e i dispositivi della macchina. In opposizione allo specismo, viene anche descritto il ruolo necessario di un antispecismo che sia politico, ossia lo ‘smantellamento dei dispositivi material-semiotici di smembramento e messa a morte’ e la ‘decostruzione della cornice sacrificale e dell’ideologia giustificazionista’ (pagg. 5 e 6).

 

Già da questo quadro è evidente come lo specismo sia una ‘macchina’ che ha una struttura comune ad altri sistemi di dominio e sfruttamento, quali il sessismo e il razzismo. Per tale motivo, una parte del fascicolo è dedicata proprio a discutere gli accomunamenti con quelli che vengono definiti ‘altri movimenti di radicale contestazione dell’esistenza’ (pag. 4).

Prima di questa parte, tuttavia, il fascicolo si apre con una serie di contributi che vanno ad analizzare il pensiero di alcunə filosofə contemporaneə che hanno trattato in vari modi la questione animale, così da cogliere elementi utili per il movimento antispecista.

In quest’ottica, la seconda parte di connessione con altri movimenti è fondamentale, in quanto il contributo teorico di supporto rischia di essere insufficiente senza la delineazione di pratiche.

 

Infine, il fascicolo si conclude con quello che viene definito un ‘confronto de/costruttivo con altre acquisizioni teoriche’ (pag. 4) e che si svela essere un interessante approfondimento di aspetti meno attraversati delle basi teoriche dell’antispecismo.

Attraverso queste tre sezioni, il fascicolo riesce quindi a scuotere la filosofia dalla posizione occidentale tradizionalmente antropocentrica e a sollevare quesiti che tentano di sottrarre lo sfruttamento animale dai meccanismi di naturalizzazione che lo rendono così pervasivo, posizionandosi in aperto contrasto con la corrente filosofica maggioritaria.

 

Il primo contributo, a opera di Filippi, apre a quelli che nella premessa vengono definiti come “corpo a corpo con alcuni pensatori e alcune pensatrici contemporanei che sull’Animale hanno riflettuto” (pag. 4), concentrandosi su un’analisi di Deleuze. Punto di partenza è la centralità rivestita dagli animali non umani nel pensiero del filosofo. Pertanto, Filippi porta in rassegna una serie di concetti di Deleuze, tra cui il fatto che – a differenza della maggior parte della filosofia occidentale – elabora l’animale in positivo. Questi concetti vengono utilizzati da Filippi con lo scopo di fornire al movimento antispecista strumenti utili per sviluppare una ‘politica affermativa’ (pag. 8).

Nell’analisi, Filippi ripercorre la teorizzazione di Deleuze delle ‘linee’, concetti teorici utili per superare la categorizzazione in specie in favore di un focus sulle relazioni tra viventi, fino ad arrivare al concetto di “responsabilità-davanti” al non umano. Questo concetto, per Filippi, diviene fondamentale per imparare a solidarizzare con il non umano e per comprendere il lutto come una questione politica. Conclude poi il saggio con una riflessione sull’opportunità di usare il movimento compiuto dagli animali non umani come esempio per il movimento antispecista, allo scopo di imparare a ‘deteritorializzarsi/riterritorializzarsi insieme ad altri concatenamenti migratori’ (pag. 21), ossia passare da essere single-issue a essere intersezionale. Il contributo di Filippi riesce dunque a fornire alcuni strumenti molto preziosi per il movimento, quali la politica affermativa, nuovi attrezzi per decostruire la specie, la nozione di movimento.

 

Il secondo saggio, scritto da Timeto, ha come obiettivo – a mio parere raggiunto – quello di provare a ‘mettere in pratica la critica harawaiana della specie attraverso gli strumenti dell’epistemologia situata’ (pag. 23). Per svolgere questo ruolo, Timeto parte da un breve excursus sul pensiero harawaiano riguardante gli animali non umani, focalizzando l’attenzione sul lavoro degli animali non umani e le differenze da quello umano. In questo passaggio, Timeto evidenzia come per Haraway la ‘zoopolitica del capitale animale è bio- e tanato-politica allo stesso tempo’ (pag. 26), in quanto la stessa nascita degli animali non umani è funzionale alla loro uccisione. Dopo questo excursus, tuttavia, Timeto si concentra sulle differenze tra il pensiero harawaiano e quello dei Critical Animal Studies (CAS), a partire dalla critica di Haraway alla pratica del veganismo. Attraverso le lenti dell’Epistemologia Situata – di cui Haraway è sicuramente un’esponente – Timeto evidenzia come la visione posizionata deve richiamare un posizionamento situato, in quanto l’Epistemologia Situata ‘non si occupa solo di analizzare come le cose sono ma anche come potrebbero diventare’ (pag. 30). Per questo motivo, la critica alla pratica del veganismo di Haraway viene vista da Timeto come ‘un cortocircuito poco chiaro’ (pag. 33), visto che rappresenta non una scelta, ma un posizionamento fondamentale per il movimento antispecismo che voglia definirsi politico. Attraverso questo chiaro ed esaustivo saggio, dunque, vengono forniti strumenti utili affinché l’Epistemologia Situata possa servire a praticare una ‘giustizia sociale multispecie’ (pag. 34).

 

Il terzo saggio, scritto da Salzani, ha come scopo quello di utilizzare tre figure animali presenti nel pensiero agambeiano – l’axelotl, la zecca e il gatto – per mettere in luce sia il pensiero agamebiano sull’Animale, sia le sue criticità.

Salzani parte da una breve descrizione dell’evoluzione del discorso agamebiano sull’Animale. Questo è divisibile in due fasi, una segnata dalla centralità del linguaggio, e quindi dall’eccezionalismo umano per cui ‘[…] gli animali sono prigionieri della necessità, mentre solo l’essere umano è libero’ (pag. 41), e una definita dalla ‘svolta biopolitica’ (pag. 42). Attraverso quest’ultima, Agamben inizia a ripensare l’animalità come ‘un dispositivo di inclusione ed esclusione’ (pag. 42, citando Wolfe, 2012[1]), criticando quindi la dicotomia umano/animale impostata dalla macchina antropologica. Per Agamben, la strategia per ‘disattivare’ questa macchina è quella della profanazione: attraverso l’immagine del gatto che gioca con un gomitolo, Salzani attraverso Agamben riesce bene a rendere chiaro come il gioco libera il topo dalla caccia, pur essendo il gatto conscio di ‘usare le sue facoltà “a vuoto”’ (pag. 48). Riprendendo il pensiero di Castanò, Salzani conclude quindi riflettendo su come questa capacità – comune sia nel gatto che nel bambino umano – mostra come in ottica ‘antropodecentrica’ (pag. 49) la potenza non sia tanto umana, quanto ‘generalmente animale’ (pag. 49, citando Castanò, 2014[2]). Salzani conclude poi il saggio – forse un po’ troppo velocemente – criticando la rigidità degli schemi del filosofo, dovuti all’influenza dei dualismi heideggeriani.

 

Il contributo successivo, ad opera di Maurizi, si concentra sul pensiero di Adorno, analizzato attraverso una lente kantiana. Punto di partenza del suo lavoro è una citazione di Adorno, che recita ‘nel frattempo al singolo non resta altra moralità che ciò che la teoria morale kantiana, che ha per gli animali inclinazione ma non rispetto, non fa che disprezzare: cercare di vivere in modo da poter credere di essere stato un buon animale’ (pag. 51, citando Adorno, 1966[3]).

Per Maurizi, è utile utilizzare questa citazione per far emergere la struttura logica della Dialettica dell’illuminismo, opera del filosofo del 1947. L’autore, in quest’opera, ‘interpreta la storia della civiltà come critica del dominio’ (pag. 52), il quale non ha un rapporto lineare e univoco con la natura. Infatti, cultura e civiltà non sono altro, ma parte stessa della natura: la civiltà sarebbe semplicemente ‘il modo specificamente umano di rapportarsi a sé e all’altro’ (pag. 54).

Tuttavia, in Dialettica dell’illuminismo la genesi del Soggetto si ha attraverso il distanziamento dalla natura, cosa che genera un rapporto asimmetrico e una ‘prassi di sfruttamento materiale’ (pag. 55). Su questo sfondo teorico, si trova la concezione di Adorno della natura come un soggetto in rapporto dialettico con l’idea di ragione.

Da questo punto teorico, dopo un passaggio sul pensare la natura come soggetto ‘senza cadere nel mero antropomorfismo o nell’animismo’ (pag. 57), Maurizi si sofferma sul fatto che – essendo la natura parte di sé – essa è ciò che non c’è mai stato e ciò che non è ancora. Attraverso un passaggio non chiarissimo, Maurizi utilizza Adorno per illustrare come sia il tempo a separarci dalla condizione di superamento delle contraddizioni della società odierna. Dato che l’individuo è irrilevante di fronte alle criticità odierne, non gli resta che vivere, sperando – a posteriori – di essere stato ‘un buon animale’ (pag. 63).

Maurizi conclude poi il saggio riflettendo sulla necessità di non allontanarsi più dall’animale, non rimuovendo la ‘comunanza corporea’ (pag. 64) che è possibile realizzare l’ideale etico.

Il contributo successivo è il turno di Derrida. Attraverso un elaborato e a tratti intricato saggio, Nogara Notarianni restituisce la complessità del pensiero del filosofo. Punto di partenza è l’uscire dal Discorso filosofico – in quanto il sapere è intriso di potere – in modo da conoscere davvero l’animale.

Per farlo, secondo Derrida è necessario uscire dal Discorso perdendo la propria postura, come Licaone trasformato in lupo. Attraverso ciò, ci si può liberare della teorizzazione degli animali per restituire sostanza. Stratagemma è utilizzare la ‘destrezza dell’istrice’ (pag. 74), essere finito che ‘sopra-vvive’ (pag. 74). Muovendosi da un gioco all’altro, scompare l’in quanto tale, rimanendo invece ciò che è istantaneo. Scomparendo il tempo, Nogara Notarianni ci porta in una dimensione in cui animali e umani sono creature nel gioco e non più Animale e Uomo. In questo modo si svela la verità: per Derrida, infatti, gli animali sono neutralizzati attraverso la naturalizzazione dal Discorso, attraverso quello che Derrida chiama un ‘addomesticamento antropomorfico’(pag. 78) della verità sugli animali, visti come soggetti subordinati. Conclude il saggio Nogara Notarianni riportando come per Derrida vedere gli animali è possibile perché da essi si è visti: ‘L’animale ci guarda, e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui’ (pag. 79, citando Derrida, 2014[4]) .

 

Dopo Derrida, il fascicolo passa dai ‘corpo a corpo’ agli ‘attraversamenti di confine’ (pag. 4), volti a mostrare le comunanze tra antispecismo con altri movimenti radicali. A iniziare questa sezione, Balzano offre un interessante e scorrevole saggio concentrato sui mammiferi marini e il mare, mostrando punti di contatto tra antispecismo ed ecologismo per un ecologismo multispecie. Dopo una serie di dati sulle emissioni e l’inquinamento causato da multinazionali dell’oil&gas e turismo, Balzano si concentra – con un discorso personale e in prima persona – sull’effetto dell’inquinamento della plastica sui mammiferi marini. Attraverso l’esempio di Siso – capodoglio intossicato e morto nel 2017 a causa di pesca intensiva, inquinamento acustico e inquinamento ambientale – Balzano riflette sul fatto che le plastiche nel suo stomaco sopravviveranno alla decomposizione del suo corpo. Discute poi del ruolo essenziale dei capodogli all’interno degli ecosistemi marini e del loro eccidio compiuto dal sistema produttivo capitalista. Alla crescita infinita del capitalismo, Balzano oppone le diatomee, che hanno un’importante capacità di autoregolazione della loro crescita, contraddicendo il mito delle specie in lotta per la sopravvivenza: solo attraverso un ragionamento comune e collettivo, si otterrebbe la liberazione degli individui, portando a una decrescita riproduttiva umana. Per Balzano, questa liberazione deve essere multispecie e transpecie: liberandoci dall’Uomo, l’animale in noi ‘farà la sua parte nella cospirazione per la giustizia riproduttiva multispecie’ (pag. 90).

Successivamente, Ferrante propone una riflessione su come il compost nutra il terreno dell’antispecismo. Attraverso una riflessione sulle ecologie, Ferrante intende queerizzare la natura, ossia disfare mondi allo scopo di renderli vivibili. Per scrivere il saggio – a partire da un ‘posizionamento femminista, queer ed ecologista’ (pag. 92) – Ferrante utilizza la tecnica diffrattiva. Partendo dalla domanda di cosa faccia un compost e di come si possa stabilire quale sia un buon compost, Ferrante ragiona sul concetto di scarto e sull’autonomia del compost rispetto al ‘progetto umano’ (pag. 94): un buon compost si stabilisce dalla sua capacità di trasformare e accogliere. Bisogna quindi saper riconoscere la capacità di agire, implicando la ‘respons-abilità’ (pag. 95) di osservare l’inosservabile.

La sfida di Ferrante è quella di rendere ‘il desiderio che fa del compost un corpo politico’ (pag. 97). Inizia quindi a tratteggiare nuove reti relazionali, arrivando alla conclusione che il compost è sì corpo, ma è la politica a qualificarlo. Quest’ultima, per Ferrante, corrisponde alla ‘pratica del fare relazioni’ (pag. 99). Il corpo queer si esprime nelle relazioni ed è fatto di desiderio. La ricerca di cosa faccia un buon compost si concentra quindi sulla forza che lo rende corpo. Per Ferrante, riterritorializzare è ‘un modo per reincarnare il problema’ e non di pacificazione dei conflitti. Perciò, riprendendo il concetto di fare mondi di Ghelfi, Ferrante conclude il suo illuminante saggio con una chiamata alla responsabilità nelle ecologie del comune, affinché diventino ‘terreno di proliferazione del conflitto’ (pag. 101).

 

Il contributo successivo, ad opera di Bosisio, ha come scopo l’aggiornare e complementare l’analisi marxiana con un focus sul lavoro invisibilizzato di donne e animali non umani, per poi andare ad argomentare quali siano le tecniche di naturalizzazione che producono corpi ri/produttivi umani e non umani.

Per farlo, Bosisio parte da una critica a Marx – basandosi anche sulle opere di Hribal – sostenendo la necessità di considerare gli animali non-umani come classe lavoratrice e non mezzi di produzione, portando avanti una riflessione già presente dagli anni Settanta nel femminismo. Attraverso una serie di chiari e ben argomentati esempi, Bosisio sottolinea l’invisibilizzazione del lavoro ri/produttivo di donne e animali non umani attraverso meccanismi di naturalizzazione della divisione sessuale (e di specie) del lavoro. Bosisio si sofferma poi sulla produzione delle figure di casalinghe e animalesse e sulla ‘loro invenzione come ri/produttrici di corpi e risorse appropriate dal capitalismo’ (pag. 109). Per farlo, riprendendo gli studi di Federici, Bosisio riflette su come le casalinghe siano frutto di un ‘vero e proprio processo di ingegneria sociale’ (pag. 109), e su come la zootecnia abbia avuto un ruolo simile nel plasmare le animalesse. Insomma, Bosisio nel suo breve, ma non di meno ricco, intervento riesce nel suo scopo dichiarato, ossia il far riconoscere come le forme di lavoro invisibilizzate siano ‘il risultato di tecniche di potere che cingono i corpi, li penetrano, modificano e plasmano tra morale e genetica’ (pag. 111).

 

L’ultimo ‘attraversamento di confine’ spetta a Stefanoni, con un saggio sulle connessioni tra razzismo e specismo. Lo scopo del saggio è di smantellare lo studio dello specismo per ‘analogia con razzismo’ – approccio utilizzato, ad esempio, da Singer e spesso accusato di etnocentrismo – per osservare ‘come e perché gli oggetti specismo e razzismo si co-costituiscono intersecandosi’ (pag. 113). Per farlo, Stefanoni riflette sull’eugenetica attraverso la figura di Grant. Importante eugenista statunitense e fervente sostenitore della ‘razza nordica’, Stefanoni ricorda anche il suo ruolo nella creazione dello Zoo del Bronx. Lo Zoo, infatti, veniva utilizzato per sostenere l’esistenza di habitat naturali e di nicchie ecologiche, ricercando la conservazione delle specie per naturalizzare una ‘autenticità’ usata anche per sostenere la ‘razza nordica’.

Oltre alla conservazione degli zoo, importante contributo all’eugenetica deriva dal modello zootecnico di allevamento animale che porta con sé sia l’invenzione del ‘mito del pedigree’, sia la selezione del migliore.

Stefanoni riflette come queste tecniche eugenetiche siano state poi applicate alle specie umane. In un contributo illuminante e originale, Stefanoni porta quindi a considerare il fatto che non solo il razzismo si basa sull’animalizzazione di alcuni umani, ma anche che è il razzismo a produrre le specie e le razze animali.

 

L’ultima sezione del fascicolo – definita ‘confronto de/costruttivo con altre acquisizioni teoriche’ (pag. 4) – si apre con un contributo di Rivera su specismo e antispecismo dedicato a una critica dell’antropologia.

Rivera parte dal mettere in discussione il dualismo Animale/Umano (oltre che Natura/Cultura) che caratterizza il modello di pensiero occidentale, ricordando sia la sua nascita derivante ‘da una piccola frazione di pensiero filosofico-occidentale-moderno’ (pag. 123), sia la sua parzialità rispetto ad altri sistemi di pensiero, sia le sue connessioni con altri dispositivi di dominio e oppressione (quali razzismo e sessismo). Successivamente, Rivera ricorda come l’animale sia stato de-animalizzato nella produzione industriale di massa, cosa che l’ha reso ‘il simbolo condensato dell’essere mercificabile’ (pag. 124). Ricorda però anche come la concezione dualistica dominante sia sempre stata messa in discussione da una corrente di pensiero minoritaria.

Dopodiché, Rivera si dedica a una disamina dell’antropologia – disciplina basata sulle dicotomie Natura/Cultura e Animalità/Umanità – ricordando come sia nata sulla base di un concetto di cultura ‘elaborato sulla base di una logica contrastiva’ (pag. 125), il cui scopo era studiare società in cui gli ‘animali’ facevano da sfondo. Rivera conclude dunque il suo contributo sostenendo la necessità che si metta da parte la concezione dell’antropologia come ‘scienza della cultura’ (pag. 126) in favore di una disciplina che possa studiare anche le collettività di soggettività non umane, le quali sono ‘legate alle società umane da una molteplicità infinita di correlazioni fattuali e simboliche’ (pag. 127).

L’ultimo intervento del fascicolo – a cura di Leghissa – si concentra sul confronto con la biologia e, in parte, con la tecnologia. L’obiettivo del saggio è quello di esporre alcune ragioni che – secondo l’autore – rendono la questione animale fondamentale sia per la filosofia sia per qualsiasi teoria critica del politico.

Punto di partenza è il fatto che chiunque ragioni lo faccia da un certo posizionamento – umano – che non può essere tralasciato. Successivamente, Leghissa propone una critica dell’animalità a partire dalla biologia, in quanto ‘nessuna filosofia dell’animalità è possibile senza un passaggio attraverso le scienze del vivente’ (pag. 130). Attraverso la biologia, Leghissa ricorda sia l’inesistenza delle separazioni di specie – e invece la presenza di interdipendenza tra esse -, sia la porosità del confine tra organismi e ambiente. Attraverso questi due elementi, Leghissa definisce il vivente come immerso in un processo che ‘ospita il decorso evolutivo determinato dalla selezione e dalla variazione’ (pag. 135). Leghissa passa poi a parlare del neodarwinismo e di come questa teoria si presti a cancellare ‘la dimensione storica dallo studio dei viventi’ (pag. 138), favorendo la naturalizzazione di forme di violenze. Infine, Leghissa si sofferma sul processo di sedentarizzazione dell’Homo sapiens – dovuto e favorito dal ‘material engagement’ di produzione di artefatti – e sulla nascita delle città in cui si instaura la ‘forma-Stato’, che procede in parallelo alla domesticazione di alcune specie vegetali e animali. In queste città-Stato, secondo Leghissa, inizia la diffusione di sistemi gerarchici ancora oggi presenti. Con ciò, Leghissa conclude il saggio – a mio parere ricco, interessante, ma forse un po’ troppo ambizioso – sottolineando la necessità di ‘non separare la storia naturale dalla storia delle tradizioni culturali e umane’ (pag. 143).

 

A conclusione di questa disamina, può essere utile tirare le fila, in particolare analizzando i contributi attraverso le lenti delle scienze sociali – campo disciplinare a cui appartengo. L’utilità di questa analisi sta nel fatto che la sociologia, come campo di studi, riesce a tenere assieme teoria e studio dei soggetti sociali, ma la sua capacità di leggere i fenomeni sociali deriva anche dalla sua propensione ad assorbire concetti concettuali e metodologici da altre discipline, tra cui anche la filosofia. Quest’ultima, infatti, condivide con la sociologia l’interrogazione sul comportamento umano. Pertanto, è bene mettere in comune gli strumenti per una migliore comprensione dei movimenti sociali, in particolare – in questo caso – quello antispecista.

 

Il fascicolo, infatti, fornisce numerosi contributi e strumenti utili per il movimento antispecista, nonché alcune chiavi di lettura che potrebbero essere prese in prestito e riadattate nel campo delle scienze sociali e politiche. In primis, la premessa getta le basi per studiare la macchina specista (e, per estensione, qualsiasi macchina generatrice di oppressione e sfruttamento). Dopodiché, ogni singolo saggio ha portato alla luce uno sforzo collettivo verso la decostruzione di specie e il compito di confrontarsi con pensatorə illustri è stato svolto egregiamente.

Oltre le già citate politica affermativa, nozione di movimento ed epistemologia situata come espressione di un posizionamento, ci sono altri concetti che vale la pena evidenziare: la disattivazione della macchina attraverso il gioco e la nozione di potenza penso siano preziose per sviluppare strategie de-antropocentriche; la temporalità limitata del soggetto può servire a definire la necessità dell’azione collettiva e a fuoriuscire dalla trappola della performatività individuale; il concetto di ‘addomesticamento antropomorfico’ è sicuramente uno strumento utile per spiegare i fenomeni di naturalizzazione e domesticazione degli animali non umani (e non solo).

 

Anche la sezione successiva è ricca di spunti, dal concetto di decrescita riproduttiva umana alla riterritorializzazione come proliferazione del conflitto, sino alle disamine del lavoro invisibilizzato delle soggettività marginalizzate e al ruolo dell’eugenetica nella produzione di specismo e razzismo.

Infine, dall’ultima sezione emergono spunti interessanti per le scienze sociali e politiche, in primis la necessità di ripensare l’antropologia per accogliere il non umano e studiare le collettività non umane, e successivamente la necessità di ripensare lo studio della storia eliminando la separazione tra quella ‘naturale’ e quella ‘umana’, necessità presente anche nelle riflessioni sulla storia di Chakrabarty[5].

 

Tuttavia, è da segnalare che alcuni contributi hanno una scrittura un po’ troppo settoriale, caratteristica che rende difficile carpirne i significati per chi ne è esterno. Inoltre, sebbene ogni singolo contributo rientri a suo modo nell’obiettivo del fascicolo di decostruire il concetto di specie, talora mancava un passaggio chiaro ed esplicito su come il proprio intervento contribuiva a fornire teoria, concetti e strumenti a movimento antispecista. Ciò detto, il fascicolo è nel suo insieme un esperimento interessante e ben riuscito.

Per tutti questi motivi, il fascicolo costituisce un mattone necessario e ben strutturato nella creazione di un antispecismo politico e intersezionale in cui le pratiche siano sostenute dalla teoria e la teoria sia volta alla creazione di pratiche. La speranza è poi che i contributi di tuttə lə autricə portino a comprendere la necessità per le altre lotte radicali di un approccio che sia finalmente multispecie, portando ad abbattere quel muro dicotomico che ancora troppo spesso divide tra Umano e Animale e porta a riprodurre gerarchie anche dove si cerca di abolirle.

 

Note

 

 

[1] C. Wolfe, Davanti alla legge. Umani e altri animali nella biopolitica (2012), trad. di C. Iuli, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 10.

[2] E. Castanò, “Nel luogo del linguaggio, o l’animale inoperoso”, prefazione a K. Attell, Gatti e zecche. Agamben e Derrida sull’animale (2014), trad. di F. Guercio, Novalogos, Aprilia 2023, p. 53.

[3] T.W. Adorno, Dialettica negativa (1966), trad. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 267.

[4] J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), trad. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2014, p. 68.

[5] Chakrabarty, Dipesh. “The Climate of History: Four Theses.” Critical Inquiry, vol. 35, no. 2, Jan. 2009, pp. 197–222, https://doi.org/10.1086/596640.

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