di Alberto Casadei

 

È importante innanzitutto notare che, nel nuovo romanzo L’anniversario, Andrea Bajani sviluppa temi ed episodi che erano stati indicati nel finale del Libro delle case (2021). Quel libro, costruito attraverso tappe scandite dalla permanenza in un determinato anno in case variamente definite, si concludeva in quella “dei ricordi fuoriusciti”: all’esibito straniamento del protagonista rispetto all’autore, al punto che il primo viene definito “Io” come se il puro pronome fosse un personaggio autonomo, sembrava far seguito nel finale un rivolo di narrazione non filtrata, che presentava da ultimo questo “Io” pronto a lasciare per sempre suo madre e suo padre.

 

Proprio da questo rivolo, e in diretta continuità, riparte L’anniversario di quell’evento, che comincia così: “L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi”. Un incipit perentorio, che inaugura quello che si direbbe un memoriale in diciannove capitoli, definito però con il sottotitolo “Un romanzo”. Ora, che Il libro delle case fosse appunto un romanzo, ricco di episodi cifrati di cui adesso capiamo meglio le implicazioni, debitore della tradizione narrativa tardo-modernista (Cortázar, Perec, l’amato Tabucchi ecc.) e in sintonia con un testo pressoché contemporaneo, Le ripetizioni di Giulio Mozzi, uscito sempre nel 2021, non si può mettere in discussione. Ma in che senso lo è un oggettivo e spietato resoconto di vita familiare, come appunto sembra essere il nuovo testo?

 

Sappiamo che a inizio Duemila ha preso piede una serie di forme narrative a base autobiografica, che però spesso hanno mirato al romanzesco o al fittizio dichiarato (come nell’autofiction); più di recente, molti testi si sono presentati come il resoconto di episodi relativi alla vita dell’autore, specie nell’ambito della famiglia. Sul modello di Lessico famigliare, per esempio, si è arrivati nel 2024 all’Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio, mentre Michele Mari ha proposto la sua “autobiografia horror” con Leggenda privata (2017) e Emanuele Trevi un ritratto del padre, di cui si tenta post mortem di decifrare gli enigmi (La casa del mago, 2023); e gli esempi, con Calandrone, Franchini ecc., potrebbero essere di molto aumentati. Superati i confini tra fittizio e non, questi testi possono persino essere accolti come non fiction, resoconto veritiero di cose accadute, ma al contempo lasciano sempre il lettore nella necessità di aggiustare lo sguardo: occorre uno sforzo per intuire cosa davvero raccontano queste elaborazioni, mai semplici trascrizioni di diari o appunti.

 

Nel caso dell’Anniversario, prevale il denudamento del narratore e protagonista, però gli elementi strettamente realistici sono solo parziali: si sa per esempio delle localizzazioni, con una toponomastica abbastanza riconoscibile (Roma e la costa laziale, Torino e località pedemontane ecc.), ma non sono mai indicati i nomi propri dei vari personaggi, padre, madre, sorella, moglie, psicoterapeuta, amica-pasticciera e così via. Pur trattando di vicende che risultano precise, nel testo si coglie insomma una tendenza a ‘spersonalizzare’, a cercare la verità psicologica valida al di là del caso presente. Ed ecco una madre che, pur partendo da condizioni favorevoli, si riduce a non agire in alcun modo per non entrare in contrasto con il marito; un padre che, pur capace di gesti anche generosi, pretende un controllo capillare su moglie e figli, soprattutto indiretto ma non per questo meno opprimente; un figlio disposto a tanti compromessi almeno sino ai suoi 41 anni, quando finalmente rompe i ponti con i genitori, come varie volte gli aveva chiesto di fare la sorella: tutte situazioni quotidiane uniche e insieme analoghe a quelle che possono essere accadute in qualunque famiglia italiana almeno sino alla fine del XX secolo (e certo anche oltre). Ma non è un mero quadro sociologico che emerge dal testo di Bajani.

Emerge ancor più lo sguardo straniato verso comportamenti che sono ‘normali’ soltanto se edulcorati e aggiustati, come per tanto tempo ha ritenuto di fare il narratore. Invece ora, in questo romanzo-non-fittizio, vengono messe a fuoco le ragioni della passività della madre, che sceglie di “essere niente” paradossalmente per poter “essere qualcosa agli occhi del marito”; di contrappunto, si capiscono i motivi delle improvvise violenze del padre, che sente di non avere un potere reale sul mondo esterno e di conseguenza ne esercita uno psicologico, e spesso pure fisico, su chi gli è vicino e sottomesso. Il fascismo italiano perenne trova qui una sua manifestazione fra le più ovvie e insieme drammatiche: tuttavia persino il padre, da ultimo, risulta annichilito dal non-amore che gli ritorna indietro.

 

Nel “dispositivo pensante del romanzo”, la madre, come in tante narrazioni contemporanee, è comunque la protagonista: dalla sua profonda negazione del vivere deriva la sua incapacità di svolgere nella famiglia un ruolo attivo che pure, nelle rare occasioni in cui si realizzava, portava attimi di gioia intensa al figlio. La domanda in fondo incongrua che, all’inizio e quasi alla fine del romanzo (la stessa scena proposta da angolature diverse), lei gli ha rivolto, ossia “Tornerai a trovarci?”, forse è stato il suo gesto di amore più autentico, quasi a dirgli: “salvati, lasciami per sempre”.

D’altra parte, non c’era mai stata una possibile salvezza per il figlio, che si era sempre limitato a cercare un perdono per colpe compiute quasi passivamente, avallando e smorzando la carica dirompente del padre: un puro memoriale si poteva limitare a ripercorrere un diagramma di momenti allucinati e violenti, sino a disegnare il quadro di una “famiglia sventurata”. Soltanto dopo un percorso terapeutico al di fuori dell’ortodossia psicanalitica, il figlio è riuscito a sfuggire alle sue nevrosi distruttive, a sancire quasi casualmente uno “sbrego” definitivo, e a reggere alla lontananza, ai ricatti perpetrati dal padre via lettere, sms o mail, in modo da costruire un suo nuovo, sottile equilibrio.

 

I commenti conclusivi, poche e scarne notizie su quanto è accaduto dopo l’abbandono, quasi come nel finale dell’Educazione sentimentale, riconducono i personaggi del memoriale a ruoli romanzeschi: senza il romanzo, le vicende di una madre quasi priva di storia, delle pulsioni aggressive di un padre, dell’inabissamento e della risalita di un figlio, non sarebbero state degne di essere narrate, come invece avviene qui, “dieci anni dopo”.

Ben diversamente da un’altra narrazione del rapporto genitori-figli, e in specie padre-figlio, quella di Invernale di Dario Voltolini (2024), nell’Anniversario si arriva soltanto a una tregua dal dolore, a un galleggiamento nella vita. Al di là dell’esito personale, tuttavia, in questo caso è evidente la valenza più alta del romanzo-non-fittizio. L’affermazione di un potere pervasivo nell’ambito di una famiglia, ancora coercitivo e foucaultiano benché velato da smorzamenti e considerazioni etiche, risulta dirompente perché esemplare. Se lo scopo della scrittura letteraria è di trascendere il ‘particolare’ per delineare categorie più vaste (un tempo si sarebbe detto generali), allora è giusto che la base di analisi autentica, riconoscibile in un memoriale, diventi invece un racconto che si può definire ‘romanzesco’, almeno in quanto espressione mediata di vicende che occorreva far conoscere per la loro intrinseca e collettiva emblematicità.

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