di Gianluca D’Andrea
[Esce in questi giorni per Industria & Letteratura il volume La foresta in cammino. Saggi, letture, recensioni (2004-2021) di Gianluca D’Andrea. NE anticipiamo qui la Prefazione dell’autore seguita da un saggio dedicato a Fabio Pusterla]
Chi vorrà entrare dentro le pagine di questo volume non troverà un percorso lineare ma una giustapposizione di tempi e luoghi, non un vero libro di critica ma un diramarsi di sentieri che, partendo dalla poesia (e non solo), spero possano aprire a riflessioni più ampie e eterogenee proponendo al lettore non un quadro delineato ma un complesso di suggestioni o, parafrasando Jean-Luc Nancy – pensatore guida per chi scrive – di «riflessi a migliaia […], segnali inviati nello spazio»[1]. È proprio la suggestione di un segno/segnale da cogliere e reindirizzare ad aver mosso le scelte dell’autore in merito ai saggi, le recensioni, insomma ai testi che si troveranno sfogliando il libro, e che provengono da scoperte casuali o intercettazioni provvisorie, certo legate al cammino di chi si è visto raggiungere dalle parole degli altri e che, per questo, manifestano tutta l’aleatorietà che contraddistingue le nostre esperienze. Eppure, in questa stessa imprevedibilità è avvertibile il senso di necessità di una relazione (fra chi legge e chi scrive, tra l’individuo e il mondo, tra l’io e l’altro?) che sempre il segno ci dà come improcrastinabile, nella tensione all’incontro che rende ancora plausibile l’esistenza su questo pianeta. Certo, non sarà la poesia a cambiare il mondo; eppure, l’autore è ancora convinto che incrociare la parola dell’altro – e la poesia è con ogni probabilità il segno di questa emergenza – possa scuotere, disorientare e riorientare, almeno è quello che è accaduto a lui nei quasi due decenni che circoscrivono la cronologia di questo volume.
Il lettore troverà nella suddivisione in tre parti e nei capitoli interni a esse, una scansione personalissima delle trasformazioni che i testi hanno provocato nell’autore nel tentativo di scandagliarli, magari per trovare qualcosa di inedito e comunque per allontanarsi dalle proprie abitudini interpretative, con tutto quello che ciò ha comportato in termini di idiosincrasie o appropriazioni indebite. Insomma, l’autore grazie all’affondo nei testi altrui ha provato a distanziarsi da se stesso e a osservarsi (come già detto con parole simili dal poeta tedesco Durs Grünbein in un suo saggio) dalla lontananza di un naufragio più volte replicato. E non sapendo se con gli strumenti giusti, ha provato a salvarsi – è questo l’unico viatico, minaccioso lo riconosce, che offre agli eventuali lettori-navigatori.
E sull’onda della minaccia, occorre dire qualche parola sul titolo della presente raccolta: La foresta in cammino, oltre al riferimento a una delle ossessioni dell’autore (tanto da diventare il tag più utilizzato per le sue foto su Instagram), quella del cammino reale e metaforico verso un dove che si scopre solo mentre si avanza senza obiettivi, un dove che è comunque presente nella scoperta e solo in essa costantemente ri-nominabile, è anche un omaggio ad alcuni titoli cari. In primo luogo al The Sacred Wood di Eliot, non tanto per creare parallelismi chiaramente impraticabili, ma per l’intreccio di voci che si delinea nelle due operazioni, quelle della tradizione in Eliot, quelle della contemporaneità in La foresta in cammino, in entrambi i casi si conferma l’idea di un «simultaneous order»[2], principalmente etico, tra le forme di scrittura altre che conformano quella del critico, soprattutto se lo stesso è anche poeta, e che anzi, proprio nell’ordito delle voci, fa comparire quella di un altro individuo. Eliot ha parlato di tradizione soprattutto in questi termini: «the most individual parts of his [del poeta] work may be those in which the dead poets, his ancestors, assert their immortality most vigorously»[3] ma l’autore ha preferito sostituire, quasi sempre, quei “poeti morti” con quelli vivi della sua contemporaneità, nella presunzione di interpretare la tradizione come una costellazione di pronunce diverse del presente che, in maniera del tutto autonoma, si collegano a quelle di un passato non più fissabile in un canone esclusivo. In buona sostanza, il bosco, pur presente nei suoi tracciati e percorsi, non è più sacro ma, per restare dentro la metafora, transitorio, anzi ancora più assoluto proprio nella sua a-storicità e la voce del poeta si fa più “impersonale” non in nome di una congetturata obiettività, bensì perché corroborata e cesellata dalla scelta libera di una “propria” tradizione.
Un altro riferimento, il cui nesso ancor più minaccioso non sarà sfuggito al lettore, è al Macbeth, alla celeberrima scena (IV, I) delle apparizioni profetiche e soprattutto della «Great Birnam Wood» che andrà contro Macbeth fin sull’«alto colle di Dunsinane». La foresta è in cammino, decisamente raggiungibile, ma per entrare seriamente nell’enigma interpretativo occorrerà viaggiare sulla superficie del linguaggio e scalarlo col rischio di perdersi nelle sue ambivalenze e nei suoi paradossi. Perché se è vero che la foresta è tutti i sentieri e le radure che la formano, è anche vero che nel suo cuore risiede la decodifica del mistero della parola, l’altra faccia della superficie, il riflesso immaginifico che non chiarisce alcun significato ma ne accerta l’arbitrio. Se poi lo si vorrà dire con Wallace Stevens per il quale, nel saggio L’immaginazione come valore in L’angelo necessario, «l’immaginazione è il potere della mente sulla potenzialità delle cose […] che non genera un valore specifico ma tanti valori quanti ne esistono nella potenzialità delle cose»[4], allora al lettore occorrerà l’arduo lavorio della scelta costante tra il senso e il suo opposto.
In chiusura vorrei ringraziare Gabriel Del Sarto, poeta e editore che ha reso possibile la pubblicazione di questo libro, ma soprattutto amico e compagno nel cammino dentro la foresta.
G. D.
Archeologia e comunità: Appunti sull’opera di Fabio Pusterla
La familiarità con un mondo nato da una ricerca assidua e ostinata, completa nella scelta di una direzione che conduce alla riscoperta di appartenenza alla communitas umana, alla specie vivente, è ciò che mi spinge a provare un excursus nell’opera, in tal senso significativa, di Fabio Pusterla.
Sin dagli esordi è avvertibile la tendenza allo scavo, all’”erosione” linguistica in funzione testimoniale:
Le parentesi
L’erosione
cancellerà le Alpi, prima scavando valli,
poi ripidi burroni, vuoti insanabili
che preludono al crollo. Lo scricchiolio
sarà il segnale di fuga: questo il verdetto.
Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali,
le pause di riposo, i sassi rotolanti,
le caverne e le piane paludose.
Nel mondo Nuovo rimarranno, cadute
principali e alberi sintattici, sperse
certezze e affermazioni,
le parentesi, gli incisi e le interiezioni:
le palafitte del domani[5].
Se la lingua appare residuo archeologico, luogo minimo di un sapere sempre più fagocitato dal tempo, allora la tensione di chi aderisce totalmente a questa protesi millenaria si fa coraggio emancipante, urlo attenuato, emblema di una sobrietà da sparare addosso a chi fa, della stessa protesi, una possibilità offuscante e falsificatrice: in Heteroptera[6] è proprio questo scontro tra possibilità linguistiche ad essere focalizzato:
Heteroptera
O anche quando vengono
– le lunghe code, i ranghi,
e le frotte impazzate, intristite –
patetici, anacolutici
e ci snodano
i serpenti sintattici, malefici
crotali, a voce o in bollettini
anastatici,
giocandoci poi come gli acrobati
– gli applausi, i panegirici
i grafici economici i tagli indispensabili
alle spese sociali i purtroppo inevitabili
sacrifici –
famelici, energetici
questi cari
politici.
La lotta di una lingua che sia in grado di “dire”, oltre il dubbio della possibile inutilità delle parole, caratterizza l’operazione di Pusterla, un agonismo nella profonda agonia dell’eredità del Novecento, e della crisi che ne è scaturita. Con sempre maggior vigore, raccolta dopo raccolta, il dubbio “ossessivo” che domina questa poesia, quello “lombardo”, “sereniano”, che può riassumersi nella sconfitta del messaggio comunicabile, della trasmissione, e che, evidentemente, caratterizza l’ambivalenza di Stella variabile, tende a frantumarsi e ricomporsi nella consapevolezza che dal poco rimasto, dall’umiltà del sacrificio, può ricostituirsi la speranza.
Analizzando Gli strumenti umani, Mengaldo ci avverte di come questa raccolta nasca «da un processo di crisi del linguaggio, in margine o meglio nonostante una congenita difficoltà di dirsi, di parlare, una sfiducia nella labilità e consunzione delle parole, e relativa sfiducia nelle loro possibilità di ricezione»[7], per questo il dubbio, di matrice ermetica, di Sereni, anticipa, nel balbettio della ripetizione, un nuovo sbocco comunicativo che la raccolta successiva non sembra proseguire.
Il racconto in versi che tenta Sereni, si veda a titolo esemplificativo il componimento La poesia è una passione?[8], si fa auspicio e tensione in Pusterla. Nella raccolta Bocksten[9], il poemetto centrale omonimo riflette questa tendenza e, inoltre, ciò che più conta, spalanca la possibilità che la memoria sia l’attenzione al nostro passato, trasmissibile attraverso un lavoro archeologico che stia oltre la colpa e qualsiasi ambivalenza del dire, in piena immersione mimetica nel molteplice. Il poeta sembra farsi reporter di questa perlustrazione, raccoglie i reperti e li illustra, si fa contagiare. Si spiega, in questo modo, anche il nesso “evolutivo” di questa poetica del dire che si dirige, partendo proprio dai dati riscontrabili, verso le potenzialità affabulatorie della testimonianza, superando la mera narrazione e riscoprendo il mythos.
Attraverso lo scavo è possibile portare alla luce la ritualità delle azioni umane (come è leggibile nell’opera di René Girard[10]), enucleando le potenzialità di un racconto che da “storia” trascenda a mito fondativo di una comunità. Si svela, così, l’interesse per i legami basilari, oserei dire “tribali”; Pusterla si colloca alla loro sorgente e nascono così i componimenti dedicati alla famiglia e all’infanzia, sempre più insistenti a partire da Le cose senza storia[11].
In Visita notturna[12], troviamo ancora un parallelismo con una poesia de Gli strumenti umani: Quei bambini che giocano[13], dove è manifesta la colpa dei padri, irredimibile a causa «del corrotto intendimento»[14] della storia; la poesia di Pusterla ci mostra il paesaggio preannunciato da Sereni nella ripetitività asfittica del quotidiano, ma il padre adesso chiede di essere salvato, spera che la sostanza del gioco dei bambini possa cambiare le sorti annunciate dallo sbaglio e dalla falsità presenti ne Gli strumenti umani.
Questo rapporto generazionale è un altro sintomo della tensione archeologica presente nell’opera di Pusterla, parte di quello scavo che cerca di mantenere vivo, rintracciandone le radici, il nostro essere in comune, l’ecosistema o campo d’azione, in cui l’essere chiamato uomo ha sviluppato il suo percorso, senza timori nell’osservare ad occhi “nudi” le banalità del male.
Se, come dice Girard, «bisognerebbe rinunciare una volta per tutte al giuoco dei buoni e dei cattivi […]; bisognerebbe riconoscere che il misconoscimento è in ogni dove, che la violenza è dappertutto, che essa non è vinta»[15], allora nessun altrove di senso può apparire: «il passo è qui, la fuga un’altra strada»[16].
La relazione, da una parte tra memoria e conoscenza, dall’altra tra oblio e ignoranza, è frutto di un antagonismo millenario, che mette l’uomo di fronte alla natura, creando quella alienazione che ha contraddistinto i nostri passi fino al presente: «Labor omnia vicit / improbus et duris urgens in rebus egestas»[17], solo il nuovo sacrificio, il lavoro paziente sul campo delle parole, restituendo la memoria alla comunità, può salvaguardarne la sopravvivenza. «How fondly will she then repay / Thy homage offer’d at her shrine, / And blend, while ages roll away, / Her name immortally with thine!»[18]; forse nessuna ricompensa risarcirà questo lavorio, nel setaccio forse resterà un briciolo di constatazione, umile, ma non per questo meno vera. Se il mondo non è nient’altro che il pianeta-conglomerato in cui ci è toccato vivere, perché non continuare a ricordare che si tratta pur sempre della nostra unica dimora? Questo sentimento necessario di appartenenza emerge da un componimento di Pietra sangue:
Isla persa
Crepacci la circondano, le smorfie
raggelate del ghiaccio che si sgretola. Dall’alto
franano sordi blocchi di granito.
E se un camoscio, o uno stambecco troppo audace,
si avventurasse sui costoni e con uno scarto
nervoso scivolasse sulle pietraie in un gorgo di luce,
qui sarebbe inghiottito e nessuno lo saprebbe mai[19].
L’immagine di questo massiccio che si staglia in mezzo al ghiacciaio del Bernina (come si legge nella nota dell’autore), ritaglia un movimento metonimico per cui lo stesso massiccio diventa figura del mondo e della precarietà della sua esistenza, che rischia di essere dimenticata senza alcuna testimonianza: «Ma eravamo qui, a custodire la voce»[20], qualcuno tiene duro, è presente dove l’oblio incombe, dentro un turbine senza appigli che ricorda la bufera di dantesca memoria e richiama il nostro presente, la turbo-informazione che ne struttura le intercapedini creando buchi di memoria a velocità inimmaginabili. Il linguaggio della poesia, allora, in questi termini, concede una speranza, un orientamento, e lo fa dicendoci la nostra dispersione.
Ora occorre spendere qualche parola sulla pietas e sul rapporto con la fanciullezza, a tale scopo si riportano questi versi:
Le prime fragole
Strisci nell’erba bianca di margherite.
Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa,
e nella mano destra un pelacarote che infilzi
nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando
lentamente nel folto del prato. Sdraiato
sull’erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando
l’Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di gioia.
Strisciavi ieri nel tuo Everest di margherite
e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto la radio
in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare felice
e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer a Gaza
tu prepari una pozione con piume d’uccello per imparare a volare
io ti preparo le prime fragole rosse dell’anno e mi chiedo se gli occhi
dell’uomo che guidava il panzer avranno capito[21].
L’immaginazione cresce spontanea, il gioco articola un mondo, creando connessioni inaudite eppure familiari, l’infanzia è questa capacità primordiale di manipolare oggetti e contesto: in questi gesti è presente la storia umana, ma questa storia, la testimonianza che ogni bambino è, può essere distrutta. Ecco perché è un dovere intrecciare la salvaguardia al sentimento della pietas che, concedendo vera empatia, dona il trasporto necessario alla compassione e alla contemplazione dell’esistere. Occorre riflettere sui nostri limiti, sulla continenza in funzione della cura dell’altro, per permettere l’accesso a quella vacanza privilegiata che è la curiosità. Per questo nelle poesie di Pusterla si avverte un senso di sospensione e lentezza che coglie l’essenziale: selezionare e conservare qualcosa di universalmente valido.
Si spiegano, così, le incursioni nei territori della favola, come a voler rintracciare le origini di una morale intima alla creazione umana. In Sinsigalli[22], una favola moderna nata per gioco a detta dell’autore in nota, a essere affermata è la possibilità di una resa che, evitando il possesso e la potenza individualistica, apre alla liberazione del canto, all’indeterminatezza e al dubbio che permettono l’esistenza. La morale implicita, il messaggio rivolto ai lettori senza distinzione d’età, come tutte le favole degne di nota, sogna questa nuova apertura svincolata da ogni forma di presenzialismo: «Non afferrare: cosa vuol dire? Si chiede il sinsigallo. Sa cosa vuol dire in termine di negazione; ignora cosa significhi affermativamente. Qualcosa che non sia possesso, che non sia conquista. Una resa incondizionata: è possibile? Dove conduce? Se ci fosse una risposta, le terre non sarebbero più sconosciute e spaventose; tutto sarebbe facile e banale. E inutile anche: un altro parco per viaggi premio di carrubi e carrube. Questo sa il sinsigallo: sono le domande a contare, come finestre di luce nelle tenebre»[23].
Occorre, adesso, osservare da vicino l’ultima fatica poetica di Pusterla, per capire stabilmente e confermare il percorso fin qui analizzato.
Il punto di partenza è sempre lo stesso: la sorpresa di un frammento, di un minimo germoglio all’interno di un paesaggio appiattito, comune nella sua ripetitività. Da questo grigiore neutro emerge «un segno sull’acqua»[24] che umilmente fa breccia nello stato d’animo del soggetto e lo sconvolge. Stlanik[25], il poemetto che inaugura la prima sezione di Corpo stellare, ci racconta del «pino prostrato» che preannuncia la primavera e dei tre autori-guida del poeta: Jaccottet, Celan e Mandel’štam, tre figure che, immerse nel dolore, hanno trovato barlumi di rinascita attraverso la parola, intesa come adattamento e forza, anche se momentanea, soprattutto per gli ultimi due, e come grazia per il poco offerto dall’esistenza, per Jaccottet. Adattamento, forza e grazia sono caratteristiche dell’umile “Stlanik” e dell’armadillo che, contrariamente ad ogni previsione, trova nei territori gelidi del nord del continente americano il suo habitat: laddove un minimo barbaglio rende fertile un nuovo campo di luce.
«La nostra debolezza era dunque così forte»[26], un richiamo all’ultimo Fortini sembra un obbligo, laddove il programma di Pusterla, cercando una speranza nei minimi accadimenti che segnano una resistenza all’entropia dilagante, si fa più conscio esaltando ciò che preparavano le raccolte precedenti.
La carrellata allegorica dei maiali portati al macello che cantano la vita prima del colpo finale o i cani, testimoni di episodi nefandi della storia creata dall’uomo, e ancora, gli animali estinti e impagliati, dispiegano analogicamente le risultanti di un percorso: quello della sopravvivenza e della memoria. Il sacrificio di questi esseri fragili di fronte alla strapotenza umana, testimonia la vita effettiva del dolore e della luce. Questa vita che sogna la sua trasformazione, il desiderio e la beffa che un uomo, “ricostruito” per rassicurarci sulla nostra origine, perpetua, subendo il gioco fittizio e fondante allo stesso tempo, perché ci ha reso quel che siamo, della manipolazione. Il ciclo Uomo dell’alba[27], nella seconda sezione, ci parla di questo ma anche, e soprattutto, di una scelta, di un desiderio inverso: l’uomo manipolato chiede l’alba, il movimento, la direzione senza schemi e, quindi, il disorientamento della nostra nascita animale. Per questo a raggiungerci è la richiesta: «Leggetemi al contrario: sono il viaggio / da compiere, la meta non raggiunta, / il corpo da ritrovare»[28].
La ricerca, lo scavo, il ritrovamento tra macerie, costituiscono i temi portanti di questa archeologia della parola, lo dicevamo. Essi sono, inoltre, collegati alla speranza generazionale, che si oppone alla sfiducia collettiva derivante dalla caduta di ogni utopia sociale, e che assume connotati specifici nella figura del figlio: il dittico Lettere da Babel[29], tenta di sbrogliare la confusione storica nata dalla perdita di questa «speranza collettiva»[30], ma parla anche della gioia assurda di sperare, senza consolazioni, nella certezza che, nel giro inarrestabile dei giorni, «TOMORROW IS NOW»[31].
La volpe che s’incontra nella terza sezione, subito dopo Lettere da Babel, infatti, è «perduta oltre ogni dove. E qui cammina»[32], ancora una volta il senso di spaesamento, di stampo novecentesco verrebbe da dire, coglie dei punti fermi guizzando dalla constatazione dell’inevitabilità degli eventi. La realtà s’illumina dove tutto appare perduto: al limite dell’esistenza, nella necessità scabra, purificata all’essenziale della sussistenza.
Tutti siamo coinvolti, nel nostro procedere stentato, attendiamo quell’attimo di pienezza che deriva dal desiderio di continuare, che realizza la nostra appartenenza comune, l’univocità che ci assimila al ritmo del cosmo. Chi leggerà Corpo stellare, sarà colpito da questo abbraccio totale quando giungerà a pagina 104. Ne I gesti del lavoro[33] si tocca il vertice del libro:
I gesti del lavoro
E poi talvolta dai gesti opachi del lavoro
scivola fuori il motivo di una danza.
Allora le mani accarezzano l’aria
le braccia diventano i rami di un melo che si aprono
verso la luce, e salutano qualcosa.
E gli altri sono qui, tutti qui insieme:
tutti nel gesto, tutti nel movimento
di una mano che attraversa ere biologiche,
stringe una sabbia lontanissima,
un cacciavite, un martello, un amo, una lama di selce,
la pelle tiepida di un animale scomparso,
un sasso caldo di fuoco,
un sesso vivo.
Allora è grano, semi di cereali, vento
che muove i passi, e canta: sotto i piedi
ci sono le grandi pianure, le pietre bianche
di strade bianche di strade che portano al mare,
feste di stagione.
Allora seguo le oche selvatiche, i branchi di pesci,
so tutti gli odori del bosco, i percorsi dell’acqua,
risalgo la schiena d’erba delle montagne,
le valli del cielo.
Perché talvolta dai poveri gesti del mio lavoro
scivola fuori il motivo di una danza.
Allora non ho più peso, e sono libero
in fondo al mio segreto quotidiano.
E se la luce si fa più lontana
ne custodisco l’assenza.
L’assenza che chiude la poesia è la chiave di volta del pensiero dell’autore: abitare il luogo inarginabile che è l’universo, l’inafferrabile tutto «che nessuna parola può dire e che in ogni parola / risuona come l’eco di un lento respiro»[34]. Quest’attimo di pienezza è il “corpo stellare” del titolo, per questo ogni accostamento al titolo famoso di Sereni (mi riferisco ovviamente a Stella variabile) mi sembra fuori luogo, poiché in quest’ultimo testo niente è più lontano dalla possibilità di esaltazione appena constatata in quello di Pusterla.
Le Storie dell’armadillo[35] continuano, sulla scia di Zurigo HB, l’incessante lavorio sulla necessità e, infatti, l’animaletto «…Va perché va, / perché bisogna andare, perché il mondo / è grande, il tempo breve…»[36]. Il cammino procede, lentamente ma caparbiamente, la parola scivola nel futuro, in un nuovo possibile mythos, sotterranea e, per questo, forse vera, senza presunzioni o slanci deformanti, umile, striscia su una realtà da re-inventare.
La vera potenza della parola, l’affabulazione, scaturisce dalla fatica di chi, quotidianamente, cerca di mantenersi vigile rispetto all’essenziale, rendendo i «passi vaghi»[37] dell’armadillo-poesia pronti ad andare «da qualche parte»[38], «…verso i tempi a venire e le montagne / gelate, e i grandi laghi»[39].
Nella quarta sezione del libro, la commistione tra il ritrovamento e l’estinzione, come espressione dei due aspetti umani dello scavo, atto a recuperare il passato ma, allo stesso tempo, esposto al rischio dell’oblio, è presentato in Da Marmorera (pensando a Brassempouy)[40]. La riflessione si sposta sull’abitare, sulla dimora e sulla conservazione di un ecosistema d’appartenenza. Il quadro “ecologico” della salvaguardia assume un risvolto molto personale, il poeta prova a focalizzare un’esigenza e osa diventare “cantore” del disagio della scomparsa: «La mia casa si chiama Resistenza e qui tendo l’orecchio»[41]. «Memoria e vertigine»[42] che cadono «Fino al basalto, i gorghi»[43], per conservare nella parola, «preservare i luoghi inaccessibili»[44], addirittura salvaguardare un ambiente che corre verso un mutamento irrimediabile: «Proteggere il silenzio con parole / minime, rispettose, memorabili»[45].
La salvaguardia, dopo un attraversamento personale e storico, personale perché storico, forma un parallelismo tematico con un altro autore, il quale, sin dalle origini del suo lavoro, si è interessato all’aspetto “testimoniante” della parola poetica, alla possibilità che essa, da “memoria”, si faccia indicazione e, infine, cammino:
E tu ti decomponi nel ritratto di San Rocco
Al Sacro Monte, quasi gli somigli,
perdi un pezzo ogni anno, ogni stagione
Ti scompare un colore, tu svanisci
Ma se riuscissi dio mio se riuscissi
Testolina di logos contro mythos che sono
A far rimare sera con preghiera
Come Vincenzo Cardarelli
Per negare e annegare
Il nucleo d’ordine dentro la parola
Dei vecchi poeti fumatori
Con le rughe a tagliarsi le guance,
Una gramigna che l’asfalto quasi
Non riesce più a contenere[46].
Le poetiche di Franco Buffoni e Fabio Pusterla sono accostabili, in primo luogo, per aver riscattato Sereni, scegliendo di avere fede (per quanto minima) nella parola poetica, poi perché entrambi hanno deciso di raccontare testimoniando, aprendo la possibilità di una nuova aderenza al reale che permetta di ristabilire un contatto con la comunità. Anche per questo, alla base di queste due ricerche, troviamo una lingua semplice e comunicativa che non si carica di nessuna tentazione per l’inaudito.
Alla luce di quanto esposto, il messaggio di Corpo stellare emerge dall’indefinito, dal precario dell’esistente, in direzione del quale vale comunque la pena dirigersi: «Bisognava cercare: / ma cosa? La cosa introvabile, / certo. La cosa scordata che non si può dire, / la cosa più inutile. Stella / di spine e di carne, stella di sguardi e di suoni. / La riva più dolce di un fiume / desolato»[47]; «Le ali servono adesso a volare al contrario / a calare nel buio»[48], a sprofondare verso l’ignoto, con la consapevolezza, però, di avere una storia, nuovamente, un contatto con la nostra irrevocabilità, con la fragilità che il fatto d’essere comporta. Solo questa fragilità, «la debolezza / che vince la forza»[49], è il dono colmo di responsabilità che ereditiamo dal Novecento. Eppure, da questo minimo vibrare, se vogliamo credere a Corpo stellare e a tutta l’opera di Pusterla, può accendersi «ancora un po’ di speranza, d’amore»[50].
Note
[«puntocritico2», dicembre 2012]; [«Gianluca D’Andrea», dicembre 2012]
[1] J. L. Nancy, La città lontana, a cura di P. Di Vittorio, ombre corte, Verona 2002, p. 41 (corsivo mio).
[2] T. S. Eliot, Tradition and the Individuals Talent,
https://www.poetryfoundation.org/articles/69400/tradition-and-the-individual-talent, consultato il 04/08/2023.
[3] Ibid.
[4] W. Stevens, L’Immaginazione come valore, in L’angelo necessario, a cura di M. Bacigalupo, trad. it. di G. Scatasta, SE, Milano 2000, p. 117.
[5] F. Pusterla, Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, Einaudi, Torino 2009, p. 5; già in Concessione all’inverno, Casagrande, Bellinzona 1985 e 20012.
[6] Ivi, p. 11.
[7] P. V. Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, postfazione a Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975, già in «Strumenti Critici 17», anno VI, febbraio 1972, fasc. I.
[8] V. Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975, p. 55.
«La poesia è una passione? // L’abbraccio che respinge e non unisce – / il mento fermo piantato sulla spalla / di lei, lo sguardo fisso e torvo: / storia d’altri e, già vecchia, di loro. / Moriva d’apprensione e gelosia / al punto di volersi morto, di volerlo / veramente, lì tra le braccia di lei. / Rabbiosamente non voleva sciogliersi. / Chi cederà per primo? La domenica / d’agosto era, fuori, al suo colmo / e tutta Italia sulle piazze / nei viali e nei bar ferma ai televisori… / Un gesto appena, – si disse – cerca d’essere uomo / e sarai fuori dalla stregata cerchia. / E, la convulsa stretta perdurando / (che lei d’istinto addoppiava), / alla cieca una mano errò sull’apparecchio, agì / sulla manopola: nella stanza / fu di colpo la gara, si frappose fra loro. // Il campione che dicono finito, / che pareva intoccabile dallo schermo del tempo / e per minimi segni da una stagione all’altra / di sé fa dire che più non ce la fa e invece / nella corsa che per lui è alla morte / ancora ce la fa, è quello il suo campione. / Lo si aspettava all’ultimo chilometro: / «se vedremo spuntare / laggiù una certa maglia…» e qualcosa l’annuncia, / un movimento di gente giù alla curva, / uno stormire di voci che si approssima / un clamore un boato, è incredibile è lui / è solo s’è rialzato ha staccato le mani / ce l’ha fatta… e dunque anch’io / posso ancora riprendermi, stravincere. / S’erano intanto gli occhi raddolciti / e di poco allentandosi la stretta / s’inteneriva, acquistava altro senso, ritornava / altrimenti violenta. / Per una voce irrotta nella stanza… // L’istinto che non la tradisce / scocca esatto sempre al momento giusto / tra i suoi pensieri semplici. / Sa capire il suo uomo: lo sa bene che più / suppone lui di stravincere a sé meglio l’avvince / e fin che vorrà se lo tiene. / «Caro – gli dice all’orecchio – amore mio…» / E la domenica chiara è ancora in cielo, / folto di verde il viale e di uccelli / non ancora spettrali case e grattacieli, / solo un po’ più nitidi a quest’ora / di avanzato meriggio dell’ultima domenica / di questa nostra estate. E se a lui pare / che un brivido percettibile appena / s’inoltri nel soffio ancora tiepido che approda / alla terrazza: anche agosto / – lei dice d’un tratto ricordandosi – / anche agosto andato è per sempre… // Sì li ho amati anch’io questi versi… / anche troppo per i miei gusti. Ma era / il solo libro uscito dal bagaglio / d’uno di noi. Vollero che li leggessi. / per tre per quattro / pomeriggi di seguito scendendo / dal verde bottiglia della Drina a Larissa accecante / la tradotta balcanica. Quei versi / li sentivo lontani / molto lontani da noi: ma era quanto restava, / un modo di parlare tra noi – / sorridenti o presaghi fiduciosi o allarmati / credendo nella guerra o non credendoci – / in quell’estate di ferro. / Forse nessuno l’ha colto così bene / questo momento dell’anno. Ma / – e si guardava attorno tra i tetti che abbuiavano / e le prime serpeggianti luci cittadine – / sono andati anche loro di là dai fiumi sereni, / è altra roba altro agosto, / non tocca quegli alberi o quei tetti, / vive e muore e sé piange / ma altrove, ma molto molto lontano da qui».
[9] F. Pusterla, Bocksten, Marcos y Marcos, Milano 1989 e 20032.
[10] Si consulti l’opera più nota dell’autore francese per entrare nel merito della questione: La violence et le sacré (1972), trad. it. La violenza e il sacro, a cura di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980.
[11] F. Pusterla, Le cose senza storia, Marcos y Marcos, Milano 1994 e 20072.
[12] Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 44. Si riporta per intero il testo: «Visita notturna // Stai sognando / cratassi, tirabraccia, il drago soffia-naso. / Chissà cosa sognava Anna Brichtova, che stanotte / viene a trovarci con il suo mosaico / di carte colorate: la sua casa / col tetto rosso, gli alberi / nel prato verde, il cielo: e fuori un lager. / Questo è il vero regalo / che ho portato da Praga senza dirtelo. / Era con me sul treno, la mattina / che ho creduto di vivere all’inferno: Stoccarda, / o giù di lí, dentro un ronzare / di gente che lavora a non sa cosa / o per chi, ma lavora, preme tasti, / invia messaggi a ignoti dentro l’aria. / Solo occhi e dita, solo / un giorno dopo l’altro, smisurato / trascorrere di un tempo che non varia, che appartiene / per sempre ad altri, / ad altro che a sé stessi, e la paura, l’odio / del paria contro il paria, questa rissa / d’anime perse, nuovi schiavi. Il Grande / Bevitore di Birra, la Donna Occhi nel Vuoto, / Mazinga: i miei compagni di viaggio. / Chissà cosa sognava Anna Brichtova, / e cosa sogni tu, e come vedete / il mondo voi bambini. Lo troverete, / fra i vostri giochi, il gioco che ci salvi? // Noi tutti lo speriamo / guardandovi dormire».
[13] V. Sereni, Gli strumenti umani, cit., p. 35: «Quei bambini che giocano // un giorno perdoneranno / se presto ci togliamo di mezzo. / Perdoneranno. Un giorno. / Ma la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false piste/ l’emorragia dei giorni / dal varco del corrotto intendimento: / questo no, non lo perdoneranno. / Non si perdona a una donna un amore bugiardo, / l’ameno paesaggio d’acque e foglie / che si squarcia svelando / radici putrefatte, melma nera, / «D’amore non esistono peccati, / s’infuriava un poeta ai tardi anni, / esistono soltanto peccati contro l’amore». / E questi no, non li perdoneranno».
[14] Ivi., v. 8.
[15] R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 281.
[16] Arte della fuga, in Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 67, v. 11.
[17] Virgilio, Georgiche, Rizzoli, Milano 1983, trad. di L. Canali, p. 174, I, vv. 145-146: «Tutto vince / il faticoso lavoro e il bisogno che incalza nell’avversità».
[18] G. Byron, Lines Written On A Blank Leaf Of ‘The Pleasures Of Memory’, in I giullari del tempo, Rizzoli – Corriere della Sera, Milano 2012, a cura di F. Buffoni.
[19] Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 90; già in Pietra sangue, Marcos y Marcos, Milano 1999.
[20] A quelli che verranno, ivi, p. 101, v. 6.
[21] Ivi, p. 146; già in Folla sommersa, Marcos y Marcos, Milano 2004.
[22] F. Pusterla, Sinsigalli, Edizioni d’if, Napoli 2010.
[23] Ivi, p. 47.
[24] F. Pusterla, Corpo stellare, Marcos y Marcos, Milano 2010; Con piccole ali, p. 11, v. 7.
[25] Ivi, p. 15.
[26] F. Fortini, Dimmi, tu conoscevi…, in Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994, p. 9, v. 11.
[27] Corpo stellare, cit., p. 56.
[28] Ivi, p. 65, vv. 7-9.
[29] Ivi, p. 95.
[30] Ivi, p. 97, v. 54.
[31] Ivi, p. 99, v. 33.
[32] Ivi, Zurigo HB, p. 103, v. 10.
[33] Ivi, p. 104.
[34] Ivi, p. 106, vv. 8-9.
[35] Ivi, p. 120.
[36] Ivi, p. 121, vv. 3-5.
[37] Ivi, p. 128, v. 9.
[38] Ibid., v. 10.
[39] Ibid., vv. 14-15.
[40] Ivi, p. 145.
[41] Ivi, p. 146, v. 33.
[42] Ivi, p. 147, v. 43.
[43] Ivi, Scablands, p. 150, v. 1.
[44] Ivi, p. 156, v. 2.
[45] Ibid., vv. 6-7.
[46] F. Buffoni, Il profilo del Rosa, Mondadori, Milano 2000, p. 81.
[47] Corpo stellare, cit., Abbozzo degli aerei e delle ali p. 203, vv. 19-25.
[48] Ivi, p. 205, vv. 19-20.
[49] Ivi, Thou Shalt Not Die, p. 208, vv. 19-20.
[50] Ivi, p. 209, v. 34.
[Immagine: Jack Spencer, Lianas, Cumberland Island, GA, 2007 (particolare)].