di Andrea Cortellessa

 

«Progetto di racconto. Due scrittori, abitanti in due chalets su opposti versanti della valle, s’osservano a vicenda. […] Uno dei due è uno scrittore produttivo, l’altro è uno scrittore tormentato». Questi disprezza l’altro, niente più che «un abile artigiano», ma segretamente ne invidia la «metodica sicurezza», ne ammira la «fiducia nella comunicazione». Il primo non s’è mai raccapezzato in quello che scrive l’altro, ma ora lo osserva mentre «si siede alla scrivania, si mangia le unghie, si gratta, strappa un foglio […], ricopia una pagina già scritta e poi la cancella tutta riga per riga […], poi scrive alcuni appunti che verranno buoni non ora ma forse in seguito […], strappa due fogli, mette un disco di Ravel». E «sente che quest’uomo sta lottando con qualcosa d’oscuro, un groviglio, una strada da scavare che non si sa dove porta; alle volte gli sembra di vederlo camminare su una corda sospesa sul vuoto e si sente preso da un sentimento d’ammirazione». Chi scrive questo apologo, su sé e il proprio antipode (che finiranno per scambiarsi di posto, in un chiasmo à la Borges), è «Silas Flannery», il giallista avatar di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore. L’altro si riconosce da una sphraghìs, un’antica passione: «s’alza per andare in cucina a farsi un caffè, poi un tè, poi una camomilla, poi legge una poesia di Hölderlin (mentre è chiaro che Hölderlin non c’entra per niente con ciò che sta scrivendo)».

 

A Hölderlin aveva dedicato la sua tesi di laurea, a Messina nel 1942, Stefano D’Arrigo: e ne aveva parlato in una nota usata da Elio Vittorini per presentarlo sul numero del ’60 della rivista che faceva appunto con Calvino, «Il Menabò» (la pubblica per la prima volta, insieme ad altri documenti preziosi, Siriana Sgavicchia in appendice alla nuova edizione di Horcynus Orca). L’«infelice poeta» incarnava il «conflitto fra poesia e follia, fra civiltà e barbarie»: quella follia e quella barbarie che di lì a un anno avrebbero messo a ferro e fuoco la sua Sicilia. Come ha visto Giancarlo Alfano, quello di D’Arrigo è soprattutto un poema sugli «effetti della guerra»: il «paese guasto» dello Stretto è appestato dal sangue del Mostro marino ferito, epifania mitica della devastazione bellica (l’eliotiana Waste Land era forse il suo primo livre de chevet). E l’autodistruzione cui si votano i titani psicotici di Hölderlin, Iperione ed Empedocle (entrambi infatuati della Sicilia, dove mai il loro artefice aveva messo piede: il secondo si getterà tra le fiamme dell’Etna), è forse la stessa cui andrà incontro il protagonista di D’Arrigo, «il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa», alla fine del nòstos interdetto che fa del romanzo un’epica impossibile (come non può non esserlo l’epos nella modernità). Giunto in vista dell’Itaca vagheggiata ’Ndrja si blocca, s’impelaga, sprofonda nella propria mens linguistica: e con lui il romanzo, nelle duecento asperrime sue pagine conclusive. È il «colpo di coda» del testo che «cambia il destino dell’eroe», ha scritto Walter Pedullà (il critico che, al pari di Arnoldo Mondadori, sempre sostenne D’Arrigo nelle more del capolavoro: il saggio in testa alla precedente riedizione del 2003 è stato opportunamente conservato – aggiungendovi la bella prefazione di Giorgio Vasta). Non diversamente s’era incartato Gadda, una quindicina d’anni prima, alle prese con la «coda serpentesca del coccodrillone»: come definì la seconda parte del Pasticciaccio in una lettera a Gianfranco Contini.

 

 

Come tante opere del Canone Occidentale, nel background più o meno denegato dall’autore (dall’Odissea di Omero a quella di Joyce, passando per Moby-Dick ma anche per l’Anabase di Saint-John Perse), quello dell’Orca è per eccellenza un «viaggio testuale», per dirla con Maria Corti (che recensì ammirata il libro, al suo apparire, sul «Giorno»): dove l’escursione spaziale – in fondo minima – del personaggio, che ci mette milleduecento pagine per attraversare lo Stretto di Messina dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, viene gigantografata da quella linguistica – ad apertura spropositata – del testo e da quella – non meno madornale – della sua stesura nel tempo. La cronistoria del viaggio editoriale, non meno che specificamente letterario, la riespone Sgavicchia – e ogni volta tocca fare un passo indietro aux sources du poème. Non era la prima, infatti, la versione anticipata dal «Menabò»: cioè I fatti della fera, nel 2000 restaurati già da Sgavicchia insieme al compianto Andrea Cedola (e ora riproposti a loro volta dalla BUR: 669 pp., € 15). A precederla i quaderni (ancora inediti) intitolati La testa del delfino, che D’Arrigo scrisse nel ’56. Dopo di che decise di tornare sul luogo del delitto, per riportare a Roma una serie di fotografie (una scelta è riprodotta nell’appendice del libro), soprattutto di spoglie di animali: bucrani essiccati dal vento e arsi dal sale dello Stretto.

 

 

I fatti non sono ancora usciti su rivista, che già si scatena la caccia al genio (o tempora!): su Einaudi, Garzanti e Feltrinelli prevale Mondadori, con Niccolò Gallo che lo marca a uomo; il contratto è firmato alla fine del ’59 e, ottimista come sempre, Pedullà annuncia l’uscita del libro nel gennaio del ’60. Ma qualche tempo dopo il «tormentato» mette le mani avanti con Sereni: «potrei portarlo avanti anche per vent’anni». Quanti ce ne vorranno, in effetti, dal ’56 della prima stesura al ’75 dell’editio princeps (riportato nell’edizione è un documento Mondadori che calcola in 25 milioni di lire del tempo, circa 180mila euro di oggi, l’importo della campagna pubblicitaria…). Ma non è finita qui: già nel ’50, ai tempi in cui sbarcava il lunario scrivendo d’arte, in un pezzo su Giuseppe Omiccioli (un seguace di Guttuso: sarà proprio lui a far innamorare Vittorini dello scrittore conterraneo di entrambi), quando ancora si firmava «Fortunato», D’Arrigo disegnava i pescatori dello Stretto che remano «chini e assorti, in un gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetuto di condurre l’imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è mare»: in quello che è l’explicit del romanzo di un quarto di secolo dopo (ma la prima idea rimonta, forse, ancora di due anni: quando D’Arrigo scrive sul «Giornale di Sicilia» d’un marinaio di nome Manganelli che, tormentato dallo spettro d’un commilitone affondato all’inizio della guerra, finisce per togliersi la vita nel ’48).

 

 

 

Non poco rispecchiandosi nella vignetta del «tormentato» (e gaddianamente «remorante»), Giorgio Vasta paragona D’Arrigo a un intagliatore che nel nocciolo d’un frutto allucina un intero mondo; mentre faceva pensare Primo Levi a una galleria scavata nella roccia della Val di Susa «da un uomo solo in dieci anni». Scrivere un romanzo (ove di romanzo, beninteso, si conservi l’autentico significato) vuol dire scolpire «un tempo contro il tempo». Vorrà dire qualcosa che nel frangente del ’74-75 vengano alla luce, o siano in furioso corso d’opera, i libri che, per rifondare nella nostra lingua l’istituto del romanzo, lo hanno fatto esplodere: da Corporale e La storia al Porto di Toledo, da Petrolio a Giù la piazza non c’è nessuno (Calvino non esplode, implode: avvitandosi nel microcosmo altrettanto abissale di Se una notte e Palomar, elaborati proprio da allora). A me viene in mente La grande estasi dell’Intagliatore Steiner, ipnotico documentario firmato da Werner Herzog l’anno prima che uscisse Horcynus Orca: ed è curioso che tutte queste icone della dedizione maniaca siano intagliatori, scavatori, magari minatori al fondo della materia del mondo; laddove quello di D’Arrigo, invece, è un cosmo equoreo che non ammette incisioni, la distesa implacabilmente tornante su sé stessa d’un effluvio di morte che è anche placenta di vita (la «cicirella» che affiora a ogni passaggio dell’Orca: alla placenta dedicherà D’Arrigo, dieci anni dopo, il suo ultimo ed enigmatico Cima delle nobildonne).

 

 

Ma in comune con gli altri scultori della parola D’Arrigo ha una qualità, alla lettera, magica. Dice bene Vasta che in Horcynus Orca «il linguaggio non è subalterno al senso perché è il senso». La «fera» – come i pescatori maledicono il delfino – è come il «porrovio» di Landolfi: non semplicemente una parola, ma una «bestia folgorosa». Dall’episteme romantica forse D’Arrigo ha trattenuto l’insegnamento più prezioso, e insieme più rischioso: quello di fare cose con le parole. Lo dicono pure i «pellisquadra»: «non è che la parola ci serve per spiegarci la fera, perché la fera ce la spieghiamo con le sue azioni o per meglio dire, con le sue malazioni…». L’azione del linguaggio è letteralmente un incantesimo: «vociferare», dice Vasta, «al di qua di un significato e forse a prescindere da un significato». Nel suo stream of consciousness sullo «sperone» di Cariddi, ’Ndrja strologa all’infinito (come prima di lui Sandor Ferenczi e Gaston Bachelard) sulle possibili permutazioni di mare, madre e morte. Ma fera è anche anagramma di fare: poièin. Quel discorso di morte, assassinandone l’eroe, ha miracolato la vita del testo.

 

 

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, a cura di Siriana Sgavicchia, introduzione di Walter Pedullà, con uno scritto di Giorgio Vasta, BUR, 2025, 1240 pp., € 18

 

Nota

 

Le fotografie qui riprodotte sono tratte, insieme a riproduzioni di alcuni degli «aquiloni» manoscritti e ad altri materiali, dall’appendice documentaria dell’edizione BUR. Le aveva scattate nel 1956 Stefano D’Arrigo, di ritorno sui suoi luoghi, all’indomani della primissima stesura del romanzo.

 

Ha preso le mosse dallo Spazio Formentini di Milano, lo scorso 25 febbraio, la «Carovana dell’Orca» ideata da Giancarlo Alfano per festeggiare il cinquantenario della prima edizione (da Mondadori, esattamente quel giorno del 1975) di Horcynus Orca. Si prosegue la mattina del 6 marzo alla Biblioteca Nazionale, e nel pomeriggio alla libreria Spazio Sette, con la giornata di studi D’Arrigo a Roma (a cura di Daria Biagi, Andrea Cortellessa e Siriana Sgavicchia); il 20 e 21 marzo alla Sala Ferri di Palazzo Strozzi, a Firenze (il Gabinetto Vieusseux conserva le carte dello scrittore), in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli, con la lettura scenica di Fulvio Cauteruccio, il convegno a cura di Riccardo Donati Abissi e stive. Il fondo D’Arrigo, il mare delle poetiche, e la mostra documentaria Le carte in tavola, le carte cioè coi doìphini, a cura di Alfano e Fabio Desideri (un’altra mostra, a cura della Fondazione Mondadori, si terrà al Salone del libro di Torino). In maggio si terranno altre letture e incontri: l’8, a cura di Sgavicchia, all’Università per stranieri di Perugia (con gli eroici traduttori, Moshe Kahn, Stephen Sartarelli e Antonio Werli), il 9 e 10 a cura di Giorgio Forni a quella di Messina, il 14 a cura di Giuseppe Lo Castro a quella della Calabria e il 15 a cura di Tiziano Toracca a quella di Udine. Il 22 giugno al festival Taobuk di Taormina e gran finale in ottobre, col reading di Luigi Lo Cascio alla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli (aggiornamenti sul sito della Fondazione Mondadori).

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