di Università libera, università del futuro

(https://www.universitadelfuturo.it/)

 

 

Se io ho da dire due cose, e voi mi permettete di dirne una sola, è evidente che quella sola diventa una bugia

(Gaetano Salvemini a Prezzolini, 1911)

 

 

Libertà è partecipazione

 

Nell’idea di democrazia comunemente condivisa si trovano, all’inizio del processo decisionale, l’agorà o l’assemblea; in quello spazio affiorano i conflitti e si formano le idee; a seguito di un percorso che attraversa una pluralità di strettoie e di mediazioni, esse giungono alla sintesi conclusiva della legge. Nell’Università di oggi, quel processo è stato rovesciato. L’atto formale che determina il destino dei finanziamenti, le modalità dell’offerta formativa, i criteri della distribuzione dei fondi della ricerca, ecc., non è la sintesi di un percorso conflittuale e dialettico, ma l’espressione di una decisione unitaria e catafratta della cosiddetta governance. La decisione viene presa dal  Rettorato e dal suo entourage, e recepisce perlopiù istanze mainstream del tessuto aziendale del territorio e del sistema universitario complessivo; viene elaborata da una commissione ristretta nominata dalla stessa governance; messa in forma in un progetto o disegno (che consiste quasi sempre in un algoritmo, inaccessibile ai profani); presentata per un “parere” alla Consulta dei Direttori di Dipartimento; girata, secondo l’ambito di ricaduta, al Senato o al Consiglio di Amministrazione; trasmessa, una volta esecutiva, ai Direttori di Dipartimento; comunicata dai medesimi a tutti i docenti. Nessuna discussione preliminare sui fondamenti, i modelli, la “filosofia” che anima e dà forma al provvedimento; nessuna discussione conclusiva.

 

In questo percorso, i margini del dissenso che eventualmente affiorano nell’unica sede potenzialmente capace di incidere nel processo, la Consulta dei Direttori di Dipartimento, sono accolti con gentilezza e subito mitigati dal Coordinatore di turno nella formula “con qualche criticità” che accompagna la trasmissione del “parere positivo” all’organo deliberante; nel quale la screziatura che intacca la splendente carrozzeria del provvedimento viene levigata in un verbale che non ne reca più traccia. Ecco così tutelati insieme l’unanimismo della “comunità” e la monocrazia della governance. Se libertà è partecipazione, come crediamo e come cantava cinquant’anni fa Giorgio Gaber, il Senato dell’Università di Padova dovrebbe seriamente tornare a riflettere sul motto che ne simboleggia nei secoli il prestigio: nell’università «a una dimensione», dietro la maschera della condivisione e delle retoriche della «grande famiglia», la critica è riassorbita nel processo autoritario.

 

Il cannocchiale di Galileo

 

All’Università di Padova, presso il Complesso Beato Pellegrino, c’è un murale (inaugurato nell’ottobre del ’24: https://ilbolive.unipd.it/it/event/ateneo/no-paint-no-gain-dipingersi-comunita) che rappresenta perfettamente questo centralismo monocratico. Vi è raffigurata una massa di presenze larvali come risucchiate da una forza centripeta verso uno spazio circolare vuoto; in basso a destra si riconosce Galileo, che vi punta il cannocchiale. L’immagine sarebbe rappresentativa «della comunità accademica dell’Università di Padova e della sua storia» (cit.). In realtà, sembra piuttosto rimandare all’idea di un’Università unanime: l’uniformità delle sagome, l’effetto gravitazionale dello spazio circolare e la tensione delle braccia rimandano ad una rappresentazione dell’università come corpo omogeneo, che scioglie la dialettica nel conformismo. Anche i volti e i tratti somatici degli individui, e la monocromia dell’insieme, tendono a questa uniformità, in una specie di rovesciamento del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, nel quale gli individui, tutti caratterizzati singolarmente, mostrano la precisa consapevolezza dei propri obiettivi. È certo che Galilei avrebbe puntato altrove il suo telescopio: sono stati la critica e il conflitto, non il conformismo all’egemonia, che ne hanno fatto il fondatore della scienza moderna.

 

«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»

 

Ma la coercizione della libertà (poiché di questo, senza troppe ambagi, andiamo discorrendo) non è solo un problema padovano. Come dimostrano alcuni episodi recenti: le censure nei confronti di colleghi che si occupano di materie reputate sensibili dall’attuale governo nazionale (vedasi il laboratorio presso il Dipartimento di Scienze della Formazione di Roma Tre, che ha scatenato l’intervento censorio del deputato Rossano Sasso, con pronta risposta della Ministra con un provvedimento istruttorio); il provvedimento dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, che ha sospeso per tre mesi, decurtandone lo stipendio, Christian Raimo. A tutto ciò, si aggiunga il processo generale che promuove la subordinazione della formazione universitaria a logiche di tipo imprenditoriale e professionalizzante (come se il livello di istruzione accademica fosse mirato eminentemente a un avviamento professionale e al mero incremento della produttività del paese).

La coercizione di cui ragioniamo procede anche, in modo più sottile, attraverso la somministrazione omeopatica di provvedimenti apparentemente irrelati. Vediamo il caso della didattica. In questi ultimi anni, si sono progressivamente allineati, mai veramente messi ufficialmente in relazione gli uni con gli altri:

 

1) una sonante campagna sulla “centralità dello studente” (la formula corrente è “student centered”);

2) la somministrazione agli studenti di questionari sulla qualità della didattica (scilicet: sul gradimento di metodi e contenuti degli insegnamenti);

3) l’inserimento dei punteggi ottenuti nelle valutazioni studentesche nei prototipi dei verbali dei concorsi per il reclutamento, predisposti dall’Ateneo (e normati dai suoi regolamenti);

4) l’inserimento, fra le domande rivolte agli studenti, di un quesito circa l’impiego da parte del docente delle nuove tecnologie per la didattica (la rubrica recita: Didattica innovativa per CdS convenzionali e CdS blended);

5) l’obbligo da parte di docenti, all’atto di compilare i programmi dei propri corsi (il syllabus), di spuntare una delle voci predefinite alla rubrica Didattica innovativa; strategie di insegnamento e apprendimento previste;

6) l’obbligo di frequenza di corsi di formazione all’insegnamento universitario per i nuovi ricercatori – i relativi contenuti sono interamente dedicati alle tecnologie informatiche (v. avanti).

 

Il lettore accosti a questi sei enunciati una seconda serie di constatazioni:

 

a) nel bilancio degli Atenei, a fronte della riduzione dell’FFO di 513 milioni di euro prevista nella legge di bilancio 2025, e della crescente spesa, di anno in anno, relativa agli stipendi di docenti e personale amministrativo, la voce delle tasse universitarie è divenuta quant’altre mai cruciale;

b) la curva demografica vedrà nei prossimi anni il suo picco negativo;

c) si è fatto drammatico il problema degli alloggi studenteschi e degli affitti, rispetto al quale la didattica telematica sembra la prima e più praticabile risoluzione ad una parte della popolazione studentesca;

d) le università telematiche hanno registrato un notevolissimo incremento di iscrizioni, che consente loro un abbassamento delle tasse in concorrenza con quelle, sempre più alte, degli atenei tradizionali (con il sostegno di una legislazione che deroga ai vincoli del rapporto n. studenti/n. docenti cui sottostanno le altre università).

 

La serie numerica e quella alfabetica, se combinate, restituiscono la formula algebrica delle “aule senza confini”, come recita il titolo del convegno promosso da Unipd il 22 novembre 2024, in presenza di Daniela Mapelli, Rettrice dell’Università di Padova, Giovanna Iannantuoni, presidente della CRUI, Antonio Felice Uricchio, presidente dell’Anvur (https://ilbolive.unipd.it/it/aule-senza-confini). Sotto l’insegna dell’innovazione, è stato messo sul proscenio il progetto Teaching4Learning, destinato alla formazione dei ricercatori universitari e fondato sulla centralità dei metodi e degli strumenti tecnologici nella didattica universitaria; vi sono inoltre state presentate altre iniziative tutte convergenti nell’equazione: innovazione nella didattica = didattica digitale, telematica, nuove tecnologie, ecc.

 

“Innovazione didattica” e, sottotraccia, “inclusione”, sono le foglie di fico sul prezzo che si paga alla libera concorrenza nel mondo dell’Università neoliberale. A patirne le conseguenze saranno proprio gli studenti, posti “al centro” nella propaganda ufficiale, spostati in realtà ai margini della grande macchina aziendale che, per sostenere la concorrenza e sopravvivere, organizza i suoi corsi virtuali “inclusivi” e “innovativi”: migliaia di studenti, come eremiti di massa, saranno ridotti a francobolli in uno schermo nel quale la faccia del docente, o al suo posto qualcuno dei mirabolanti fuochi di artificio delle nuove tecnologie, sostituiranno l’insegnamento in presenza e la cosiddetta (ovviamente antiquata e vituperata) “lezione frontale”. In tutto ciò, ça va sans dire, lo spazio decisionale del docente e la libertà di insegnamento sono sacrificati sull’altare di una “libertà” preconfezionata e decisa da altri.

 

Un caso di studio: la “Scuola critica per l’insegnamento universitario” presso l’Università di Padova

 

Una recente proposta (la Scuola critica per l’insegnamento universitario, anticipata nel seminario Verso una scuola critica per l’insegnamento universitario) ha invece inteso manifestare un pensiero diverso. L’iniziativa non è espressione di Università libera, università del futuro, ma è sorta spontaneamente entro il perimetro più ampio di ricercatori e docenti di area umanistica.

Fondata sulla possibilità di garantire una libera scelta per i/le neo-assunti/e, la sua struttura promuove il ragionamento sulla didattica come questione aperta, problematica e dubitativa nei suoi differenti aspetti: l’intenzione è stata quella di proporre una formazione del personale di ricerca fondata su un ampio spettro di questioni teoriche e critiche, e alimentata dalla filosofia dell’educazione, dai contenuti disciplinari, da approfondimenti di modelli epistemologici plurali. Tale progetto intendeva porre in crisi la retorica unidirezionale delle “soluzioni” e delle “strategie” destinate al “successo formativo”, e così liberare le discussioni sull’insegnamento dagli efficientismi para-aziendali che, nella pretesa di adottare una didattica “innovativa”, legata a obiettivi di apprendimento relativi a tecniche didattiche specifiche, sono privi di finalità formative e più generalmente culturali.

 

Questo tentativo di proporre percorsi opzionali e alternativi si è scontrato con il rifiuto dell’Ateneo di Padova di equiparare la Scuola critica al Teaching4Learning (T4L), che, con le delibere n. 68 del Senato Accademico del 10/5/2022 e n. 125 del Consiglio di Amministrazione del 24/5/2022, è stato reso obbligatorio per ricercatori e ricercatrici neoassunti/e. Tutto il resto (nella fattispecie la Scuola critica, ma potenzialmente qualsiasi altra iniziativa) verrebbe semmai tollerato come aggiuntivo, opzionale, posteriore, secondario, eventuale, integrativo, ecc. Là dove non c’è pluralità di proposte formative, non c’è libera scelta.

 

Il metodo è il messaggio

 

Proporre di sviluppare una consapevolezza e una “cultura didattica” nell’Ateneo di Padova è senza dubbio lodevole, così come attrezzare il deposito degli strumenti investendo fondi nelle nuove tecnologie didattiche. Tuttavia, la didattica e la sua “filosofia”, le opzioni metodologiche, le scelte riguardanti i metodi d’insegnamento, le tecniche d’intervento, gli strumenti operativi, non sono mai neutrali, ma veicolano sempre un’idea precisa di insegnamento: non esiste metodo senza un modello culturale, per non dire ideologico, cui quel metodo si conforma.

Il T4L risponde in questo senso ad una scelta molto chiara, che pone la centralità dell’apprendente e degli ambienti tecnologici di apprendimento rispetto ai contenuti culturali e disciplinari (abbiamo già proposto alcune considerazioni in https://www.universitadelfuturo.it/docs/2021.12.21_didattica_unilib_def.pdf). Da cui un approccio strumentale alla didattica nel quale le tecnologie digitali occupano l’intero orizzonte della formazione e si intestano in esclusiva l’obiettivo dell’“innovazione”. Ma non si tratta che di una fra le molte possibili modalità didattiche. Il suo porsi come “base comune” e fondamento unitario della didattica universitaria tutta, senza distinzioni di sorta tra chi, ad esempio, insegna filologia romanza e chi ingegneria dei materiali, rappresenta pertanto un atto culturalmente e ideologicamente orientato, e perciò stesso passibile di critica e di alternative: un metodo che, nel suo porsi come unica opzione ai novelli studiosi, trasmette un messaggio preciso e discutibile. La base d’appoggio concettuale e le premesse di carattere generale sarebbero del tutto differenti se, per non fare che un esempio, al centro dell’idea di insegnamento universitario dovesse essere posto il contenuto disciplinare-culturale, la finalità formativa e non il mero apprendimento (l’education e non il learning, secondo il formulario corrente), assumendo posizioni che trovano spazio e autorevoli sostegni nel dibattito internazionale (tra i quali Geert Biesta; Marit Honerød Hoveid, che ha già accolto l’invito a far parte del comitato scientifico di Scuola critica).

 

La sterilizzazione di modelli alternativi al T4L, quale avrebbe potuto essere quello della Scuola critica per l’insegnamento universitario, non è che un’altra manifestazione del centralismo di cui andiamo discorrendo e della compressione della libertà di insegnamento e di formazione all’insegnamento. Poiché la libertà d’insegnamento, in capo alla responsabilità del docente, presuppone l’esercizio di una libera e ponderata scelta tra modelli differenti, libera discussione e pluralismo dell’offerta.

 

Le necessità del dissenso

 

La cancellazione della libertà accademica è un processo in corso a livello globale: l’Ungheria di Orban ha disposto il controllo governativo sull’operato degli atenei, imponendo ai rettori un “cancelliere”; l’attuale vicepresidente statunitense, J.D. Vance, fin dal 2021 ha annunciato che «le università sono il nemico»;  l’associazione americana dei professori universitari, fondata nel 1915 da John Dewey, ha lanciato l’8 agosto 2024 l’allarme sulla possibile trasformazione dei college e delle università in «fabbriche di controllo del pensiero».

Anche in Italia le università pubbliche sembrano avviate a subire l’ingerenza del capitale privato e del potere esecutivo. Esemplare, come parte per il tutto, l’art. 31, comma 1, del DDL rubricato Disposizioni per il potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza.  Presentato dal Governo il 22 gennaio 2024, approvato dalla Camera il 18 settembre 24, il DDL nel suo insieme interviene con finalità securitarie sul diritto e sulla procedura penale; una delle sue disposizioni riguarda l’estensione del potere dei servizi sulle università e sugli enti di ricerca. Se il DDL sicurezza fosse approvato dal Senato, il testo del comma 1 dell’art. 13 della l. 2007/124 sarà il seguente:

 

«Le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione pubblica o a controllo pubblico e i soggetti che erogano, in regime di autorizzazione, concessione o convenzione, servizi di pubblica utilità sono tenuti a prestare al DIS, all’AISE e all’AISI la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale. (…) Le convenzioni possono prevedere la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza» (https://aisa.sp.unipi.it/ricerca-pubblica-servizi-segreti-il-ddl-sicurezza-e-luniversita/)

 

L’abitudine a non discutere e a non problematizzare i fondamenti, i modelli e le finalità della ricerca e della didattica, in favore di una presunta oggettività algoritmica delle eccellenze e dell’innovazione, ha allenato le governance e l’intero corpo docente all’interiorizzazione del comando. L’imposizione a chi lavora nelle università a collaborare con i servizi –  ad esempio comunicando in nome della sicurezza nazionale, le azioni e le idee politiche delle studentesse e degli studenti con cui si discute a lezione – è un’aberrazione molto eloquente, introdotta in un clima di guerra, grazie ad una retorica divenuta senso comune:  per chi ritiene che l’unico servizio della scienza debba essere l’uso pubblico della ragione è il segno e il sintomo dello stato delle cose, l’allarme  per reagire  alla crisi della libertà del sapere, ridando  legittimità  al pensiero critico, alla disobbedienza e al dissenso, radici stesse della democrazia.

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