di Federico Milone
[Sono appena uscite per Marsilio le Poesie di Alfredo Giuliani, a cura di Federico Milone, Ugo Perolino e Luigi Ballerini. Proponiamo un estratto della prefazione di Federico Milone e, di seguito, una scelta di poesie di Giuliani].
Poesia, «arte del dire sghembo»
Un po’ come un fool trasformista o un attore che indossa a turno le diverse maschere della commedia dell’arte, la poesia di Alfredo Giuliani sembra, a ogni sua manifestazione, assumere un aspetto diverso: di volta in volta si cambia il costume, camuffa la voce, si comporta in modi nuovi e inaspettati. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. La scrittura di Giuliani ha attraversato più di mezzo secolo, osservando e vivendo tutti i profondi cambiamenti che portano dal dopoguerra al nuovo millennio. Ma forse, oltre che nel contesto in rapido mutamento, la propensione alla metamorfosi dipende anche da una curiosità mai stanca, che ha spinto il poeta a sperimentare tonalità e forme sempre diverse, ripartendo a ogni scacco in una nuova direzione.
Le intonazioni più serie e i lampi improvvisi della grande poesia, da Cavalcanti a Verlaine, convivono infatti con giochi di parole, scherzi e buffi nonsense che appartengono alla linea comica e giullaresca della tradizione letteraria. In altre occasioni, toni all’apparenza oracolari o sapienziali sfumano e si raffreddano in battute graffianti, che sembrano uscite dalle bocche dei tanti istrioni affabulatori e canaglieschi della letteratura europea, come gli amatissimi personaggi di Lewis Carroll e l’Ubu di Jarry. Accanto a versi lunghi o addirittura a «poesie senza versi» stanno forme brevi o brevissime, talvolta simili agli haiku o ai limerick. Giuliani sembra poi giocare con i vocabolari. In certi periodi predomina il lessico comune, con frequenti ammiccamenti all’aulico e al filosofico. In altri invece si assiste a un vero e proprio carnevale linguistico, durante il quale sfilano in parata forme colloquiali, impennate letterarie, volgarismi e tanti neologismi inventati da un genio onomaturgico che confida ciecamente nella potenza evocativa del suono delle parole. Da ultimo, anche i moventi che spingono a scriver versi – arte per eccellenza obliqua e che con la menzogna suggerisce barlumi di verità – possono essere vari. «Si fa per allegria malinconia / scherzo e furore o quel che sia», ha scritto una volta Giuliani, aggiungendo subito dopo: «non cambia vita la poesia / forma di bugia che include il vero / arte del dire sghembo»[1].
Raccogliere in un unico volume, e per giunta sotto un titolo neutro come Poesie, una simile peregrinazione nei vasti territori del possibile poetico potrebbe sembrare un’operazione da apprendista stregone. Un tentativo, destinato a fallire, di gettare nel calderone materiali che si respingono e si allontanano l’uno dall’altro. Fortunatamente non è così: benché cambi aspetto, la poesia di Giuliani resta in fondo intimamente fedele a sé stessa. Lo racconta lui stesso, in un articolo del 1989 intitolato La poesia è una cosa in più:
Sto scrivendo un solo libro, che va dal 1950 a domani, spero. E le date per me contano poco. Ho una pretesa: ciò che ho scritto nel 1950 deve suonare attuale quanto ciò che ho scritto ieri. Sincronicità di tutti i movimenti, le svolte, gli scarti, i ritorni, le riprese, le fughe in avanti, perché no? [2]
Il corpus delle poesie si può così percorrere in lungo e in largo, come un grande labirinto poetico senza centri e punti focali, in cui le sorprese possono capitare a ogni svolta: ci si può trovare di nuovo, all’improvviso, al punto di partenza, oppure può aprirsi dietro l’angolo una scorciatoia che conduce in luoghi imprevisti. Altrettanto affascinante è inoltre capire come nascano questi versi. Per restare nella metafora, non si tratta di disegnare una mappa del labirinto: è infatti compito del lettore districarsi e trovare la via d’uscita (qui sta tutto il divertimento). Si tratta invece di sapere quando il dedalo è stato costruito, chi ha messo mano al progetto, i materiali e le tecniche adottate per la costruzione. Si tratta in definitiva di raccontare un’avventura poetica lunga oltre cinquant’anni. La si proverà ad abbozzare, almeno nei suoi snodi essenziali e seguendo il filo della cronologia, nelle prossime pagine.
Un ritratto dell’artista a trent’anni
L’esordio di Alfredo Giuliani non è stato troppo precoce. La prima uscita in volume avviene quando il poeta ha trentun anni. La raccolta si chiama Il cuore zoppo (Magenta, 1955): sicuramente un titolo sottilmente ironico, che allude forse al ritmo imprevedibile dei versi, più probabilmente – se pensiamo al cuore come al motore della poesia lirica – alla messa al bando del sentimentalismo e del patetico. Venendo al contenuto, l’aspetto più interessante del libretto è che condensa in soli venticinque testi molti degli interessi e delle passioni del suo autore, tanto che lo si può definire un autoritratto dell’artista, forse ancora un po’ sfuocato, ma tutto sommato fedele.
Per trovare l’innesco di questa macchina poetica c’è da tornare indietro di qualche anno. Nel 1950 Giuliani è fresco di laurea in filosofia, ottenuta l’anno precedente all’università La Sapienza con una tesi su Carlo Michelstaedter. Prova a scrivere poesie, che però finiscono irrimediabilmente nel cestino, «bloccate dall’ingombro del linguaggio filosofico»[3]. L’antidoto è la pratica psicoanalitica, che Giuliani comincia per conto suo, leggendo un manuale di autoanalisi di Karen Horney, pubblicato dalla casa editrice Astrolabio. I risultati non si fanno attendere, anche se la poesia più spiccatamente biografica, Corpus, resta nel cassetto per oltre trent’anni, venendo pubblicata soltanto in Versi e nonversi, del 1986. Altri componimenti scritti dietro questa spinta entrano però nel Cuore zoppo: «la mia autoanalisi funzionò benissimo. Recuperai l’infanzia e andai un po’ oltre», racconta Giuliani, spiegando di aver posto in apertura alla raccolta Resurrezione dopo la pioggia, proprio la «prima poesia che scrissi dopo la liberazione personale»[4].
Se filosofia e psicoanalisi si possono considerare come il punto di partenza della scrittura in versi, un’altra passione di Giuliani, lettore anarchico e onnivoro fin dalla giovanissima età, è la letteratura. Nel Cuore zoppo non manca la tradizione e non c’è timore riverenziale o paura di chiamare in causa i pesi massimi del canone[5]. Si vedono le tracce della poesia delle origini e in particolare di Cavalcanti, ma pure di Leopardi e del contemporaneo Montale, come dimostrano alcuni prelievi di parole inconsuete e precise – troppe per pensare a una casualità – dagli Ossi e dalle Occasioni: dallo «scrimolo» ai «vepri», dal «murmure» alle «cimase»[6]. Non si pensi però a un poeta tutto sommato in continuità con la tradizione, magari epigono o citazionista come tanti suoi contemporanei. Già in questa prima prova le riprese illustri e alcuni scatti quasi elegiaci si stemperano immediatamente grazie a sbalzi sintattici e a una quotidianità impoetica fatta di campi erbosi e cantieri, di oggetti prosaici o poveri come le betoniere o i corni di latta usati nei giochi dei ragazzi. È, per usare una formula sintetica, l’«astuzia lirica» individuata dall’orecchio attento di Manganelli, qui «più scoperta, via via sempre più mortificata, irrisa, insolentita»[7].
La sirena che attrae più di tutte le altre con il suo canto il giovane Giuliani è però la poesia straniera. La fascinazione è forse inevitabile per uno studente curioso, cresciuto con insofferenza nella retorica del fascismo. Ben presto, anche senza fare la proverbiale gita a Chiasso, Giuliani si apre alle più nuove esperienze della poesia straniera, di cui sarà lettore vorace per tutto il corso della sua vita. Nel Cuore zoppo compaiono in particolare due autori, entrambi di area anglosassone. Il primo lo si incontra in Compleanno ed è l’uomo «rinchiuso nella ferrea gabbia, / La lingua premuta tra un muro e una moneta»: è Ezra Pound, archetipo del poeta contemporaneo, confinato nel campo di reclusione di Pisa. Al di là di questa fugace apparizione, a pesare nella raccolta sono due pratiche ben sperimentate dal poeta americano: la dismissione del soggetto lirico e la condensazione della materia in immagini. Il Cuore zoppo infatti può essere letto anche come una galleria di «quadri verbali»: i versi talvolta sembrano ecfrasi di opere surrealiste che con la loro carica visiva mettono alla prova la fantasia del lettore e che, come Giuliani stesso auspica introducendo i Novissimi, sono capaci di «rendere i pensieri visibili come cose»[8]. Basta dunque qualche spigolatura nei testi per imbattersi in addii che volano come acrobati, radici che urgono sotto l’asfalto, torme di angeli viola che sorvegliano le svolte della strada e salici che scuotono le loro piume.
Ancor prima di Pound, però, l’influenza più evidente è quella di Dylan Thomas. Siamo ancora durante la guerra quando, su un giornalino della propaganda alleata intitolato «Il Mese», Giuliani legge una sua poesia su Londra bombardata: come folgorato, tramite un soldato inglese amico che era in licenza riesce a ottenere tutto il Thomas reperibile in lingua originale. Cominciano così una lettura difficile e una prima traduzione, del tutto autonoma: «una disperazione esaltante»[9], come ricorda a distanza di anni. Sette traduzioni di Thomas, portate a compimento negli anni a venire, diventano la sezione conclusiva del Cuore zoppo. Le versioni non sono un esercizio incluso solo per rimpinguare il volumetto, quanto un pendant necessario ai versi, una prosecuzione del discorso: lo si vede plasticamente nella continuità fra la già citata Compleanno e Poem in October del poeta gallese, due testi scritti per una medesima occasione, il compimento dei trent’anni. Le traduzioni trovano alcuni ammiratori d’eccezione. Fra questi c’è Pier Paolo Pasolini, che le definisce non per caso «stupende, sebbene interessate»[10], capendo all’impronta l’indissolubilità fra queste traduzioni e le poesie che precedono, lo strettissimo legame che intercorre fra l’auscultazione della parola altrui e la scrittura in proprio.
Il primo estimatore dei versi di Giuliani è però Luciano Anceschi, incontrato nel 1954: fra i due si stabilisce fin dai primi contatti una sintonia, come testimonia il loro straordinario e ancora inedito carteggio. Passa poco tempo dal loro primo contatto e Anceschi decide di accogliere i versi del più giovane in una collana che dirige presso l’editore Magenta di Varese, intitolata “Oggetto e simbolo”. Nonostante il piccolo cabotaggio editoriale, la lista delle pubblicazioni è di eccezionale qualità: la collana s’inaugura con l’antologia Linea Lombarda, forte di nomi quali Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi e Renzo Modesti; ma soprattutto ospita almeno alcuni libri che anticipano la temperie culturale avanguardista che esploderà di lì a un decennio, come la prima edizione di Laborintus di Edoardo Sanguineti o l’ingiustamente dimenticato Essere & non avere di Giuseppe Guglielmi.
Nonostante la buona compagnia e il presumibile entusiasmo, ancor prima di aver licenziato il volume Giuliani sembra prenderne le distanze. Lo si capisce da una notarella intitolata Squarci nel muro, forse non finita e comunque non pubblicata, che secondo alcuni indici avrebbe dovuto precedere le poesie. «Approssimazioni alla verità e all’arte, elaborate in un modo forse troppo chiuso e saltuario: ecco cosa sono queste poesie. Forse soltanto tentativi, colpi o astuzie, per cercar di aprire squarci nel muro. Sono lieto di pubblicarle perché appartengono a un periodo per me ben determinato e concluso»[11]. Ma ancor più chiaramente, Giuliani scrive lo stesso già nell’ottobre del 1954, proprio ad Anceschi, non appena composto il dattiloscritto: «com’è curioso “fare” un libro. Immediatamente ci si sente diversi dal libro che s’è fatto – più nuovi. Per un narratore l’esperienza è un’altra ma la conclusione è la stessa»[12].
Una selezione di poesie di Alfredo Giuliani
Convalescenza
(da Il cuore zoppo, 1955)
Quando vidi il salice scuotere le sue tristi piume
nel giardino dell’ospedale, mi ferì una scheggia
dell’ora mormorante per la cascata dei colli
dalla costa lontana; la luce composta
giacque senza palpebre sul confine dell’erba.
E vidi nel ricordo la torre al vento sulla scogliera,
la sua toppa verde e la scacchiera spallidita.
Vidi che tutto è bello e uguale:
ala di pietra spuma di mare inverno…
Azzurro pari venerdì
(da Povera Juliet e altre poesie, 1965)
Come devo comportarmi, domandai per sapere (per avere,
invece, si chiede) se l’ala nera sarebbe infine abbattuta.
L’astrologo disse: (il destino): generalmente buono,
sarà accaduto e non dovrà rimpiangere, di fianco la luna
falcata radiosa, considerando l’epoca, una piccola soddisfazione
(in pieno giorno galleggiare nel prato), la posizione
potrebbe indurla, di Urano o l’inverno che viene dagli spazi,
coincide con qualche amica o parente, non esiti a farlo,
procurandole notorietà (rumore di cesoie dal giardino),
allo scopo di screditarla, tenga sempre con sé il talismano,
sarà un mese piuttosto monotono.
E lo psichiatra disse: (a proposito del sogno): l’immagine
del bambino con la merda in mano è il mondo
largo luminoso vuoto stretto oscuro colmo elevato profondo
mobile impuro immobile sudicio contagioso disgustante
accogliente minaccioso illimitato doloroso
velenoso vischioso decomposto penetrante
fisiognomico ignominioso numinoso è il mondo
sanguinoso tagliente spermatico molle terrificante
dissipante vertiginoso appropriante metamorfico
vendicativo scaltro ostinato innamorato sia chiaro
finché non (finisci di penetrare nella penetrazione) ritorni
alla contemplazione (il cancello ha una leggiadra gualdrappa di edera) e
io risposi: che bella pace qui, dove gli oggetti scavano
la loro superficie: volevo voltarmi, ma è fuggita piangendo.
Poi si fa l’esperienza
(da Il tautofono, 1969)
se volete un po’ di piombo eccolo se vi occorre un palo basta spostare con un piede
il tappetino di ciniglia nel corridoio a destra si parla in fretta alle quattro
il gatto sul marciapiede di fronte non è più percepibile questa è una grande città
dove le ascelle dei negozi si levano verso il mare l’ho capito fin dal primo momento
disseminando i grigi spilli imballati negli occhi della vecchia ragazza nell’aria
rosa della stanza senza prestare attenzione alla siepe rabbrividita sulla moquette
uncinano il naso guizzante sotto i calzoni in curva pronto a tirare il freno o la tosse
e poi nient’altro da fare che discorrere eccitato di anarchie croccanti e aspirare
l’estasi della telefonista era un buon lavoro tuffato nel bavero di un altro le unghie
alla finestra sbiadiscono sul giornale maestro di vita tracce di sensibilità ci tolgono
l’aspetto dello sfruttamento la sedia girevole porta intorno lo strazio della fuga
l’immersione monumentale non tornerà più su per dirci ma non è così giù nella sabbia
Nostro Padre Ubu
(da Versi e nonversi, 1986)
Il nostro Padre Ubu ha forma di sfera
come il filosofo Humpty Dumpty
e testa di legno transmentale in forma di pera
Occhietti porcini muso di coccodrillo
insondabili palle di vecchio ferro da stiro
se ne va col suo ombrello-clistere in bicicletta
per restituire la pioggia al cielo
S’ode lontana l’ombra del vento
tutto il silenzio tace
cadono gli onori nell’abisso delle sue tasche
Il nostro Padre Ubu con scienza della vita
arrota i gas frantuma l’infinito
afferma che spendere è l’illusione di avere
e il paradiso abominevole si spappola
nel carcere lampante del cervello
Così svuota i giorni dentro le notti
e minaccia i nemici col suo pompamerdra
S’ode lontana l’ombra del vento
tutto il silenzio tace
cadono gli onori nell’abisso delle sue tasche
Il nostro Padre Ubu senza togliersi il cappotto
roteando con fracide labbra il mezzo toscano
fa rutti alfabetici e inculate primaverili
assorto visita le alte cattedrali
e si leva a contemplare le vetrate
per profumarsi d’incenso carezza in incognito le bare
tra i neri denti fruga con un candido stuzzicadenti
S’ode lontana l’ombra del vento
tutto il silenzio tace
cadono gli onori nell’abisso delle sue tasche
Aneddoto di una trasferta in Giappone
(da Poetrix Bazaar, 2003)
Metti una squisita piccola cena a Kyoto,
soffusa di conversazione garbata casuale,
tra poche scelte persone conosciutesi
due ore prima. A un tavolo per sei siamo tre
veteronovissimi (uno con veteronovissima
moglie) e i nobilissimi coniugi Iwakura,
anch’essi stagionati e ben conservati (lui
è un emerito italianista studioso di Dante).
A un certo punto mi si materializza un buco
in aria. Sento che al suo nipponico vicino
l’Edoardo sta spiegando l’economia nipponica,
come e qualmente il loro guaio sia la politica
finanziaria. Il professor Iwakura sprofonda
impeccabile in un silenzio zenico. Io che siedo
loro di fronte, mi trovo come niente
a occidente dell’oriente.
Mi porto dietro la tradizione in ogni direzione
(inedito)
Mi porto dietro la tradizione
in ogni direzione.
Sul filo di lana del DNA
abbiamo fregato gli scimpanzè,
siamo prensili e parliamo,
tutta qui la differenza.
Pensativi e fortunosi,
siamo gli artisti darwinisti,
solo grazie alla linguetica.
Mi porto dietro la tradizione
in ogni direzione.
Il mio ultimo libretto
poetrix bazaar
è poetico e anche etico,
un po’ sarcastico un po’ furioso,
leopardiano e darwinista,
un po’ tenero un po’ fuori pista.
Di Presocratici e Patafisici
sempre in vista. A pag. 15
comincia e finisce alla 70.
Gentili lettrici, amici lettori,
non lamentate che è troppo breve.
Lo sto già rimpolpando per farvi felici.
Alla prossima edizione.
Note
[1] Alfredo Giuliani, Partiture, in Poetrix bazaar, qui a p. 257.
[2] Id., La poesia è una cosa in più, in «il verri», 11-12, 1989, pp. 13-19: 18.
[3] Così nell’intervista inclusa in Alfredo Schiavulli, L’avventura dentro i segni. La poesia novissima di Alfredo Giuliani, Bologna, gedit, 2008, p. 182.
[4] Ibid.
[5] La mappa delle intertestualità è ricostruita in Corrado Bologna, Stilnovo e stilnovissimo Giuliani (per il suo compleanno), in Chi l’avrebbe detto. Arte poesia e letteratura per Alfredo Giuliani, a cura di Corrado Bologna, Paola Montefoschi, Massimo Vetta, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 23-56.
[6] Sull’attraversamento di Montale cfr. Alfredo Schiavulli, L’avventura dentro i segni, cit., p. 52; Renato Barilli, Giuliani: una poesia fondata sull’ossimoro, in Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura, cit., pp. 14-21: 17-18.
[7] Nella premessa senza titolo a Chi l’avrebbe detto, Torino, Einaudi, 1973, p. 5.
[8] I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, a cura di Alfredo Giuliani, Torino, Einaudi, 2003 (Milano, Rusconi e Paolazzi, 1961), p. 25.
[9] Alfredo Giuliani, in Francesco Scarabicchi, Il gioco, la pista e il segno. Conversazioni critiche, Ancona, Bagaloni, 1977, pp. 259-296: 263.
[10] Pier Paolo Pasolini, Il neo-sperimentalismo, in «Officina», 5, 1956, pp. 169-182: 176.
[11] GIU-01-0018, c. 55. Seguono subito sotto tre versi: «Si apre il muro / si apre la siepe / il mondo è meno duro».
[12] La lettera è conservata nel fondo speciale Luciano Anceschi presso la biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna; se ne conserva una copia nell’archivio di Giuliani presso il Centro Manoscritti di Pavia. La diversità avvertita da Giuliani si vede plasticamente con la poesia che fa da cerniera fra questa fase e la successiva, cioè Prologo. Il testo si lega al Cuore zoppo per cronologia – è composto subito dopo aver licenziato il libro, a settembre-ottobre – e perché i suoi avantesti sono conservati insieme a quelli dell’esordio; inoltre nella copia dell’amico Manganelli si trova un foglio a stampa che testimonia il testo, quasi si trattasse, come il titolo autorizza a pensare, di un preludio aggiunto per completare l’opera. Questi fatti mi avevano spinto a considerare il componimento come parte integrante del Cuore zoppo e a ipotizzare la collocazione sistematica dell’inserto con la poesia nei volumi freschi di stampa. In realtà l’affermazione va almeno attenuata. Benché sia senz’altro possibile che altre copie oltre a quella manganelliana circolassero con questa aggiunta, l’inserto non si trova in ciascun esemplare e soprattutto una lettera ottobrina ad Anceschi proietta il testo verso la nuova stagione: «il prologo introduce – mi sembra – a un modo nuovo, quello a cui tutti sembrano aspirare. […] A me pare una prima pietra e sento che mi trasporta verso una direzione buona».
Foto di Dino Ignani (particolare).