di Rossella Latempa e Davide Borrelli

 

Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, 
rubrica a cura di Mimmo Cangiano

 

Con il titolo La nuova scuola capitalista arriva in Italia un testo che Christian Laval, Francis Vergne, Pierre Clement e Guy Dreux scrivevano nel 2011, dedicato ai processi di trasformazione neoliberale della conoscenza e dell’istruzione, dalla scuola all’università, di cui gli autori, con sorprendente capacità di anticipazione e lettura politica, intravedevano la coerenza e gli sviluppi. A questo libro, nel 2022, seguiva una riflessione che ne rappresenta il seguito ideale: Educazione democratica, che teorizza la costruzione di un modello di scuola e università alternative e auto-governate.

Perché rileggere e diffondere oggi la nuova scuola capitalista? Cosa può dirci un lavoro in fondo piuttosto lontano nel tempo, proprio quando sembra che tutto acceleri e sfugga costantemente alla nostra capacità di “unire i puntini”? Proveremo a spiegarne le ragioni e il senso.

 

1) Le trasformazioni di oggi, le responsabilità politiche e le false argomentazioni

 

A partire dalla sua prima pubblicazione, la nuova scuola capitalista segnava in Francia una generazione di studiosi, di ricercatori e attivisti, a cui forniva strumenti di interpretazione sistematica di un complesso frammentato e contraddittorio di riforme, portate avanti con linguaggio e argomentazioni di tipo progressista, politicamente trasversale. Parallelamente, in Italia, scuola e università vivevano una analoga stagione di cambiamenti, con percorsi, referenti politici e tempi propri, sovrapponibile a quella tratteggiata dagli autori. Le diagnosi e le analisi politiche, tuttavia, tardavano a prendere forma e il dibattito nazionale restava (e in parte resta tuttora) ancorato a categorie e dicotomie (tradizione/innovazione; nozioni/competenze; baronaggio accademico/meritocrazia, autoreferenzialità/accountability…) del tutto incapaci di tradurre la ridefinizione dei rapporti di forza nel campo delle politiche educative, specie a livello internazionale, con organismi sovranazionali divenuti via via più ingombranti. Quando gli autori concepivano la nuova scuola capitalista, i processi di trasformazione apparivano come possibili tendenze, in parte ambivalenti e incompiute. Inquadrare in maniera complessiva la natura dei cambiamenti in atto non era affatto facile. Oggi siamo in una fase molto più avanzata, e gli effetti possono essere misurati con maggiore chiarezza. A distanza di tempo, possiamo valutare con lucidità quanto i principi e i valori di un immaginario ingenuamente riformista e gli appelli del mondo cosiddetto democratico-progressista al superamento del “vecchio modello scolastico e universitario”, elitario e ineguale, si siano poi accomodati all’interno delle cornici di pensiero del “liberalismo educativo”; quanto abbiano finito per accettare la logica della concorrenza, la pseudo-scientificità delle comparazioni standardizzate, il linguaggio para-economico delle competenze – addirittura la competenza imprenditoriale, da certificare fin dalle elementari; quanto si siano diffuse la prossimità culturale e materiale tra accademia, scuola e soggetti di varia natura attivi nel campo dell’education, con progetti e collaborazioni, comitati scientifici, convegni. Tutto ciò sembra non creare alcun disagio apparente; nessun bilancio è all’orizzonte. Concetti come la democratizzazione dei saperi, l’equità, la responsabilità sono stati facilmente risemantizzati, hanno perso consistenza e oggi ci appaiono con più chiarezza per ciò a cui sono effettivamente serviti: strumenti strategici di legittimazione di un discorso pubblico progressista nella facciata, ma autenticamente regressivo e autoritario negli effetti concreti. A distanza di quasi 15 anni dalla pubblicazione della prima edizione del volume, l’acuirsi della segregazione urbana e scolastica, della concorrenza tra istituti o atenei, la differenziazione sempre più precoce dei destini scolastici, la depoliticizzazione e tecnicizzazione dei problemi educativi, la cultura della valutazione standardizzata e premiale e del monitoraggio continuo, l’atteggiamento di subalternità acritica quando non l’entusiasmo fanatico nei confronti di ogni innovazione digitale sono solo alcuni degli aspetti che la “modernizzazione” imposta a scuola e università ha prodotto. Nel frattempo, anche le possibilità e le capacità di resistere o di riconfigurare, in qualche modo, le spinte imposte dall’esterno entro una logica e un’etica proprie dello spazio educativo e scientifico, sembrano essersi esaurite. Leggere oggi l’analisi di ciò che è accaduto, e che continua ad accadere, ha l’effetto di una profezia che si è autoavverata. Ecco, quindi, una prima buona ragione: la nuova scuola capitalista aiuta a collocare l’attualità in una cornice di senso, ad attribuire le giuste responsabilità politiche, a riconoscere le alleanze strumentali e le latenze, a fare pulizia del lessico manageriale, grottesco e compassionevole allo stesso tempo, che asfissia qualsiasi discorso sull’istruzione scolastica e sulla ricerca accademica. Focalizziamoci sulla scuola, pur riconoscendo che l’impianto neoliberale del New Public Management, dell’economia della conoscenza e del capitale umano che ne ha ispirato le riforme si applica, mutatis mutandis, anche al mondo dell’università e spiega il senso dei processi di trasformazione che l’hanno investita a partire dal processo di Bologna.

 

 2) L’uniformità ideologica delle riforme

 

Il libro è il racconto di una lenta metamorfosi, quella della cultura scolastica che progressivamente assume le sembianze, il linguaggio e le regole della cultura d’impresa. Gli strumenti e i dispositivi normativi alla base di questa trasformazione, attuata mediante una strategia di “riforme a pezzettini”, non sono stati colti immediatamente, specie dagli insegnanti, che le hanno giudicate spesso innocue, superficiali e incapaci di incidere realmente sulle prassi e sulla cultura scolastica.  Gli autori, al contrario, li individuavano e concatenavano con lungimiranza analitica. Passare in rassegna le riforme introdotte in Francia nell’arco di un decennio che grosso modo va dalla strategia di Lisbona del 2000 al 2011, consente quindi di scoprire inaspettati parallelismi e convergenze tra la situazione che abbiamo vissuto nella scuola italiana e quella raccontata. Innanzitutto, la decentralizzazione e de-statalizzazione della gestione degli istituti (la cosiddetta autonomia), per continuare con le politiche dell’insegnamento basate sulla differenziazione e gerarchizzazione dei profili (dirigenza scolastica, carriera e attività accessorie), con l’“apertura alla società” degli spazi e dei tempi scolastici, (orientamento, alternanza scuola lavoro, partenariati e progetti pubblico-privati), fino al controllo continuo dei processi tramite valutazioni standardizzate. Sullo sfondo della onnipresente retorica sulla transizione digitale, da noi sono arrivate l’alternanza scuola lavoroPCTO, le certificazioni delle competenze individuali e standardizzate, poi i sillabi delle competenze imprenditoriali e filosofiche, la “sperimentazione” dei licei quadriennali, la più recente trovata dell’insegnamento delle soft skills, le linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica; queste ultime appena modificate in senso neoconservatore e securitario. Non è un caso che proprio le “attività di approfondimento” sui temi della cittadinanza attiva diventino mezzi utili per far scontare agli studenti le infrazioni delle regole disciplinari, come prevede la riforma della “condotta” dell’attuale ministro. L’insieme di tutti questi “tasselli”, ciascuno dei quali, preso separatamente, può apparire talvolta irrilevante o persino ridicolo, per la pomposità del lessico e degli obiettivi che dichiara di voler raggiungere, cominciano a comporre un mosaico coerente, man mano che scorriamo i capitoli della nuova scuola capitalista. A distanza di tempo le diverse unità discrete restituiscono una visione d’insieme assai più nitida. Ecco quindi che ritrovare tra le pagine degli autori la medesima neolingua, le medesime argomentazioni e le medesime tappe che in questi anni abbiamo vissuto, ci restituisce la prova dell’uniformità ideologica del discorso neo-riformatore e soprattutto della falsa presunta “necessità” che deriverebbe dall’inefficienza del nostro contesto nazionale. Gli interventi di riforma, proseguiti ininterrottamente sia in Francia che in Italia anche nel successivo decennio di questo inizio secolo, al di là dei falsi obiettivi di emancipazione e coesione sociale, hanno voluto incidere sostanzialmente su tre aspetti, seppur in maniera caotica e disomogenea. Il primo è stato quello di (tentare di) vincolare gli insegnanti in maniera sempre più cogente alla cosiddetta didattica per competenze, vincendo una resistenza collettiva storicamente assai tenace; il secondo è stato colpire l’organizzazione e la gestione interna degli istituti scolastici, differenziando i lavoratori in base a  criteri di affidabilità e di fedeltà al nuovo sistema; il terzo è stato quello di connettere sempre più intimamente la scuola ai desiderata dell’attuale mercato del lavoro. La tecnica impiegata per raggiungere tali scopi, sia come leva politica che discorsiva, è stata sempre la stessa: usare la valutazione standardizzata e la sua produzione continua di “dati” ed indicatori per giustificare, orientare e sostenere scelte politiche che nella sostanza, e senza alcun bilancio concreto, proseguono identiche da oltre vent’anni.

 

3) Le false innovazioni del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

 

 

È tuttavia con l’emergenza pandemica che la strategia di introduzione progressiva assume, almeno nel nostro paese, una nuova determinazione e, potremmo dire, una nuova forma di “aggressività”, che copre la sua fondamentale debolezza di fondo. Fino al 2020 avremmo potuto infatti riflettere sul sostanziale fallimento, inteso come esito definitivo e generalizzato, del disciplinamento imposto alla scuola, in parte arginato dalla resistenza degli insegnanti, sempre più indebolita dal peggioramento delle condizioni materiali di lavoro e dalla delegittimazione sociale, ma in parte anche dovuto all’intrinseca insufficienza sia sul piano intellettuale che applicativo degli schemi di riforma, rivelatisi spesso vuoti contenitori propagandistici privi di reali contenuti trasformativi. È esperienza comune e diffusa, tra i lavoratori della scuola ma anche dell’università, quanto le innovazioni tecnico-metodologiche e le pratiche di formazione imposte dalle continue richieste ministeriali si siano spesso tradotte in attività di poca o nulla consistenza culturale, in innovazioni improvvisate e superficiali, specie in presenza di contesti più fragili. È soprattutto dove il disagio sociale e materiale sono più radicati che le pseudo-innovazioni scolastiche diventano pratiche di mero controllo operativo e comportamentale, sia per studenti che insegnanti, per niente significative dal punto di vista degli apprendimenti. Basti come esempio la storia della riforma continua del segmento di istruzione tecnico professionale. Dalla Buona Scuola, che addirittura prescrive metodi di insegnamento basati sulla parcellizzazione per unità di apprendimento e sulla rendicontazione burocratica dei piani formativi individuali, spacciati per strumenti di personalizzazione, alla nuova filiera tecnico professionale del Ministro Valditara, che taglia direttamente un anno di studi (4 al posto di 5), promuove le esperienze “on the job” e gli insegnanti imprenditori “scelti dal mondo del lavoro e delle professioni”. Il piano di rilancio europeo (PNRR, Piano di ripresa e resilienza)[1], dicevamo, segna una discontinuità. Non certo ideologica, di temi e obiettivi, quanto piuttosto in termini di forza attuativa, finanziamenti e condizionalità imposte dai vincoli comunitari. A rendere dirompente il piano non sono i contenuti, ma la possibilità di spesa senza precedenti, la modalità di attribuzione dei finanziamenti, i vincoli e il monitoraggio attuativo che da questi deriveranno. Il PNRR modifica i rapporti scuola-Stato, introducendo riforme per mezzo di dispositivi legislativi d’urgenza, senza dibattito parlamentare; introduce negli istituti un nuovo sistema di partecipazione, attraverso bandi aperti a una moltitudine di soggetti, in concorrenza tra loro, rafforzando la dimensione di mercato e aggravando la burocratizzazione amministrativa; inaugura una ripartizione di  risorse di tipo tecnocratico, basate su indicatori opachi come quello di “fragilità” creato dall’istituto di valutazione INVALSI, ovvero senza alcuna possibilità di accertamento pubblico; impone ai progetti vincoli metodologici e didattici più difficili da aggirare, oltre che il raggiungimento di target misurabili; consolida processi verticistici, finalizzati a massimizzare l’efficienza e a ridurre il confronto dialettico, comprimendo ulteriormente gli spazi dei corpi intermedi e degli organi collettivi scolastici; realizza nuove gerarchizzazioni interne al corpo docenti: i tutor, gli orientatori, docenti esperti, i gruppi o  referenti delle varie linee di intervento.

 

4) Interpretare le tendenze future: la svolta neuro-affettiva e i tutor artificiali

 

Il piano inclinato delle politiche educative, che la nuova scuola capitalista ben descriveva, sembra continuare ad aumentare la sua pendenza. Assistiamo oggi ad una svolta neuro affettiva e terapeutica dell’istruzione, che risponde a un nuovo paradigma di comprensione della natura umana e delle sue relazioni. Lo testimonia la crescente mobilitazione delle organizzazioni internazionali e dei governi sul tema delle cosiddette “soft skills”, ossia quell’insieme di competenze psicologiche e comportamentali, ritenute “educabili” e malleabili fin dalla prima infanzia. Le politiche scolastiche promuovono lo sviluppo e addirittura la misurazione standardizzata (in Italia è appena partita una prima sperimentazione su studenti di 11 anni, condotta dall’istituto INVALSI) dei “tratti del carattere”, sulla scia delle indagini internazionali dell’OCSE. Alla base c’è l’assunzione che i dati sulla personalità, raccolti su larga scala, siano predittivi del potenziale progresso sociale ed economico di un paese e che l’apprendimento socio-emotivo rappresenti una rivoluzione didattica, sempre più personalizzata, grazie all’uso di tecnologie e piattaforme educative. L’intreccio digitalizzazione-intelligenza artificiale-valutazione è infatti centrale nell’attuale stagione neo-comportamentista delle politiche educative, alla cui base c’è la rinuncia politica a “correggere” un sistema sociale ed economico malato, che ormai non produce che disuguaglianza. Il fallimento e le difficoltà scolastiche diventano un problema di buona o cattiva “terapia individuale”: non contano i contesti sociali e familiari; non contano il numero di alunni per classe, le condizioni di vita e di insegnamento reali dei soggetti che si incontrano, corpo a corpo, nella relazione didattica. Successo e fallimento dipendono dal merito e dalla volontà; la felicità stessa, in fondo, può considerarsi questione di volontà e di apprendimento: bisogna imparare a coltivare le giuste disposizioni. Il nuovo paradigma “neuroscientifico” del capitale umano presuppone che metodi personalizzati e strumenti di valutazione sempre più fini consentiranno di “trattare” disagi individuali sulla cui natura non ha più senso interrogarsi. L’importante è produrre soluzioni personalizzate e ipotesi predittive dei possibili fattori di rischio, per attivare progetti che conducano a risultati quantificabili. È questo lo schema alla base delle recenti politiche di “contrasto alla dispersione scolastica” previste dal PNRR o degli studi che si prefiggono di “individuare precocemente gli studenti a rischio dispersione”, grazie a “un uso intelligente dei dati” condotti attualmente da Fondazioni bancarie, l’Istituto di valutazione o altri soggetti. Insegnare le soft skills e prevedere eventuali fallimenti è tanto più importante quanto più svantaggiato è il contesto di provenienza dello studente. Chi nasce senza capitale sociale, culturale, familiare, relazionale, chi è “fragile” nelle competenze cognitive, potrà sempre contare sul suo capitale psicologico: sulla sua resilienza, sulla capacità di adattamento e grinta. Oggi bisogna “insegnare ad essere”, ovvero insegnare innanzitutto che in un mondo sempre più difficile e incerto, bisogna imparare a mobilitare e dare forma all’insieme delle risorse psichiche, emotive e intime dei soggetti in formazione. Un’idea di scuola a metà strada tra l’ingegneria sociale e l’educazione terapeutica alle “emozioni più appropriate”: la naturale evoluzione della nuova scuola capitalista.

 

5) Infine, una questione di metodo

 

La sensazione che si prova dinanzi al linguaggio e alla rappresentazione pubblica delle necessità e delle sfide con cui la scuola oggi deve confrontarsi, che sono poi alla base del suo stato di riforma permanente, è quella di un continuo smottamento. Giorno dopo giorno, per piccole dosi, prende forma la persuasione che in un mondo incerto, in cui tutto cambia continuamente, non ci si possa più fidare dell’esperienza, dei codici e dei valori consolidati, dei saperi elaborati e delle pratiche acquisite e condivise negli anni. Il significato stesso di conoscenza e la sua utilità sono perennemente messi in discussione, il dialogo e la trasmissione tra generazioni sembrano arnesi vecchi, nella nuova infosfera, definitivamente superati dall’avanzare delle tecnologie digitali e dei social media. Una sensazione di oblio, di perpetuo movimento e incantamento travolgono la scuola: bisogna innovare, cercare metodi e tecniche sempre più aggiornate, abbandonare le proprie convinzioni e la propria visione delle cose, azzerare le distanze critiche, affidarsi, lasciarsi accompagnare verso una rigenerazione promessa in nome di principi non discutibili. D’altra parte, la memoria e il radicamento sono sempre state tra le più potenti armi di resistenza. Daniele Linhart ci ricorda che “gli schiavi in partenza dal Bénin per il Nuovo Mondo dovevano girare – nove volte gli uomini e sette volte le donne – intorno all’albero dell’oblio piantato dal re Agadja, al fine di dimenticare le proprie origini, la propria identità culturale, i propri riferimenti geografici”.

 

La nuova scuola capitalista ci offre e rinnova soprattutto un metodo: quello dell’analisi politico-economica materialista e di critica dell’ideologia.  “Non si capisce la nuova forma di scuola nell’epoca neoliberale del capitalismo se non si comprendono la natura e l’ampiezza della trasformazione del rapporto fra capitale e lavoro” , scrivono gli autori. La migliore forma di comprensione e di resistenza è quella che riporta costantemente il discorso a un livello fondamentale di analisi: capire ciò che accade alla scuola e all’università non può prescindere dal capire come funziona e come si trasforma il capitalismo, oggi così chiaramente insostenibile sia per l’uomo che per la natura. La lettura critica dei processi scolastici non può prescindere da una critica economica, sociale e politica, e dalla conoscenza aggiornata dei nuovi processi di produzione, profitto e sfruttamento. La scuola è diventata lo spazio ideale per formare alla subordinazione e alla concorrenza sempre più intense. Oggi più che mai, quindi, la scuola è capitalista, anche se questo termine sembra appartenere a un’epoca lontana. Non perché la scuola precedente rispondesse a logiche di riproduzione differenti, come la sociologia ci insegna da decenni, ma perché mai come oggi è richiesta una subordinazione diretta e precoce dell’intera vita sociale alle esigenze del mondo economico. Il capitale inteso come nuovo “codice” culturale, non solo come sistema di produzione  e riproduzione di rapporti sociali, vuole un “uomo nuovo”, abile nel problem solving, dedito al godimento transitorio, incapace di interrogazioni profonde ma soprattutto  di mettere in discussione i presupposti delle cose, di collegare la sua miseria, passività e la sua solitudine al dominio. Quella della scuola non è semplicemente una mutazione istituzionale, ma soprattutto è parte di una costruzione antropologica e di organizzazione sociale. Ma la scuola resta ancora uno spazio in cui giorno dopo giorno le persone stanno insieme: la collettività e la collegialità, il gruppo classe, la solidarietà e il riconoscimento che questi spazi possono alimentare e riattivare, sono i nemici più potenti da abbattere. Non è un caso che la nuova logica della personalizzazione e dell’orientamento individuale, i nuovi tutor digitali si rivolgano agli studenti e alle famiglie, uno per uno. Svelare tutti gli aspetti di questa contro-rivoluzione dissimulata da immagini e argomentazioni democratiche, smascherare ogni giorno la buona novella delle pratiche e degli slogan educativi, riaccendere la capacità di uno sguardo radicale – che va alla radice delle cose -, mettere in moto nessi conflittuali e spirito critico dinanzi all’abilità comunicativa manageriale: ecco a cosa serve per noi leggere e rileggere la nuova scuola capitalista.

 

La presentazione del libro si svolgerà il 25 Marzo pv all’Università Suor Orsola Benincasa nell’ambito della Settimana della Sociologia. Sarà presente Christian Laval. L’incontro si potrà seguire a distanza attraverso il seguente link: https://meet.google.com/xjj-

 

[1] Approvato nel 2021 dal Governo di Mario Draghi e attualmente condotto dal Ministro dell’Istruzione e del merito Valditara in perfetta e affatto sorprendente continuità, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede sei linee di intervento, per oltre 30 miliardi di euro, destinati alla digitalizzazione integrale, ai nuovi ambienti di apprendimento, al nuovo reclutamento, alla nuova formazione premiale e future carriere docenti, all’ orientamento e monitoraggio digitale degli studenti. Nulla di nuovo sotto il sole.

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