di Marco Nicastro
Un celebre detto recita: “La pubblicità è l’anima del commercio”. Vero, ma oggi bisognerebbe aggiornarlo, o quantomeno allargarlo. Si potrebbe allora dire: “La pubblicità è l’anima dei mass media”. In che senso? Provo a spiegarlo senza pretesa alcuna di esaustività.
Prima e dopo un telegiornale – cito qui il mezzo di informazione ancora più trasversale e popolare per la conoscenza delle notizie, ma potremmo fare altri esempi: un programma di approfondimento, un giornale, per non parlare dei social media – l’emittente televisiva manda in onda gli spot pubblicitari. L’emittente si sostiene essenzialmente con la pubblicità (a parte la televisione pubblica, che sfrutta anche il canone). Più viene pagata la pubblicità dalle aziende private, più incassa l’emittente televisiva. Per poter alzare il prezzo da pagare per farsi pubblicità, l’emittente deve garantire, alle aziende private interessate a dare visibilità ai propri prodotti, che i suoi canali e programmi sono molto seguiti dal pubblico. Fondamentale risulta quindi catturare l’interesse del pubblico, tenere incollate le persone al programma in questione. Come fare? Da un lato, certamente, dando in pasto agli spettatori prodotti facilmente comprensibili, risparmiandogli un eccessivo sforzo cognitivo che se fossero costretti a fare li spingerebbe a cambiare canale; dall’altro prodotti che stimolino emozioni basilari del cervello umano: sul versante positivo il binomio “sorpresa-piacere”, sul versante negativo quello “disgusto-trestezza-rabbia”.[1] Si tratta delle cosiddette emozioni primarie, risposte psicofisiologiche filogeneticamente fondate e meno influenzate dall’educazione culturale rispetto ad altre emozioni più sofisticate (ad es. la vergogna, il senso di colpa ecc.) che compaiono tra l’altro successivamente nel corso dello sviluppo individuale. Sono primarie anche nel senso di essere fondamentali per la sopravvivenza dell’individuo segnalando la presenza di situazioni o stimoli fonti di potenziale benessere-malessere.
Sfruttando l’attivazione di queste emozioni, ad esempio, gli spot pubblicitari convogliano l’interesse del consumatore su un certo prodotto, facendo sì che il suo ricordo sia più facilmente attivabile e persistente nella memoria. Si tratta tuttavia di un meccanismo sempre più sfruttato anche dai programmi televisivi e addirittura dai telegiornali. Ed è in particolare su quest’ultimo fenomeno che vorrei soffermarmi qui, perché mentre è comprensibile che un’azienda privata, il cui unico interesse è guadagnare dalla vendita di un prodotto, possa fondare tale attività su strategie di attivazione di questi stati emotivi attraverso gli spot pubblicitari, è meno accettabile che tale meccanismo venga sfruttato dalle emittenti televisive durante i propri programmi di informazione (quando non dalle stesse redazioni dei tg), che sono sì aziende private che come altre devono generare profitto, ma che al contempo svolgono la rilevante funzione pubblica di informare (e formare) correttamente i cittadini.
Cosa succede in pratica? Per attivare più facilmente quegli stati emotivi, i mezzi di comunicazione di massa concentrano la loro attenzione prevalentemente su determinate notizie, quelle appunto che suscitano sorpresa, paura, rabbia, divertimento-piacere, in modo tale da assicurarsi una più prolungata tenuta dello spettatore davanti al proprio schermo. Ecco allora un fiorire di notizie di cronaca nera (omicidi, violenze sessuali, rapimenti), di cui spesso non vengono risparmiati allo spettatore particolari molto crudi; notizie che hanno a che fare con la violenza (guerra, risse e rivolte sociali); notizie allarmanti (epidemie, disastri naturali, migrazioni di massa); per poi passare rapidamente, con un meccanismo che a volte lascia sconcertati, a notizie che stimolano l’altro versante emotivo, quello del divertimento-piacere: gossip su personaggi famosi, sport, moda, fino a proporre brevi video stupidi o esilaranti postati da utenti privati sui principali social media. Poco, in proporzione, è lo spazio dedicato alle notizie che sarebbe più utile sapere, ad esempio decisioni politiche che impattano fortemente sulla vita dei cittadini, per non parlare di notizie di “cronaca bianca” (mi si passi l’espressione), notizie cioè che parlino di eventi o azioni di singoli individui, o gruppi di cittadini, meritorie ed esemplari per la società.
Se concentrarsi su queste notizie tiene più facilmente incollati gli spettatori ai vari programmi televisivi, tra cui appunto i tg, è vero anche che ha degli effetti non irrilevanti sui fruitori finali delle stesse. Innanzitutto contribuisce a determinare quella che nelle teorie della comunicazione viene definita agenda setting,[2] cioè uno schema di priorità nelle informazioni con cui leggere la realtà di ogni giorno, anche la propria specifica realtà e non solo quella più ampia del mondo. È come se la mente dei singoli, sollecitata dalla rilevanza mediatica (ed emotiva) data a certe notizie, si tarasse lentamente in modo da dare priorità a certi eventi e iniziasse a prestare più facilmente attenzione a certi accadimenti in mezzo ad altri. Così, se per esempio i giornali ripetono per mesi notizie di stupri e scippi, oppure di sbarchi di immigrati, o di manifestazioni di gruppi di cittadini contro certe decisioni politiche (manifestazioni che poi magari degenerano in scontri con le forze dell’ordine), per una parte della popolazione diventeranno quelle le priorità da affrontare collettivamente e, soprattutto, diventeranno più sensibili a intercettare aspetti della realtà coerenti con quelle notizie. In pratica, le persone iniziano a vedere della realtà quotidiana soprattutto certe cose, e questo grazie non solo alla ripetizione dell’informazione nel tempo, ma anche grazie all’aiuto delle immagini che colpiscono immediatamente l’attenzione dello spettatore (la vista è l’apparato sensoriale più importante e sviluppato nell’uomo per lo scopo evolutivo della sopravvivenza). Questa deriva è particolarmente pericolosa oggi, nell’era degli smartphone e dei social, che sfruttano la possibilità delle persone di accedere veramente di continuo alla rete per pescare video e notizie (a differenza dei tg tradizionali, in genere mandati in onda alcune volte al giorno). Inutile dire quindi quanto quel rischio sia ancora maggiore oggi, considerato l’alto potenziale di dipendenza psicologica indotta dagli smartphone,[3] il facile accesso a tali strumenti e contenuti da parte di giovani e giovanissimi, lo scarso controllo sulla qualità delle notizie circolanti sui social.
Oltre a facilitare una taratura del filtro cognitivo di percezione della realtà e di ciò che in essa può essere più rilevante per sé stessi, questo martellamento mediatico, che gioca come la pubblicità (e per la pubblicità) sulle emozioni basilari e più primitive dell’essere umano, potrebbe portare a una maggiore suscettibilità dell’apparato psichico ad attivare proprio quelle emozioni (paura, rabbia ecc.), che, specie negli individui più fragili psicologicamente (i minori, chi soffre di problematiche psichiche più o meno evidenti) o socialmente (chi vive in condizioni di emarginazione) può determinare alcuni effetti rilevanti, il più pericoloso dei quali è la tendenza a reagire attraverso il comportamento per scaricare la tensione emotiva accumulata a seguito di quel bombardamento mediatico, ad esempio agendo contro determinate persone o gruppi sociali su cui quella tensione viene convogliata. In una parte della popolazione quindi, grazie a questo lavorio costante dei mass media a grande impatto percettivo e di larga fruizione (tv e social), si getterebbero le basi per la creazione di due setting mentali: uno cognitivo, che dà salienza a certi aspetti e non ad altri della realtà; uno emotivo, caratterizzato da una maggiore attivazione di certe risposte emotive – paura, rabbia, ricerca del piacere – evolutivamente pregnanti in termini di sopravvivenza. Un meccanismo che i nostri tg e gli altri programmi forse sfruttano in buona fede, solo per fini commerciali (garantire maggiori introiti pubblicitari per la propria rete televisiva), ma che non è affatto neutro per la vita quotidiana dei cittadini e la loro capacità di leggere e reagire ai problemi e alla complessità del reale.
Non si dovrebbe continuare a sottovalutare tale pericolo e il fatto che questo processo esponga oggi le società a un maggior rischio di instabilità sociale, politica (elezioni influenzate da notizie false o video dal contenuto estremistico diffuse in modo insistito su alcuni social media a partire da profili falsi o dalla taratura di base dell’algoritmo) e perfino sanitaria (si pensi alle conseguenze della diffusione di fake news durante la pandemia, ma anche all’accresciuto rischio di psicopatologia negli adolescenti che trascorrono ore ogni giorno sui principali social, così centrati sull’immagine idealizzata e manipolata del corpo[4]), soprattutto considerando la diffusione di smartphone e social media praticamente a tutta la popolazione mondiale. Considerando poi che questi dispositivi sono in mano a privati che possono avere degli interessi non solo commerciali ma anche politici, e che hanno risorse economiche praticamente illimitate e tali da poter influenzare qualunque istituzione pubblica, c’è da allarmarsi. Si tratta di un processo attivo già da alcuni anni, ma che negli ultimi è ulteriormente degenerato nel silenzio colpevole di politici, giornalisti, intellettuali e persino studiosi (i dati sui rischi connessi all’abuso di smartphone e social sono noti da tempo[5]).
Da un lato il sistema culturale dei media dovrebbe fare la sua parte, regolamentando diversamente il flusso e la frequenza di certe notizie ed equilibrandole con altre di segno opposto, che fanno anch’esse parte della realtà e che vengono perlopiù ignorate, dandosi quindi regole deontologiche più precise e rigide (o seguendo quelle che ci sono in modo più rigido). Fare ciò non è in contrasto con la libertà di stampa, ma anzi la innalzerebbe, dinnanzi a certi rischi per la salute pubblica, a livelli etici maggiori. Dall’altro anche la politica europea dovrebbe agire in modo più deciso e rapido, regolamentando meglio l’accesso agli smartphone e ai social network soprattutto dei minori (alcuni paesi nel mondo hanno iniziato a farlo, ad es. l’Australia) e stabilendo norme più stringenti, e sanzioni molto più dure se violate, relative alla circolazione e alla verifica di certe notizie sui principali social media.
Dietro il velo dell’ampliamento a dismisura della libertà comunicativa e di informazione rischia di essere silenziosamente minato il funzionamento democratico delle nostre società.
Note
[1] Sebbene siano due strategie mediatiche complementari e che si rafforzano a vicenda, è sulla seconda, quella emotiva, che qui mi voglio soffermare.
[2] Cfr. McCombs M., Shaw E. F. (1972), cit. in Renato Stella, Sociologia delle comunicazioni di massa, Utel, Torino 2012.
[3] Vedi il documento finale dell’indagine conoscitiva presentato dalla 7ª Commissione del Senato (Istruzione pubblica, Beni culturali) sull’effetto negativo dell’uso degli strumenti digitali sui processi di apprendimento degli studenti (9 giugno 2021).
[4] Assolutamente da vedere, a tal proposito, la puntata del programma in onda su Rai3 Presa diretta (stagione 2022/2023) intitolata “La scatola nera”.
Da leggere anche un recente studio del Cnr di Roma sui rischi di ritiro sociale, depressione e suicidio negli adolescenti italiani. Cfr. Cerbara L., Ciancimino G., et al. “Self-isolation of adolescents after Covid-19 pandemic between social withdrawal and Hikikomori risk in Italt”, Scientific Reports, 15, 1995 (2025).
[5] Cfr. ad esempio due recenti saggi del neuroscienziato Manfred Spitzer: Demenza digitale (Corbaccio, Milano 2013) e Emergenza smartphone (Corbaccio, Milano 2019).