di Federico Scirchio

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

Nel 2024 l’Europa ha visto quasi raddoppiare le importazioni di prodotti e-commerce (da 2,4 mld a 4,6 mld). È notizia recente[1] che la Commissione Europea ha inviato alla cinese Shein, una delle aziende protagoniste di questo exploit commerciale, una richiesta di informazioni dettagliate sul rispetto delle normative europee relative ai prodotti esportati nel continente. Shein è stata criticata per la possibile presenza di cotone proveniente dallo Xinjiang nei suoi capi, una zona soggetta a divieti per lo sfruttamento della manodopera uigura. Oltre a questo, l’antitrust in Italia ha aperto un’indagine contro la società per presunte pratiche ingannevoli sulla sostenibilità.

Ciò che sta emergendo su Shein in merito all’uso di pubblicità ingannevoli, allo sfruttamento della manodopera e all’inquinamento non è un’eccezione, ma la norma nel mercato globale della fast fashion.

 

“A cosa serve la moda?” (p.32) è la domanda che l’autrice Tansy E. Hoskins pone al lettore all’inizio del suo saggio Il libro della moda anticapitalista (Il Saggiatore, 2024). Probabilmente se ponessimo questa domanda a un qualsiasi cittadino europeo o del nordamerica, la risposta riguarderebbe qualcosa circa la creatività, lo sviluppo di nuove tendenze, associando l’idea del sistema-moda alle lussuose passerelle delle maisons di Parigi o Milano, agli shooting delle modelle con gli abiti di Valentino, Versace, Dolce e Gabbana, agli eventi mondani che fanno da corollario alle presentazioni delle nuove collezioni. Se invece la stessa domanda venisse posta a un qualsiasi cittadino del Bangladesh, la risposta sarebbe molto diversa e con buona probabilità riguarderebbe il lavoro, l’economia del Paese e le immagini associate riguarderebbero le grandi concerie, le fabbriche tessili dove si lavora ininterrottamente e le recenti proteste delle lavoratrici per un salario minimo dignitoso. Lo scopo del libro è proprio questo: svelare come, dietro la sfavillante immagine che l’Occidente diffonde del mondo della moda, esista una realtà fatta dell’odore acre delle concerie, delle montagne di rifiuti tra le baraccopoli, di fiumi così inquinati da essere “biologicamente morti” e di storie di quotidiano sfruttamento.

 

Uno degli episodi più drammatici riportati nel libro è il crollo del Rana Plaza a Dacca, nel 2013, una tragedia che costò la vita a più di 1.100 operaie tessili, e che sconvolse l’opinione pubblica internazionale. Hoskins usa questo evento come simbolo delle condizioni disumane in cui operano milioni di lavoratori dell’industria della moda. “La relazione tra l’industria della moda e la violenza è talmente stretta che non esisterebbe moda senza una violenza continua, effettiva o minacciata. Pistole piazzate sui tavoli, aggressioni a lavoratori e attivisti, uso di munizioni vere (vietate dalla legge), soprusi di carattere coloniale sul territorio e violenza sessuale endemica: tutto ciò confluisce nella violenza sistemica che permette il regolare funzionamento dei nostri sistemi politici ed economici” (p. 145).

Fin dalle prime pagine, l’autrice chiarisce che il problema della moda non risiede solo nei brand o nel consumo dei singoli individui, ma nell’intero sistema economico che la regge. Si sottolinea come la moda, tanto quanto altri settori dell’economia, sia oggi essenzialmente un’industria globale che punta esclusivamente al profitto, ignorando le condizioni di vita di chi lavora e l’impatto ambientale della produzione.

 

“Per comprendere il motivo per cui l’industria della moda oggi appare in questo modo dobbiamo esaminarne la storia attraverso il prisma della globalizzazione, del commercio coloniale, dell’industrializzazione e dei conflitti che questa ha comportato” (p. 155).

 

Questa tesi viene supportata nel libro da una puntuale ricostruzione storica dove l’autrice illustra come si è affermata la fast fashion dal dopoguerra a oggi.

 

“«Preferirei vendere 5000 pezzi a 10 dollari che un pezzo unico a 500» dichiarò un direttore dell’ufficio acquisti che lasciò il suo posto presso il prestigioso Saks, sulla Quinta Strada, per lavorare da Sears, che si rivolgeva a una fascia più bassa di clientela. Stanley Marcus, proprietario dei grandi magazzini Neiman Marcus, sintetizzò il cambiamento con queste parole: «il nostro scopo è vendere al petroliere, ma ancora di più alla segretaria del petroliere» (p. 50).

 

La corsa alla produzione a basso costo porta le grandi aziende a delocalizzare la manifattura in Paesi dove il costo della manodopera è al limite dello sfruttamento, con salari irrisori e tutele inesistenti. Hoskins denuncia questa realtà, spiegando come i giganti della fast fashion abbiano creato un sistema in cui il costo di produzione di un capo è ridotto al minimo, mentre il prezzo al dettaglio rimane sufficientemente alto da garantire margini di guadagno enormi.

Negli ultimi anni, molte aziende hanno cercato di ripulire la propria immagine attraverso iniziative “green”, proponendo collezioni realizzate con materiali riciclati o processi produttivi meno impattanti. Tuttavia, Hoskins smonta questo concetto, definendolo una mera strategia di marketing.

 

L’autrice mette in evidenza come molte aziende si limitino a un “greenwashing”, ovvero una strategia comunicativa volta a far apparire il brand più sostenibile senza attuare reali cambiamenti nella produzione.

 

“La crisi ambientale che viviamo non è l’esito del comportamento di aziende ‘cattive’ o di dirigenti ‘cattivi’ ma di un sistema malato. Il mantra del capitalismo, per servirsi delle parole di Marx, è ‘accumula o muori’. Le fabbriche sputano scarichi tossici perché la logica della competizione le costringe a trovare il modo più economico di produrre a un tasso di profitto più elevato dei concorrenti. Ecco perché si tagliano i costi, s’ignorano le misure di sicurezza e si scaricano sostanze inquinanti nei fiumi” (p. 180).

 

Un esempio lampante è H&M, che con la sua Conscious Collection pubblicizza prodotti “ecologici”, ma continua a fondare la propria struttura aziendale sulla produzione di massa, un modello insostenibile per l’ambiente.

 

“Non c’è da fidarsi delle dichiarazioni ‘green’ da parte dei brand. Un’indagine della Changing Markets Foundation ha esaminato dodici marchi e oltre quattromila prodotti e ha scoperto che i brand «ingannavano abitualmente i consumatori sostenendo politiche eco che però restavano sulla carta». Il 59% delle dichiarazioni green aggirava le leggi stabilite dalle linee guida della UK Competition and Markets Authority. In prima fila nell’elenco dei trasgressori c’erano H&M con il 96% di false dichiarazioni, Asos con l’89% e M&S con l’88%. Sembra incredibile, ma la Conscious Collection di H&M conteneva una percentuale di materie sintetiche superiore a quella delle collezioni standard: il 72% a fronte del 61%. È evidente che l’autoregolamentazione ha fallito: il report prevede che la dipendenza dell’industria dalle materie sintetiche si aggraverà, dato che nessun brand ha adottato un piano per ridurre la sovrapproduzione di fibre plastiche” (p. 181).

 

Secondo Hoskins, l’unico modo per rendere davvero sostenibile l’industria della moda è ridurne drasticamente l’output produttivo. Tuttavia, ciò andrebbe contro gli interessi delle multinazionali e, più in generale, contro i principi fondamentali dell’economia capitalista, basata sulla vendita di enormi quantità di vestiti a basso costo.

 

Un altro aspetto centrale del libro riguarda il ruolo della moda nella creazione e nel mantenimento delle disuguaglianze sociali. Hoskins sottolinea come il settore sia costruito su un sistema di classi, dove i marchi di lusso si ergono a simboli di status, mentre la fast fashion rappresenta un modo per le masse di partecipare, seppur illusoriamente, a un’idea di eleganza e modernità.

 

“Un altro motivo per cui i profitti rimangono alti è perché il settore della moda di lusso non realizza utili basandosi esclusivamente sulla vendita di abiti costosissimi. Anzi, ricorre a una strategia nota come ‘modello a piramide’: un piccolo numero di prodotti di lusso come capi di alta moda e valigeria viene venduto a clienti estremamente ricchi, ma i profitti maggiori sono generati dalla vendita di beni destinati al mercato di massa, e comunque a un prezzo assai sovraccaricato. Come la stilista delle celebrità Maeve Reilly ha detto al sito Fashionista: «la maggior parte della gente non va in negozio per comprarsi un abito da sera da centomila dollari, ma un blazer o una borsa o un top o le scarpe del marchio che ha realizzato quell’abito»” (p. 65).

 

L’autrice critica aspramente la narrativa secondo cui chi acquista fast fashion sia moralmente responsabile del sistema di sfruttamento. In realtà, le vere responsabilità ricadono sulle aziende e sulle politiche economiche che hanno reso inaccessibili alternative etiche per la maggior parte dei consumatori. “La colpevolizzazione del consumatore è una strategia che distoglie l’attenzione dai veri responsabili: le multinazionali e il sistema capitalistico che le sostiene” (p. 156).

 

Il libro della moda anticapitalista è un saggio fondamentale per comprendere che l’attuale settore della moda non è riformabile. Hoskins non si limita a denunciare le ingiustizie del sistema, ma invita a un cambiamento radicale, suggerendo che la soluzione non sia un consumo più etico, ma una trasformazione dell’intero modello socio-economico. “La moda non è solo abiti: è politica, è economia, è lotta di classe. E solo comprendendola possiamo sperare di cambiarla” (p. 210).

 

Nota

 

[1] https://italy.representation.ec.europa.eu/notizie-ed-eventi/notizie/la-commissione-richiede-shein-informazioni-sui-prodotti-illegali-e-sul-suo-sistema-di-2025-02-06_it

1 thought on “Su “Il libro della moda anticapitalista” di Tansy E. Hoskins

  1. Quali strategie potrebbero adottare le aziende della moda per ridurre l’impatto ambientale e sociale della fast fashion senza compromettere la loro competitività economica?

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