di Arturo Mazzarella e Tommaso Ottonieri

 

A seguito di un incontro avvenuto alla Libreria Tomo di Roma, “La poesia rivolta il mondo”, ospitiamo qui un dialogo critico fra Arturo Mazzarella e Tommaso Ottonieri, nato dal confronto con  i temi elaborati in Fossili di rivolta e La specie storta di Giorgiomaria Cornelio, entrambi pubblicati da Tlon Edizioni.

 

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Arturo Mazzarella

Nel dissesto permanente 

 

Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita si presenta come un testo dalla struttura particolarmente innovativa, che sfida le convenzioni della scrittura saggistica tradizionale. Organizzato in brevi capitoli che non seguono un ordine sistematico, derivando da una discorsività frammentaria e rapsodica, il libro di Cornelio intende suggerire una riflessione articolata su vari plessi semantici, cruciali nella contemporaneità, tra cui la natura del tempo, la memoria storica e il ruolo dell’immaginazione nella rinascita del passato. Pur nella sua apparente dispersione Fossili di rivolta è governato da un implicito, ma preciso, filo conduttore. Lo si potrebbe ricapitolare nei termini di una riflessione sul tempo in chiave decisamente antistoricistica: come un vettore che si è congedato dalla tradizionale linearità e progressione per rivolgersi alle “sopravvivenze” – le definirebbe Warburg, un autore particolarmente caro a Cornelio – del passato, solcato da una dynamis sempre attiva, anche se in apprenza sommersa.

 

 Il titolo stesso, Fossili di rivolta, costituisce un paradosso, dal momento che i due termini (fossili e rivolta) sembrerebbero inconciliabili, ma, nel contesto dell’opera, si intrecciano per suggerire una concezione radicalmente diversa del tempo storico. Se il fossile, da un lato, è simbolo di ciò che giace immobile, inerte, un oggetto confinato nel passato, sottratto a qualsiasi possibilità di movimento o trasformazione, incrinando, tuttavia, la linearità del decorso storico che procede attraverso una scansione progressiva dal passato al presente, evoca anche l’ipotesi di un’inversione temporale, l’idea di un’azione che si è interrotta, ma può improvvisamente anche rimettersi in moto. La contraddizione tra questi due poli non è casuale, dal momento che delinea un orizzonte teorico lontano dalla tradizionale concezione di una temporalità fondata sulla progressione. Il titolo suggerisce, infatti, una nozione di tempo che non si dispiega in un’unica direzione, ma risulta segnata dall’intreccio tra passato, presente e futuro. Lungi dall’essere una successione puntuale di eventi, il tempo diventa un campo di tensioni e conflitti in cui il passato può irrompere di continuo nel presente, ripristinando, così, fasci di energie che sembravano sopite. In questa prospettiva i “fossili di rivolta” annunnciano un tempo in cui la memoria storica, sebbene sepolta, può sempre “rinascere” – direbbe ancora Warburg – grazie alla forza dell’immaginazione.

 

Proprio l’immaginazione emerge come categoria centrale del libro di Cornelio. Attenzione però: si tratta di una facoltà antitetica ai semplici esercizi della fantasia (quella che Coleridge, nella Biographia literaria, denomina fancy in opposizione a imagination). Siamo in presenza, viceversa, di una potenza creatrice (Einbildungskraft, secondo il lessico dei Frammenti filosofici di Novalis) che consente di rivitalizzare quanto è scomparso, riportando alla luce simboli, figure e memorie definitivamente abbandonati. Questo ritorno al passato non è prodotto dalla nostalgia di un tempo perduto, implica, piuttosto, il risveglio di una storia sotterranea, una rinascita che avviene mediante il lavoro creativo dell’immaginazione, intesa da Cornelio essenzialmente nell’accezione di Giordano Bruno e Novalis.

Per Bruno l’immaginazione (imaginatio) costituisce il principio generativo, e regolativo, dell’ars combinatoria, di quel processo, cioè, in grado di associare e intrecciare una molteplicità di frammenti discordanti, in modo da estendere verso esiti imprevedibili i confini angusti di una realtà presupposta come già data: costante obiettivo critico di tutte le sue opere, dal De Umbris idearum e l’Ars memoriae fino al De vinculis in genere.

 

Altrettanto vale per Novalis, il quale, profondamente segnato dalla medesima eredità neoplatonica, è rivolto ad assimilare l’immaginazione all’unica vis conoscitiva capace di infrangere i limiti dell’evidenza sensibile per proiettare la realtà verso la rete delle invisibili, e indefinite, relazioni che la percorrono.

 Proprio il tema della rete, inserendosi in questo orizzonte concettuale, diventa uno degli epicentri privilegiati da Fossili di rivolta. I riferimenti, tuttavia, non riguardano solo la rete tecnologica e digitale che caratterizza la contemporaneità. Il rilievo attribuitole da Cornelio si snoda lungo lo spaccato diacronico di una “metafora assoluta” – direbbe Blumenberg –, la quale affonda le sue radici nella storia del pensiero e della cultura occidentale. Basti pensare, per esempio, alla incandescente figuralità di cui si alimenta la predicazione in volgare dalle origini alla prima metà del Quattrocento, accuratamente analizzata da Lina Bolzoni in un saggio del 2002 intitolato non a caso La rete delle immagini.

 

Le riflessioni sulla rete svolte da Cornelio si estendono attraverso una trafila che parte, appunto, dalla cultura medioevale (dove la “rete” designa le connessioni ritrovate dai monaci nel corso del lavoro ermeneutico svolto sui testi sacri, generando un’intricata matassa di intrecci e dissonanze) per arrivare al cuore del nostro presente, attratto troppo spesso dall’idolatria di un indeterminato progresso.

Fossili di rivolta condivide pienamente, dunque, l’orientamento critico nei confronti di quella concezione del potenziamento conoscitivo che considera l’avanzamento tecnologico come motore principale, se non esclusivo. L’innovazione, anche secondo Cornelio, non è mai il risultato di un perfezionamento, ma deriva inesorabilmente dal conflitto, dalla dialettica tra opposti. È il motivo per cui nell’avvicinarsi a una genealogia della virtualità – tracciata attraverso uno spettro estremamente ampio e ramificato – Cornelio si riferisce a modelli di conoscenza estranei a ogni forma di soluzione.

 

L’”archeologia del possibile” definita in Fossili di rivolta non mira a ricostruire l’ipotetica compattezza del continuum storico, ma si rivolge alle fratture, agli arresti e alle interruzioni, come, d’altronde, alle inaspettate rinascite e agli improvvisi ritorni. Si annidano qui, infatti, i presupposti imprescindibili della conoscenza sia del passato sia del presente. Ecco perché il “dissesto permanente” che attraversa il libro di Cornelio non possiede i caratteri di una sintesi pacificata, ma rinvia all’interminabile apertura di nuovi conflitti, attribuendo proprio alle dissonanze il valore di esclusivo principio della creatività. Non è certo poco.

 

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Tommaso Ottonieri

Al mondo che viene

Fra i termini chiave che spiccano nella articolata trama della Specie storta (poesia, prosa, teoria, teatro, e cinema invisibilmente), e più specificamente nella più corposa sezione, Favole del secondo diluvio, che la apre,  possiamo incontrare, particolarmente a rilievo, quello di deformazione; tema e processo; e sottilmente in bilico su una fisica della deformità. Questo principio di deformazione, sorta di “anamorfosi” in flusso continuo, è caratteristica intrinseca del linguaggio di Giorgiomaria: e per il tramite d’una parola agìta, si presenta in qualità di protesta e ribaltante rivolta nei confronti della soggettività autoriale, corrompendola, moltiplicandola assottigliandola (disseminata nelle storture della lingua) nell’istante medesimo in cui vi impone pienezza di stile già interamente (così precocemente) maturo. Qui, la scrittura, non solo diluvia e rovescia le parole, ma le trasforma in specie ulteriore, spinge (e forza) la lingua per giri fonico-semantici in grado di urtarci per il loro dislocarsi attrattivo, obliquo; allogante altrove, la percezione di chi si pone in ascolto. È un processo che muove la sintassi, ma che sembra muoversi per forza di una torsione lessicale devota a un rigoroso, e pure lucido principio di alterazione. Di-storcere; di-scrivere; de-formare; che è modo elettivo del formare, del comporre altro, de-lineare altrove, per chi sia devoto alla rubente alchimia della parola.

 

Evidente (e se ne è detto in questa sede) la dominanza del segno “cinema” nelle pieghe dell’opera di Cornelio; e il concetto di “cinema vivente” (tratto dalla tuttora abbacinante visione di Saint-Pol Roux) è sviluppato in un capitolo di particolare rilievo di Fossili di rivolta. Per Giorgiomaria, il cinema non è semplice arte tecnologica, piuttosto, risponde a una “tecnologia ancestrale”, radicata nel tessuto vivente della cultura: quasi un cinema primordiale che precede ogni realizzazione tecnica (idea di cinema annidato nel mentale, e pure fatto vero prima del cinema stesso); casomai, quello che Ejzenstejn (richiamandosi a Goethe) definiva “Urphänomen” cinematografico, ma radicato quasi nel DNA di ogni forma di espressione che abbia a che fare col movimento linguo-corporeo, con la motilità stessa dell’organismo acquatico, col passaggio repentino-espanso della pura luce. Un “cinema” fisico ma mentale, che sia a manifestarsi dunque nello sfarfallio delle trasparenze, al modo di quelle cattedrali gotiche per cui la fisica della luce, infiltrata nelle tessere di piombato vetro, diviene immersiva metafisica: ferma, e più guizzante, carne di spirito, sprigionarsi di spiriti. Così, il concetto cinegrafico è, nella distorsione ottica che vi balugina, l’immagine stessa della lingua. Quasi cinema “autografico” (così Cornelio lo sente), che ara il terreno per una naturalizzante “tecnologia” del linguaggio; fascio di luce che non illumini semplicemente, la realtà, ma aspiri a trasformarla: raggio utopico, nelle stesse intermittenze della sua variegata proiezione.

 

In questo senso, ciò che Cornelio agisce è una sorta di cinema della scrittura; non riproduzione (mai descrittivo, il suo stile, ma casomai “discrittorio”), e invece (stato di) alterazione, della realtà: illuminarla, bruciando, e consumandosi (sulla traccia di Zanzotto, di sicuro fonte di ispirazione di diverse delle oltranze di Cornelio). Ma insieme, è un esercizio di rottura delle temporalità stabilite, cortocircuitare su di sé (rimettere in circuito) l’idea stessa della fine: dislocando, distorcendosi, altrove; «produrre insorgenze contro il morire del giorno, abbattere il paravento che separa i diversi tempi, risvegliare quanto si credeva defunto attraverso una archeologia del possibile».

Cine-grafia, linguaggio-movimento, gesto vocale fissato dall’intermittenza della luce, atto a conferire riflessi e bagliori all’oscurità della parola; o sia, secondo il progetto che lo spinge, aureolare le cose per uno screziato spiegamento di possibilità, tutte in assolvenza. Che questo s’incarni in “rito teatrale” (celebrato nell’ambito della festa della poesia “I Fumi della Fornace” in un minuscolo paesino nei pressi di Macerata) rende conto della natura poliespressiva di un libro-concetto che punta a restituire evidenza, a tutto quello che si rigetta nella sfera del diverso, dello sghimbescio, del negato o persino dell’estinto, dell’ «avanzo sgrottato» dal restituire al «mondo che viene».

 

Chi ha polvere nella bocca.

Chi è nato sotto il tamburo.

Chi non serra        il cerchio.

Benandanti, sconclusi, dis-

sepolti, male fatti. Siamo

sempre stati qui: nel punto

in cui le parole

                             si ritirano.

 

All’evidenza, il libro di Cornelio è opus oscillante tra prosa e poesia, forma impura, mutàgena; in divenire, in rivolta (linguistica): forma di resistenza contro la chiusura del linguaggio, e che muove una radicale “sconclusione” – altra nozione che qui si accampa, centralmente dall’ultima soglia (i versi della Rinnovella), per adesione a un principio d’insorgente metamorfosi (che sarà di carni – quelle dei “male fatti” – ma anche dei luoghi e degli oggetti, fattuali o verbali: nell’insopprimibile loro rivoltarsi al centripeto destino di irrigidirsi in ruoli e funzioni, di esser dati-per-sempre). Sapienziale che sia, misterioso al modo che lo sono gli organismi sboccianti, in dissepoltura, dalla condizione loro di abbozzo, il linguaggio rifugge dal conchiudersi, piuttosto si apre al germinare delle sue trasformazioni cioè di quelle poste oltre ogni medesimo dicibile. Innanzitutto le parole, sono individui in rivolgimento; e si pausano, aprono iati, feritoie, a una dizione che (di là dall’istante ritual-performativo, che sulla pagina getta la sua ombra – la documentazione fotografica, in coda – ma nella sua concreta realizzazione ci sfugge) si ri/vela insieme icastica (sapienziale) e desultoria (ritirata, nell’ombra).

 

È quanto si esprime, peraltro, nel modo del deformarsi: minimale, e come chirurgicamente, del linguaggio noto. Ogni scheggia di verbalità, si assoggetta a una manipolazione casomai inapparente, una slittante e creaturale “anomalia” si insinua, di sbieco, nell’atto stesso dello in-scrivere. La pronunzia, attuata après le déluge (tema di partenza dell’azione testual-teatral-cinegrafica), non mirando ad alcuna forma di purificazione o di rigenerazione, ma piuttosto a una trasformazione radicale, un convertirsi in altro e sia pure nella necessaria imperfezione-incompiutezza del non serrato cerchio, di chi si espone al vento del rivolgimento. Lungi dal configurarsi come fenomeno che spazza via tutto (Frontaloni) per ristabilire un ordine, casomai più ferreo, della realtà, il diluvio s’impone, più che rimbaudianamente, come forza deconfigurante, o sfigurante, più ancora che riconfigurante il reale; rovesciamento ancora da compiersi, e che rilascia un’impronta di imperfezione, un segno (per flebile che sia) indelebile, che permane nel fondo del linguaggio, a storcerlo. E a disporlo in attesa di quanto, mancandolo, potrà attuarlo.

 

Di tutt i nomi,      solo

uno non sarà vinto:

quello che ancora

manca.

 

Inesausta apertura delle significazioni, quasi energia fossile in attesa di venir liberata, di sprigionarsi; costruire possibilità inedite, preservando tracce di ciò che è stato. L’idea del diluvio, dunque (Rimbaud, nuovamente), innanzitutto come energia rivelatrice, che possa scatenare l’irrisolto profondo del sostrato culturale (che si osserva, trascinandolo indietro nella sformata ombra del futuro, perché possa attivare ancora – giusto nell’incompiersi – vive forze di trasformazione). – Per una situazione non troppo dissimile (aggiungerei, per inciso), da quanto tentato dalle precedenti generazioni degli eroici “realisti allegorici”, gli sperimentatori “novissimi” e quelli poi “ipertrofici” degli sperimentatori del/nel linguaggio, quella storia insomma a cui io stesso appartengo; caleidoscopi di forme a sfidare (individuare brecce, in) quel blocco storico (“postmodernità”, probabilmente, per tutto quel che non-significa? neobarbaricità d’un tardomoderno autoritario-apocalittico), fattosi sempre più evidente verso lo scadere del secolo breve. Questione particolarmente sentita in quell’età postrema, a cavallo di due millenni (a cui diedi, per un’ultima volta, voce, in un volume saggistico uscito nel chiastico anno 2000). La specie storta sa di muoversi in una naturalità ologrammatica, assoggettatasi a già effettivi scrosci e riverberi di apocalissi (penso a un film magnifico, uscito una decina di anni fa, La quinta stagione di Peter Brosens e Jessica Woodworth), e però malcerta brancola, nella scena oltre la fine, non per cercare vie di rigenerazione, ma per scavare ancora nel solco di ciò che è rimasto irrisolto e inespresso; nelle gore d’una realtà che non cessa di sospendersi, ma che si abita nella, e per la, sua stessa incompletezza. Modo assurdo ma unico possibile di «scongiurare l’idea dell’estinzione», dice l’autore stesso, nella nota che conclude le parole lasciando spazio alla documentazione fotografica dell’azione per “I Fumi della Fornace”.

 

Di ciò è parte, infatti, la vocazione teatrale (performativa), che, al pari della cinegrafica, agisce la scrittura di Cornelio; quasi questa fosse destinata a prendere vita sulla scena, anzi già costituisse attivamente scena, avanti di ogni interpretazione vocale-gestuale. Scrittura-voce, scrittura gesto: sintassi ritmica invisibilmente, accelerata sino nell’arresto, frammentandosi (soffocandosi) giusto per ampiezza di respiro, e sempre tesa però a formare un campo di tensione come promandandosi da un proscenio calato nel paesaggio de/naturalizzato. La propensione sapienziale che pure da ogni poro traspira in questo spazio di scrittura, non è mai dogmatica mai chiusa, ma invece aperta, in qualche maniera, disarmata, pure; tracciare segni di lingua, cesurarli per ferite e lacune, storcere e dilatare lessico e forme verbali, come modo, incerto ma inesausto, di interrogazione. L’anamorfica lente, prisma di parola scenica, silente fragorosamente, come quella delle sformanti storture in atto, è periscopio allora volto a scrutare stratigrafie di complessità, “archeologie del possibile” lui direbbe: pencolante com’è, il suo dire, su una disciplina dell’incompiutezza quale modo, pur paradossale, del compimento. «Ora lo sappiamo: i corpi negati e i corpi estinti andranno restituiti al mondo che viene».

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