di Diego Bertelli

 

Bernardo Pacini ha da poco pubblicato un nuovo libro di poesie, uscito per Mar dei Sargassi nella collana diretta da Giuseppe Nibali e intitolato Ipotesi sul mio disfacimento. Si tratta di un buon titolo per un poeta di quasi quaranta anni, in grado di suscitare spontanea empatia, specie perché i quarant’anni sono l’età in cui si comincia a morire “con tutta semplicità”. Metto tra virgolette un’espressione che è, anzitutto, il titolo di una poesia di Giovanni Giudici sul tempo e sulla morte, contenuta ne La vita in versi, volume uscito nel 1965, quando il poeta ha giusto poco più di quarant’anni. Ipotesi sul mio disfacimento nasce in una situazione biograficamente analoga: Pacini è sulla soglia di quell’età nella quale, facendo ricorso ai versi della poesia di Giudici, «il tempo in cui morire. / […] non è più un pensiero strano».

 

Il tema sotteso, bonariamente ammansito e dileggiato dalla toscanità dell’autore, è quello della malattia/morte (Ipotesi sul mio disfacimento comincia così: «Perdoni, lospedale?, mi chiede dal Bmw/ io non sento una sega, non leggo il labiale»). La poesia apre L’attrito di A con B, prima sezione del libro che utilizza come epigrafe i due versi iniziali di un testo tra i più noti di Giudici, intitolato La Bovary c’est moi. Basterebbe il legame tra disfacimento, morte ed Emma per supporre che Pacini, come Giudici, abbia sentito prossima o, meglio, si sia sentito prossimo a quella tragica figura annoiata dalla vita e corrotta dai sogni di bellezza della letteratura e dell’amore.

 

Al contrario, la citazione di Pacini costringe a negare una così diretta associazione e a recuperare un brano che resta la sintesi migliore per indicare l’essenza di un rapporto mai accessorio tra autobiografia e scrittura: «Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia». Si tratta della prima parte del succinto disclaimer che Giuseppe Berto premette a Il male oscuro, gioiello letterario particolarmente attento al ritmo e alla lingua. Dico questo perché in Pacini l’attenzione per ritmo e lingua è stata, dal suo esordio a oggi, costante e soprattutto perché il ribaltamento di prospettiva di Berto aiuta a circoscrivere meglio l’io poetico e l’aggettivo possessivo del titolo.

 

C’è un “male oscuro”, una malattia che attraversa anche Ipotesi sul mio disfacimento: è qualcosa di legato al dominio del trauma, che afferisce, come in Berto, inevitabilmente alla dimensione archetipica del paterno. In Pacini ricorrono (e nel profondo s’intrecciano) sia il babbo biologico sia il Dio cristiano, entrambi obiettivi della provocazione lanciata dall’autore. In una prosa si legge di un bimbo quattrenne che fissa la scritta «BABBO CREPA», vergata forse dal piccolino (incapace però, ricorda il padre, di scrivere), colto nell’atto di indicare dal letto una piccola radio e una penna, nella mente costernata della madre evento inspiegabile e perciò frutto di una possessione («La madre sospetta con terrore che una voce sia sgorgata dalle casse, che il figlio sia invasato»); nella parentetica del quinto testo dell’ultima sezione del libro, intitolata Il pianeta inesplorato della gioia, la pronuncia dello speaker in the poem è perentoria: «Che siamo come Dio lo sapevamo, ora vediamo se è vero anche il contrario». Il componimento, introdotto dal verso finale della quinta lassa della Bovary di Giudici — in cui l’arrivo di chi è desiderato, evocato e ancora non c’è si fa «lieto annuncio di morte» —, insiste sul medesimo rapporto tra attesa e rivelazione/distruzione o sarebbe giusto dire qui disfacimento, come in una preghiera rovesciata (il cui sviluppo qui rimanda inevitabilmente al Padre nostro): «Dio che chiudi e rispalanchi gli ascensori, il pulsante/ è danneggiato, sei presente e sei occupato al tempo stesso./ Da mesi naufraghiamo nel profondo, confidenti nel plutonio/ decaduto: se ci chiedi un sacrificio sii preciso, dicci il piano/ per salire dritti al monte, non sorridere olocaustico./ L’ascensore benedica quel momento in cui Dio ci/ spalanca al suo congegno».

 

Pacini è in realtà molto attento a non associare sé stesso a colui che dice io, anche quando l’associazione è scoperta e inevitabile: «Ho un quaderno su cui scrivo se mi accade di squamarmi./ Si può dire che è un quaderno in vera pelle./ I singoli brandelli danno forma al volumetto: più mi sgretolo/ più spazio avrò per scriverne, almeno fino a quando/ non si estingue la specie singolare a cui appartengo solo io». La necessità di distinguere chi scrive da chi agisce è necessaria alla determinazione di un epos costituito o si direbbe forse “provocato” dall’attrito tra l’immaginario ludico infantile degli anni Ottanta-Novanta (il Sapientino, i cartoni animati di Yoghi e Bubu) e quello ultracontemporaneo della virtualità, con le pratiche del phishing e del ghosting (che si fanno altrettanti titoli di sezione). Ogni esperienza di vita diviene materiale letterario fondativo, maneggiato dall’autore attraverso l’alternanza tra forestierismi e tradizione illustre della lingua, ricerca della verità e understatement, registro sublime e comico (basti pensare all’operazione fatta sui pokemon ne La drammatica evoluzione). Pacini adopera così la propria eredità culturale (dantesca e boccacciana): in senso stilistico e ambientale, convogliando un naturale plurilinguismo in geografie che si allargano come cerchi d’acqua da quella ombelicale fiorentina, punto di emanazione di ogni descrizione del mondo (particolarmente significativo, in tal senso, il suo Decamerone americano): si confronti, nella sempre riaffermata continuità di questa prospettiva, il realismo de Il quadricottero I, in Fly mode («Sono giorni che cabro con sempre più naturalezza/ planando radente alle mensole e alle funi elettriche / del treno tra Zambra e Il Neto, enfatizzando i guizzi/ del moto rotatorio / fibrilla la mia mente/ nel sentire sul telaio il delirio del vento di Firenze») con la metafisicità di questo altro testo, in Ipotesi sul mio disfacimento: «Cammino per ore nel freezer no frost del mattino/ tra pezzi di carne indistinta e bottiglie d’amaro/ la strada si apre a ogni passo e mi chiama/ con nomi inventati, il telefono è a casa/ si carica piano sul pouf, sta lì che mi aspetta».

 

Pacini è un autore che ama il movimento e gli spazi urbani e suburbani, così come ama le parole quando le innesta nei propri versi come si fa con due piante diverse per ottenere un nuovo frutto. Credo che questa vitalissima propensione cinetica e verbale, “passata” al vaglio delle posizioni di Zachary Schomburg, sia la scaturigine di una poesia indubitabilmente animata dal tentativo di superare le possibilità consegnate al ventaglio espressivo di una lingua: «Incontro così spesso giovani poeti che hanno posto un limite alla loro gamma di movimento, alla gamma di ciò che è possibile nella loro poesia, privi della volontà di darle uno scossone e di farla uscire fuori per trovare bellezza, per, trovare qualcosa che spaventa. Sono privi della volontà di scoprire qualcosa che già non conoscono o sentono. Non sono disposti a farlo nello stesso modo in cui tutti noi non siamo disposti a considerare le nostre inevitabili decomposizioni» [nel libro il testo è in inglese].

 

L’esorcismo alla decomposizione sta allora nella ricerca poetica, secondo una tendenza oramai divenuta cifra stilistica, attesa e accolta con piacere da chi legge. Curioso di suoni, forme e significati, Pacini fa cadere al momento giusto parole inattese. Ricordo qui «anatide», «focomelico», «albugineo» o, in Perfavore rimanete nell’ombra [dove si noti anche la scelta di univerbare l’espressione “per favore”], di «anecoico». Gli innesti funzionano anche sul piano intertestuale, quando la ripresa di un sintagma o di un verso noto della tradizione letteraria e non solo letteraria incontra parole solitamente appartenenti all’ambito specifico di qualche disciplina o a nuovi nomina (efficace è l’esempio del «drone alto levato» di Fly mode).

Nel corso degli anni Pacini è stato coerente con sé stesso ogni volta che ha scritto (e tradotto) e Ipotesi sul mio disfacimento è un punto d’arrivo saldo come una pietra miliare, che fornisce le coordinate della sua poesia e insieme della sua poetica; è quel «personalissimo Cantabrico» nato nella propria cucina e nel quale c’è tutto: bene e male, fiamma e zavorra che consentono il volo, sostanza e scarto, caso e consapevolezza. È in mezzo a tutto questo che può accadere l’evento epifanico capace di ravvivare la vita (e la poesia) quando meno te lo aspetti: «Può succedere / che un giorno, nel momento esatto in cui / riconosci il retrogusto dell’acciuga / nella salsa verde che ti sei preparato, / tu ti scopra all’improvviso felice». Leggendo Ipotesi sul mio disfacimento quello che si sente per tutto il corso del libro è esattamente questa sincera felicità.

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