di Maurizio Ascari
Libro digressivo, dilagante, complesso, ma anche rigoroso, stilisticamente ritmato e nitido, E i lupi scesero in città… si apre come una sfida per il lettore. Così ho vissuto le prime pagine del memoir filosofico che Barnaba Maj ci ha di recente regalato. Ben presto però è arrivata la resa: la mia ovviamente! Non una vera resa perché in tal caso avrei semplicemente chiuso il libro. Semmai la resa al metodo con cui l’autore compie un’operazione euristica ambiziosa – di un’ambizione onesta, intellettuale e civica, intima e profondamente umana.
Questo libro così mobile, eppure così radicalmente strutturato, sfugge alla semplificazione ma invita al pensiero: si apre pagina dopo pagina a reti di senso che lo rendono pluridimensionale, plurivalente. È un libro ricco di stimoli intellettuali e che più si legge più commuove. Perché l’autore conosce l’arte di articolare il pensiero e quella di narrare, nell’immediatezza del vissuto e oltre. Il risultato è una storia di vita – un insieme di storie di vita – in cui l’aneddoto e l’intramazione dei ricordi si aprono a una più ampia riflessione. Storica e non solo.
Da dove partire? Forse dall’identità di Barnaba Maj, che è stato docente di Filosofia della storia e Teorie della conoscenza storica, e che tanti saggi ha scritto. Ne cito solo due: Heimat. La cultura tedesca contemporanea (2001) e Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno (2003).
Ben presto queste memorie – dove il protagonista è sì l’individuo, ma il cui portato si allarga a comprendere un’intera società (quella italiana tra fascismo e dopoguerra) – rimandano ai film del regista tedesco Edgar Reitz, che con la saga di Heimat (1979-2013) ha restituito un secolo di storia tedesca. Analogo e al contempo diverso è il progetto di Maj, che alla parola Heimat (il luogo natale, quello del nostos) preferisce Fernweh: il complesso di cui – malgrado le apparenze – soffre in ultimo Odisseo, poiché la sua nostalgia è in realtà “un desiderio senza fine non di ritornare ma di conoscere terre nuove, lontane e sconosciute.” (35)
Invece di un luogo natale, di un’origine, Maj pone al centro del suo racconto un luogo d’esilio. O almeno così lo vive quando all’età di nove anni la sua famiglia si traferisce dal centro di Ferrara a Contrada Cese, nella periferia di Campobasso, dove Barnaba trascorrerà i nove anni dell’adolescenza. Questa parentesi molisana potrebbe parere un incidente di percorso, ma assume un significato ben più profondo nel libro, dove l’autore scrive: “Queste Terre tornano perché mi mancano e mi mancano perché le ho mancate.” (40) E i lupi scesero in città… è quindi cronaca di un incontro mancato, ma anche occasione (felice) di lavorare sugli interstizi, “per annodare così i differenti flussi del tempo che hanno agito e agiscono nella mia vita.” (36)
Con sempre maggior chiarezza, il libro assume il carattere di una riflessione storico-filosofica – eppure intima e umanissima – sul tempo. Anzi, sui tempi, poiché Maj ne elenca quattro:
La generazione è il tempo intermedio fra psiche individuale e storia.
L’epoca è il tempo dell’aria che respiriamo intorno a noi, ovvero la storia che scava sotterraneamente e invisibilmente, senza che nessuno sappia come.
Il vissuto è il tempo interiore, che si sedimenta nell’esperienza del vivere in quanto tale e degli eventi che superiamo.
La narrazione è il tempo della continuità, ovvero del tentativo di dare un ordine all’intreccio dell’esperienza attraverso il racconto. (67)
Il libro esplora queste dimensioni sempre unendo consapevolezza filosofica e gusto aneddotico, strappando frequenti risate attraverso l’ironia, il dettaglio gustoso, il lessico famigliare. Esemplari sono le pagine dedicate alle zie paterne: le Tre Streghe alla Macbeth – “alte come trampolieri, sgraziate e di straordinaria bruttezza” (49) – e la zia Cenerentola… In questo mondo di livori e gelosie, basta una partita a carte per giungere a un regolamento di conti potenzialmente delittuoso tra due streghe streganiche in gara nel prevaricarsi. Figure inquietanti delle vacanze estive trascorse dalla famiglia Maj nel gotico BorgoRebocco (le adiacenze meno felici di Spezia), in una dimora che evoca il dickensiano setting di Casa desolata, le zie offrono sì un controcanto grottesco all’infanzia dell’autore, ma rientrano anche in una più radicale indagine sociologica, politica, storica e antropologica.
La vicenda della famiglia Maj s’intreccia agevolmente con il mito perché l’“italo Padre” (6) dell’autore è nato nientemeno che il 28 ottobre 1905 – data che anticipa una ben nota marcia dell’anno ’22 – e attraverso la figura del Pater il libro approda alla mentalità che ha presieduto l’avvento del fascismo, nonché ai silenzi che l’hanno seguito. Parlando del clan familiare, Maj scrive: “Quel loro passato così estraneo mi interessava però nel profondo proprio nel suo intreccio con la storia, il lato decisamente tenuto all’oscuro.” (68) Il giovane Barnaba intuisce ben presto l’esistenza di un passato che non emerge apertamente ma per sintomi: gesti mancati, atteggiamenti sottesi, cenni subito interrotti.
Da questi indizi il filosofo muove per rapportare la reticenza del maschio genitore al suo vitalismo – sfidare la morte (che sia nel sorpasso, nel tuffo o in altre imprese) per riaffermare l’intensità della vita, con un gioco che paradossalmente svuota la vita di senso. Il percorso di Maj va oltre, poiché riconosce nella figura paterna l’indice di un più ampio fenomeno: “Silenzio, reticenze, omissioni erano sintomo di una patologia non solo personale ma molto più generale e profonda, legata alla falsa immagine di sé e alle verità nascoste con cui è nata e cresciuta la nazione.” (98) Cominciamo a comprendere come sta lavorando Maj, secondo cui questo silenzio ha impedito “di risalire agli strati profondi della psiche e della coscienza storica.” (98) Esorbitando rispetto all’ambito familiare, il libro analizza dunque il fascismo come “distorsione dei codici dell’inconscio” (50), fino a produrre riflessioni di complessa, profonda eloquenza:
Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo ha bisogno d’una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perché dovendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade. (93)
Non si può rendere nello spazio di una recensione la costellazione di senso di un testo che con disinvoltura colta fa appello a Proust per definire “l’indifferenza come vera radice della crudeltà” (107), e viceversa rintraccia in una poesia di Robert Burns il seme della cura per l’altro (150): il riconoscimento di una creaturalità nuda, scevra di misticismi ideologici e nel cui rispetto incontriamo il tutto.
Non si può rendere in poche parole l’incanto di un libro che con felice libertà immaginativa oscilla tra realismo e fantastico, e dedica il suo ultimo capitolo (il quarantanovesimo, con un omaggio a Hemingway) alla neve. Capitolo bellissimo, dove la coltre che ricopre Contrada Cese si fa dapprima cinema e letteratura (grandi guide di Barnaba nel suo percorso di crescita) – attraverso un richiamo a The Dead di James Joyce, nella versione cinematografica di John Houston – fino ad assumere un portato mitico. Il manto nevoso, il cui biancore indistinto è somma di infiniti singoli fiocchi, diventa infatti figura della “Grande Memoria, in cui si iscrivono le infinite memorie individuali.” (262) E quando leggiamo che questa Grande Memoria “è anche il regno dei morti che turbina nella neve” (264) sappiamo che questo capitolo è in ultimo un omaggio a Michel de Certeau, pensatore amatissimo da Maj e che nell’aprire La scrittura della storia (1975) scrive: “L’altro è il fantasma della storiografia. È l’oggetto che essa cerca, che onora e che sotterra.”[1]
E i lupi scesero in città… è un paradosso: un fiume di parole che ci separa dai morti, come l’Acheronte, ma che è denso di vita. Forse per questo suo carattere imprendibile suscita il pathos, com-muove, e insieme alle emozioni muove i pensieri, senza offrirci facili risposte, ma invitandoci ad abbracciare la complessità. E a ricordare infine che tutti i morti sono coperti dal bianco manto della neve in cui si addensano le nostre memorie.
Note
[1] Michel de Certeau, L’écriture de l’histoire, Paris, Gallimard, 1975, p. 8, traduzione mia.