di Marina Polacco
Consigli di classe. Scuola, democrazia e società,
rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Premessa
Le ragioni a favore e contro la riforma Valditara che istituisce la nuova filiera tecnologico-professionale nota come 4+2 sono state ampiamente dibattute, sia su questa rubrica, sia altrove[1], e non credo che ci sia molto di nuovo da aggiungere nel merito, rispetto a quanto già detto e ribadito. Tuttavia, penso che sia comunque indispensabile continuare a discutere e a interrogarsi sul processo in corso, in primo luogo per tenere desta l’attenzione di coloro che ne sono coinvolti ed evitare che tutto scorra avanti per automatismo (e sfinimento da parte di chi prova a portare avanti una visione diversa e contraria) e a un certo punto si oggettivi in strutture, leggi, regolamenti, divenendo quindi un dato di fatto: qualcosa che esiste e che, ci piaccia o no, appare da un certo punto in poi razionale e indiscutibile proprio perché ormai reale. Continuare a discuterne (con la speranza che la discussione riesca ad attivare tutti gli strumenti di lotta concreta in nostro possesso, e che non rimanga solo esercizio gratuito e fine a stesso) è forse uno dei modi possibili per cercare di impedire che ciò avvenga. Per questo, nonostante tutto, ritorniamo a parlare della riforma, riprendendo il discorso esattamente là dove ci eravamo lasciati.
Orientare e disorientare
Il primo tentativo di introduzione ancora sperimentale dei nuovi percorsi per l’anno scolastico attualmente in corso (2024-2025) è risultato un fiasco clamoroso: appena 225 percorsi attivati e circa 1700 iscritti al primo anno, in tutta Italia. Ma si trattava comunque di un esordio molto frettoloso, accompagnato da una mobilitazione promozionale inadeguata e tardiva: poche settimane di tempo per attivare le scuole e far sì che venissero presentate la richiesta di accreditamento, altrettanto poche per promuovere le domande di iscrizione da parte delle famiglie. Ciò nonostante, la proposta di sperimentazione è diventata legge e i nuovi percorsi sono stati inseriti ufficialmente nell’offerta formativa per l’anno scolastico 2025-2026. A questo punto, si è resa indispensabile una duplice campagna di procacciamento adesioni: una nei confronti delle scuole, che dovevano ratificare attraverso i propri collegi docenti la volontà o meno di aderire alla nuova filiera, l’altra nei confronti delle famiglie, chiamate a scegliere questi percorsi (ove attivati) al momento di iscrivere i loro figli al primo anno di scuola secondaria superiore.
La prima campagna si è svolta senza esclusioni di colpi, principalmente sul piano delle azioni concrete e non su quello del dibattito teorico: più che tentare di convincere professori e collegi riottosi con la forza e l’evidenza delle argomentazioni, si è trattato di individuare le leve più adatte per allargare surrettiziamente la base di consenso. In alcuni casi le scuole, per quanto avessero già deliberato sull’argomento, respingendo al primo giro la proposta di aderire alla riforma, non solo per l’anno in corso ma anche per il successivo, sono state invitate a convocare nuovamente i loro collegi docenti, spesso con la malcelata speranza di modificarne l’orientamento, anche perché sono arrivate pressioni per far sì che questo avvenisse – e i termini di scadenza per presentare le domande di adesione sono stati a bella posta e pretestuosamente rinviati. Molti collegi si sono così svolti con convocazione straordinaria, a ridosso delle festività natalizie (quando tutti sono decisamente più inclini a interessarsi a panettoni e menù di Capodanno, più che alle sorti della scuola), spesso in modalità frettolosa e con argomentazioni non sempre molto raffinate a favore dell’adesione (“è solo una sperimentazione, provare non costa nulla, se non ci soddisfa torniamo indietro”; “che male può fare? Riguarda solo una classe prima, le altre rimarrebbero così come sono”; “Se noi non lo facciamo e gli altri lo fanno, saremo sicuramente svantaggiati e le famiglie sceglieranno la concorrenza che li propone”; “tanto l’organico non viene toccato, non ci si perde nulla”). Per finire con l’esplicita promessa di poter accedere a fondi straordinari già stanziati per finanziare la filiera in oggetto (10 milioni di euro per il 2024 e 5 milioni per ciascuno dei due anni successivi).
Sull’altro versante, si svolge la campagna di promozione dei percorsi 4+2, alla ricerca di nuove iscrizioni per l’anno scolastico 2025-2026. Maurizio Chiappa, nominato nell’ottobre 2024 Direttore generale per l’Istruzione Tecnica e Professionale, rilascia numerose interviste (per esempio su “Orizzonte Scuola”, il 7 gennaio) in cui ribadisce i vantaggi della filiera sperimentale (maggiore integrazione tra scuole e tessuto produttivo del territorio, partecipazione delle imprese ai percorsi formativi, e così via), sottolineando che non si tratta del solito ciclo quadriennale, bensì di una proposta ben più ambiziosa, pensata su un arco complessivo di sei anni (con integrazione di quattro anni scolastici e due di ITS) “poiché al quarto anno si prende il diploma e c’è certamente la possibilità di fermarsi, ma si può continuare il percorso di studio in modo naturale e completarlo e da lì nasce il concetto di filiera”. Argomentazioni analoghe vengono riprese da alcune delle principali testate di informazione scolastica: in prima linea troviamo per esempio “Tutto Scuola”, che presenta i nuovi percorsi come una “delle più ambiziose riforme dell’istruzione nel corso degli ultimi anni, “un’autostrada verso un lavoro qualificato che può gonfiare le vele all’economia” (gennaio 2025), e nei due mesi cruciali di gennaio e febbraio dedica una serie di interventi all’argomento.
In questi interventi vengono ribadite le consuete motivazioni a favore del modello 4+2, con esplicito invito a scegliere quest’ultimo invece dei percorsi tradizionali (“insomma attenti a giocare coi numeri, perché è sempre una questione di prospettiva: per chi punta sulla tecnologia e sulla specializzazione tecnica, non si tratta di una scelta al ribasso (4 anni invece di 5), ma si intraprende un percorso perfettamente integrato” che permette di arrivare due o più anni prima a un lavoro qualificato, senza rischiare la dispersione o di rimanere a braccia conserte con un titolo inutile. Ai giovani e alle famiglie la scelta tra un percorso quinquennale che probabilmente non porteranno a termine (così come non si iscriveranno all’università) e il 4+2, con il quale invece “è assai probabile che i ragazzi si inseriscano nel mondo del lavoro prima, all’età di 20-21 anni, anche perché il loro percorso formativo, essendo cogestito dalle scuole in stretta collaborazione con le aziende del territorio, darà loro molte più opportunità di acquisire competenze pre-lavorative attraverso esperienze pratiche di tirocinio, stage, apprendistato”. Senza contare la necessità crescente di figure professionali di livello medio o medio-basso, sempre più rare sul mercato e sempre più richieste (idraulici, elettricisti, muratori, fabbri, artigiani), e che questi percorsi dovrebbero contribuire a formare. Del resto, la redazione non fa mistero di essere risolutamente a favore della riforma Valditara, anzi lamenta di essere rimasta quasi sola a sponsorizzarla e promuoverla apertamente (a parte “l’ammirevole impegno personale di alcuni uffici preposti e alcune iniziative di qualche USR”), mentre sarebbe stato opportuno ingaggiare qualche “testimonial in grado di catturare l’attenzione di molti giovani” e di “arrivare agli studenti e alle loro famiglie, per evitare il rischio che una riforma così strategica – corsivo mio – e di vero respiro europeo rimanga tale solo agi occhi degli addetti ai lavori” (ma quali, ci si potrebbe chiedere)[2].
Eppure, non è proprio vero che nessuno si muove: il 3 febbraio, con un atto decisamente inconsueto, il Capo Dipartimento del Ministero, Carla Palumbo, non si perita di inviare a tutti i genitori una lettera che invita a considerare con particolare attenzione la possibilità di iscrivere i propri figli ai nuovi percorsi, allegando un vero e proprio flyer pubblicitario. All’insegna di tre punti chiave (più efficacia nello sviluppo di competenze spendibili, più connessione col mondo produttivo, più internazionalizzazione) i nuovi percorsi “che guardano al futuro” vengono così sponsorizzati dal Ministero stesso nel volantino che mette ben in evidenza sia la possibilità di conseguire il diploma in quattro anni sia la centratura sulle esigenze lavorative (parole d’ordine ricorrenti: impresa/azienda): lezioni e attività laboratoriali gestite assieme alle imprese, così che l’offerta didattica sia in linea con le esigenze delle aziende del territorio; lezioni tenute da docenti provenienti dalle imprese locali; esperienze di stage e altre attività in azienda. Sulla rimodulazione dell’orario in maniera che vengano comunque garantite le materie di area generale, o più in generale sulla salvaguardia di una formazione culturale extra-lavorativa ovviamente nel volantino ministeriale non c’è alcuna traccia.
Giocare coi numeri
All’indomani del 10 febbraio 2025, una volta chiuse ufficialmente le procedure online di iscrizione all’anno scolastico 2025-2026, i numeri ottenuti dai nuovi percorsi vengono comunicati con roboanti dichiarazioni di trionfo da parte del ministro e del suo entourage, sommandosi a quelli già noti sulle adesioni delle scuole. Valditara parla in generale di un “successo straordinario” che va al di là delle più rosee previsioni: secondo le fonti ministeriali i 628 percorsi complessivamente autorizzati costituiscono un aumento del 210% rispetto all’anno precedente (con un calcolo della percentuale alquanto dubbio, ma poco importa), mentre le scuole autorizzate risultano essere cresciute del 120%, passando da 180 a 396; infine, si contano complessivamente 5449 nuovi iscritti, che sommandosi ai 1669 precedenti portano a circa 7000 gli studenti coinvolti – con la previsione che tra passaggi e altro si possa arrivare a 8.000 per l’inizio del nuovo anno (anche se un dato molto interessante sarebbe quello relativo alla formazione delle seconde classi derivanti dalle prime dello scorso anno…). Un risultato straordinario (Nota del Miur dell’11 febbraio 2025) che, sempre secondo il ministro, “conferma la crescita costante di questo sistema innovativo”, il “grande apprezzamento dimostrato sia dalle scuole sia dalle famiglie”, e “la fiducia del mondo scolastico in questo nuovo modello formativo”. Tutto insomma dimostra che la riforma sta prendendo piede, rispondendo in maniera efficace alle “esigenze di un mondo del lavoro in continua evoluzione” (affermazione di per sé abbastanza azzardata, se si considera che il mondo del lavoro non ha potuto ancora avere alcuna interazione significativa con i nuovi percorsi appena gli inizi: se rispondano o meno, almeno questo, si saprà tra qualche anno).
Anche secondo la sottosegretaria Paola Frassinetti i 5.449 iscritti al primo anno della filiera rappresentano un bel risultato: “Ormai – commenta la sottosegretaria – questa riforma che riguarda gli istituti professionali e tecnici è una realtà che si sta consolidando nel nostro sistema scolastico, evidentemente anche le famiglie hanno capito che sono percorsi in grado di qualificare il titolo di studio, agevolando l’ingresso nel mondo del lavoro”. Analogo giudizio viene espresso da Valentina Aprea di Forza Italia: “Le famiglie e gli studenti hanno promosso a pieni voti le filiere sperimentali tecnologico-professionali […] Ora bisogna valorizzare al massimo questa fiducia che le famiglie e gli studenti hanno manifestato con queste scelte lavorando sulla qualità e il tasso di innovazione dei percorsi, ma soprattutto facendo in modo che le filiere possano diventare in breve tempo ordinamentali”[3]. Il che significa, in altri termini, adeguare tutto l’assetto scolastico del ramo tecnico-professionale al 4+2.
Ma il trionfo dichiarato regge poco alla prova dei fatti e per quanto il ministero provi a giocare abilmente coi numeri, basta passare dai valori relativi quelli assoluti per avere una idea delle proporzioni effettive dei risultati. L’aumento considerevole delle percentuali segnalate è infatti direttamente proporzionale alla esiguità di partenza delle adesioni ottenute: su 6215 istituti tecnici e professionali presenti in Italia (dati del 2024) 396 scuole rappresentano appena il 6,4 per cento (scarso) dei soggetti potenzialmente interessati, così come 5449 iscritti rispetto agli iscritti complessivi nella prima classe della secondaria di secondo grado (circa 270.000 per questo ordine di scuole) rappresentano a mala pena il 2% (inoltre la cifra totale comprende anche molte scuole paritarie, in genere già strutturate per garantire abbreviazioni del percorso in tre/quattro anni e quindi già predisposte a accogliere con grande favore una proposta che sposa la loro prassi).
Basta guardare il dato dall’altra metà della medaglia per avere una prospettiva completamente ribaltata: nonostante tutto il battage pubblicitario e tutte le pressioni istituzionali, il 94 % delle scuole ha rifiutato in toto la proposta ministeriale, senza considerare che nel 6% di adesioni ci sono anche tutte quelle scuole che hanno avviato i nuovi percorsi solo perché potevano essere ancora inseriti in parallelo a quelli tradizionali, e non per adesione convinta e incondizionata al nuovo verbo. Oltretutto, senza alcuno spostamento significativo delle preferenze espresse dalle famiglie dall’asse liceale a quello tecnico e professionale, che anzi rispetto all’anno precedente (2024-2025) risulta leggermente in calo (quindi nessuna adesione in più intercettata grazie alla proposta quadriennale). Tanto più che, come sottolinea la FLC CGIL in un comunicato apparso già l’11 febbraio (e ripreso anche dalla CISL in una nota a firma Reginaldo Palermo), i 5449 iscritti al primo anno, distribuiti su 628 percorsi implicano un numero medio di alunni per classi tra 8 e 9 unità, un numero risibile, ben al di sotto di quello richiesto per la formazione di una classe standard, e che quindi in teoria non potrebbe dar adito alla formazione della classe stessa, a meno di non derogare dalla norma – tanto che, se si volesse rimanere ligi alle prescrizioni presentate in genere come ostative, potrebbe darsi persino il caso di non poter formare classi prime in partenza nei nuovi percorsi.
Nel complesso siamo davanti a una palesa arrampicata sugli specchi, accompagnata da contorsioni retoriche d’ogni tipo (tutto inneggia a meravigliosi e quasi inaspettati successi, talmente grandiosi da provocare incredulità e stupore) e veri e propri artifici di giocoleria con numeri e percentuali che mirano a misconoscere i dati di fatto e a gabellare come un grande trionfo quella che invece è una palese, smaccata e indiscutibile sconfitta. Perché la realtà è questa: solo una risicata minoranza di scuole, di insegnanti e di famiglie ha dato fiducia alla filiera 4+2.
Alla prova dei fatti
L’applicazione della riforma Valditara procede così attraverso un sistematico disconoscimento dei dati di fatto e un altrettanto sistematica distorsione della realtà. La crisi profonda che stanno vivendo gli istituti tecnici e professionali (questi ultimi in particolare), in situazioni di oggettiva e quasi disarmante difficoltà (alunni sempre meno scolarizzati; classi ingestibili dilaniate dalla rabbia e dal conflitto nei confronti dei compagni, dei professori e delle istituzioni; presenza massiccia di ragazzi stranieri che parlano poco e male l’italiano e di alunni con disabilità o con certificazione DSA, senza risorse adeguate per gestire con efficacia i percorsi individualizzati e l’inserimento di tutti; famiglie assenti o ostili; riemergere di conflitti etnici e religiosi e riaffermazioni identitarie violente e aggressive nei confronti dell’altro) viene elusa spostando il problema sulla innovazione formale e l’adozione di nuove e più aggiornate metodologie didattiche, perché i ragazzi non sono più quelli di una volta, perché i contenuti tradizionali in forme tradizionali non vanno più bene, perché abbiamo a che fare con ‘nativi digitali’ rispetto ai quali gli insegnanti si comportano con l’apertura mentale dei luddisti di fronte alle prime macchine (parole di Chiappa in persona), perché bisogna adeguare strumenti, prassi e metodologie didattiche alle esigenze dei tempi. Proprio per rispondere a queste imprescindibili richieste la formula 4+2 viene brandita come un’arma a doppio taglio: 4+2 diventa automaticamente 6 quando bisogna evidenziare la specificità e accuratezza del percorso (che non deve apparire come un impoverimento del normale iter quinquennale, bensì come un potenziamento e un miglioramento formativo, una ‘naturale filiera’ scuola superiore – ITS che possa scorrere senza soluzione di continuità), rimane 4, quando bisogna allettare famiglie e studenti con la proposta di una riduzione della pena scolastica da scontare necessariamente. Tanto più che una buona percentuale dell’utenza scolastica in questione è ad altissimo rischio di dispersione e fa fatica ad arrivare anche alla qualifica triennale, per cui l’ipotesi dei sei anni rimane di fatto percorribile solo da una sparuta minoranza (altro che decuplicare la popolazione degli ITS, cosa che dovrebbe essere una delle attese ricadute dell’adozione del nuovo modello). Sulla percentuale di prosecuzione nel biennio ITS è possibile fare dei pronostici: basta ricordarsi di andare a verificarlo, di qui a qualche annetto.
Il tutto presuppone inoltre, al di fuori del mondo scolastico, un tessuto produttivo dinamico e vivace, ricco di aziende disposte a spendersi sull’innovazione e sulla formazione lavorativa, quando la maggior parte dei lavori disponibili per i neodiplomati – soprattutto provenienti da scuole professionali – sono precari, sottopagati, stagionali, in parte o del tutto al nero, o con contratti capestro, o in sub-appalto di sub-appalti. Persino il dato evidente del maggior successo al Sud (da cui proviene il 55,7% delle adesioni, di contro al risicato 11,9% del Centro e al 32% del Nord), invece di essere letto per quello che è – la controprova che l’adesione non ha nulla a che vedere con la vitalità del mondo imprenditoriale locale – diventa l’occasione per millantare una ipotetica rinascita economica del mezzogiorno. E mentre l’INPS mette in guardia sul pensionamento di milioni di lavoratori e sulla conseguente liberazione di una gran quantità di posti di lavoro che rischiano di rimanere scoperti per mancanza di adeguata formazione tecnologica, le ipotesi sull’impatto dell’IA sul mondo lavorativo parlano di milioni di posti di lavoro cancellati, mettendo a rischio principalmente proprio quella fascia di ‘capotecnici’ o ‘tecnologi’ che la nuova filiera vorrebbe formare. A ragion veduta Massimiliano Baldacci, commentando l’andamento della riforma Valditara, oltre a ribadire un principio che dovrebbe essere scontato ma che appare del tutto scomparso dall’orizzonte, ossia che “la priorità di un Paese democratico deve essere quella di preparare le nuove generazioni in sintonia con i valori della democrazia, rendendole cittadini consapevoli e partecipi”, ammonisce a non considerare in maniera meccanica il legame tra scuola e mondo del lavoro, come se la scuola dovesse formare un lavoratore “chiavi in mano” per le imprese, dotato di tutte le competenze necessarie per inserirsi immediatamente nel mercato del lavoro:
Non è realistico pensare che la scuola possa formare direttamente lavoratori “pronti all’uso”: ci sarà sempre un divario tra la formazione scolastica e le esigenze delle imprese, uno scarto che va colmato attraverso strumenti di formazione aggiuntivi. Inoltre, l’attuale evoluzione dell’organizzazione del lavoro è caratterizzata da un rapido progresso tecnologico, accompagnato da una veloce obsolescenza delle tecnologie produttive. Formare un lavoratore con competenze tecniche specifiche e definite significa creare un professionista che rischia di diventare velocemente superato, poiché il suo bagaglio di competenze diventa rapidamente obsoleto e inutilizzabile. […] Il vero obiettivo dovrebbe essere formare un lavoratore capace di apprendere in modo continuo. In altre parole, la scuola non deve preparare per un ruolo specifico, ma deve formare una persona capace di aggiornarsi costantemente.[4]
La conclusione è scontata. L’unica cosa che veramente conta è riuscire a “privilegiare la flessibilità cognitiva e la capacità di imparare, disimparare e riapprendere competenze e atteggiamenti mentali durante tutta la carriera lavorativa”. Ma la capacità di imparare ad apprendere è direttamente proporzionale al numero di anni scolastici, sottolinea ancora Baldacci: solo prolungare il tempo scuola, anziché diminuirlo, permetterebbe di sviluppare questa esigenza di flessibilità cognitiva – purché si tratti di tempo scuola vero, e non di attività che sono scolastiche solo di facciata. Un progetto improponibile, molto semplicemente perché costa: prolungare un tempo scuola di qualità, in primo luogo riducendo drasticamente il numero di alunni per classe, implica un impegno economico insostenibile – tanto più nell’attuale specifica congiuntura, quando tutt’altri sono gli obiettivi indicati come prioritari per la spesa pubblica europea.
Le tre versioni di Valditara
Il vero nodo di tutta la questione è dunque questo: perché ostinarsi ad andare avanti nella medesima direzione contro ogni evidenza e controprova fattuale? Di fronte alla bocciatura palese da parte di tutte le parti in causa – dall’interno della scuola (professori, dirigenti, organi rappresentativi), dalle famiglie (che non li hanno scelti), da buona parte del mondo della ricerca pedagogica, dai sindacati maggioritari in ambito scolastico, persino dal Consiglio superiore della pubblica istruzione (che ha invano espresso il suo parere negativo sulla riforma Valditara), perché insistere a contrabbandare come una vittoria quella che è una palese sconfitta, mistificando in maniera così spudorata i dati reali, del resto facilmente accessibili a tutti? In un’ottica realmente dialogica e partecipativa ci sarebbe quanto basta per fare marcia indietro o quanto meno avviare una fase di ripensamento critico della scelta avviata. Se da parte della stragrande maggioranza di coloro che vivono la scuola in prima persona e sulla propria pelle arriva un no così secco e convinto, qualcosa che non funziona forse ci sarà. Invece, niente di tutto ciò: è questo il dubbio cruciale, il punto di partenza e di arrivo di questa riflessione.
In uno dei suoi racconti apocrifi (Tre versioni di Giuda, 1944, raccolto in Finzioni) Jorge Louis Borges presenta la tormentata eresia di un presunto teologo primo-novecentesco relativa alla figura di Giuda. Nils Runeberg, questo il nome dell’immaginario protagonista, giunge progressivamente a tre diverse interpretazioni di Giuda. Posto che il tradimento sul piano evenemenziale era del tutto inutile, dal momento che la predicazione di Gesù non era clandestina ma avveniva alla luce del sole ed era conosciuta da tutti, cosicché tutti sapevano dove sarebbe stato possibile rintracciare il profeta senza bisogno di delatori, l’unica spiegazione accettabile è su un piano metafisico: per ottemperare in pieno al disegno divino era necessario che un uomo ‘si sacrificasse’ per bilanciare il sacrificio di Dio fattosi uomo. Insoddisfatto però di questa prima ipotesi, Nils Runeberg arriva a una seconda ipotesi, più radicale: Giuda è l’apostolo che più ha amato Gesù e ha voluto sacrificargli quanto di più prezioso potesse avere, cioè l’anima immortale, scegliendo volutamente il male e di conseguenza le pene eterne dell’inferno. Ma, ancora non persuaso, arriva alla terza ipotesi, la più scandalosa di tutte: Dio, per farsi totalmente uomo, ha deciso di esserlo fino in fondo, esplorando gli abissi più reconditi del male; ha scelto così di essere Giuda. Sulla suggestione dell’invenzione borgesiana, proviamo a ipotizzare tre versioni del nostro Valditara.
La prima ipotesi è che Valditara e seguaci siano veramente convinti della bontà oggettiva della riforma: che essa risponda alle esigenze del mondo del lavoro, alle richieste delle famiglie, alla necessità di restare al passo coi tempi; che bisogna davvero indirizzare ciascuno a riconoscere e coltivare i propri talenti, valorizzare la diversità delle propensioni individuali e la centralità del lavoro e delle abilità pratiche, di contro a un’idea troppo astratta e libresca di formazione e crescita individuale, coltivata a lungo soprattutto da certa sinistra. Come ogni vera avanguardia ideologica convinta di custodire in sé giustizia e verità, anche Valditara ha deciso di andare avanti a dispetto di tutto e tutti, perché questo a volte è l’unico modo per perseguire oggettivamente il bene collettivo. Chi non capisce e si oppone, alla fine capirà: non si può rimanere fermi, o ancora peggio rinunciare, quando è palese che si è dalla parte giusta della storia, quale che sia l’occasione e il contesto in cui ci si trova ad agire. Professori riottosi, sindacati compiacenti, famiglie sprovvedute dovranno ricredersi alla prova dei fatti, ma nel frattempo devono essere ‘costretti’ a procedere nella direzione giusta, con la certezza che dopo la faranno propria, di loro spontanea volontà.
Nella seconda ipotesi la riforma si palesa come un’abile manovra di governo per portare avanti un progetto di tagli e di ridimensionamento di un comparto pubblico estremamente dispendioso com’è quello scolastico, facendolo passare come un piano di sviluppo e modernizzazione. In questa prospettiva il riferimento ad alcune delle parole d’ordine promosse dal PNRR (transizione digitale, innovazione tecnologica, formazione permanente, contrasto alla dispersione e alla povertà educativa) diventa funzionale a un graduale e inesorabile definanziamento. Se a breve termine può anche essere vero che il passaggio al 4+2 non ha conseguenze sull’organico, come viene continuamente ribadito sia nei documenti scritti, sia da tutti i portavoce ministeriali, sia dai dirigenti che hanno ‘abbracciato’ la riforma (ma si parla di organico di diritto o organico di fatto? I posti ‘tutelati’ sono tutti o solo quelli del personale di ruolo, già stabile nella scuola, mentre verranno subito a scomparire tutti quei posti ‘ballerini’ tipici del sistema italiano? Niente di tutto questo è dato sapere con certezza), è abbastanza evidente che sul medio/lungo periodo la filiera sperimentale implica un radicale riassestamento del corpo docente, con una significativa riduzione del numero necessario di insegnanti formati e assunti a tempo indeterminato (sia nelle materie generali, sia in quelle d’indirizzo), a favore di contratti occasionali (che gravano sul bilancio statale infinitamente meno), rivolti a soggetti provenienti dal mondo aziendale, senza necessità di formazione e selezione. Quanto più si riduce il tempo scuola e si rendono strutturali le attività extrascolastiche (non a carico della scuola ma delle aziende, come viene esplicitamente dichiarato a titolo di lode), tanto più si disarticola il confine tra formazione e lavoro e si assottiglia il ruolo svolto dall’istituzione statale – e il conseguente investimento di risorse necessarie. Si realizza così una congiuntura perfetta tra spinta modernizzatrice, innovazione, digitalizzazione da una parte, e brutale smantellamento del welfare in uno dei suoi pilastri essenziali (il diritto all’istruzione e la scuola pubblica) – secondo i dettami del sistema neoliberale – dall’altra. Non è un caso, proprio in quest’ottica, che la l’idea originaria della filiera sia precedente a Valditara: rientra infatti in un più generale tentativo di incentivare la quadriennalizzazione, sempre sotto l’egida del PNRR. Fallito l’aggancio con il ramo liceale (basti pensare al flop del Made in Italy), bisogna cercare di fare breccia almeno sull’altro versante.
La terza ipotesi infine è quella banalmente classista (perfettamente complementare alla seconda, tra l’altro) e cela la volontà di tornare a dividere i percorsi scolastici, ricacciando la fascia più debole della popolazione scolastica in una sorta di rinnovato avviamento professionale e lasciando per le nuove élites l’istruzione di tipo liceale. L’importante è confezionare bene il tutto, fare in modo che appaia come un miglioramento delle condizioni generali a vantaggio della comunità intera, un progresso e non una retrocessione. Tramontato il sogno di una scuola unitaria e uguale per tutti, che possa tenere insieme la formazione dei futuri cittadini il più a lungo possibile, si torna alla divisione originaria: da una parte i Gianni, dall’altra i Pierini. Con l’aggravante che in questa versione modernizzata sono gli stessi Gianni a desiderare e pretendere la loro esclusione: convintisi finalmente che il loro talento specifico non è studiare e dedicarsi a materie a loro non congeniali e che insistere in questa direzione provoca solo frustrazione e sentimenti di inadeguatezza, i Gianni invocano per sé stessi separazione e non inclusione. Chiedono così percorsi che rispondano ai loro talenti: talenti pratici che non hanno nulla a che spartire con discipline teoriche e noiose (e che oltretutto non servono a niente per costruire il futuro lavorativo), ma che opportunamente indirizzati e coltivati possono garantire ricchezza e felicità (rigorosamente in quest’ordine). Se la frustrazione, il disagio, l’abbandono scolastico dipendono dall’ostinazione a mettere i nostri giovani e giovanissimi studenti in contenitori uguali per tutti, con la presunzione che tutti debbano poter accedere a una formazione umana e culturale condivisa, basta eliminare quei contenitori comuni per liberare alunni e professori da una costrizione ormai inutile: smettere anche solo di provarci, a insegnare letteratura, matematica, storia dell’arte a coloro che desiderano unicamente liberare la loro creatività armeggiando con tubi, pneumatici e pentole, è l’unica via percorribile per ristabilire nelle nostre scuole ordine e armonia. La riforma è la risposta perfetta per ottemperare a queste nuove esigenze, e nel farlo ribadisce le stesse catene che le generano:
Ma con queste notizie non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo. (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972).
Note
[1] Mi limito a segnalare l’intervento di Daniele Lo Vetere, La riforma dei tecnici e dei professionali e la produzione del capitale umano nella scuola dell’età neoliberale, Le parole e le cose2; nonché il mio Per una scuola classista. Il ddl Valditara e le sue mistificazioni, sempre su questa stessa rubrica, di cui il presente contributo si può considerare una prosecuzione.
[2] Articolo redazionale pubblicato il 10 febbraio 2025.
[3] Dichiarazioni riportate su “Orizzonte Scuola” l’11 febbraio 2025.
[4] Collettiva, 21 settembre 2024.