di Alessandro Pozzolo

 

Lo splendore si legge facile. Come spiega la quarta di copertina, è avvincente come un libro di Dumas. La prosa chiacchierona si avvicina ai protagonisti passando tra la terza e la prima persona, rendendoceli vivi. Eppure il compito che si pone l’autore è tutt’altro che scontato. La ricerca di fondo, o una delle ricerche di fondo, è questa: cosa succede se creiamo un distillato di tutte le storie che ci siamo raccontati come umani da quando abbiamo la capacità di raccontare?

La risposta, in soldoni, è questa: avremmo l’espressione più dettagliata di chi siamo come specie – ma sarebbe comunque un urlo nel baratro, una dimostrazione della nostra insignificanza. Questo perché solo Dio può scrivere il libro della vita, offrendoci una realtà da interpretare. Ma è proprio questo che ci salva. Perché capire il mondo in tutta la sua miseria e splendore per noi sarebbe troppo, finiremmo pazzi. Siamo quindi costretti a rimanere in un mondo “finto”, cercando accenni ad una verità più profonda. E su questo cammino ci mette in moto il desiderio, e la speranza.

 

Questa la premessa del libro di Di Mino, un’opera mastodontica (specie se si considera che è la prima di sette) che l’autore ha impiegato oltre dieci anni a completare. Il lavoro di ricerca è evidente: si lascia contaminare da innumerevoli tecniche e filoni narrativi, dalla Bibbia passando per Dante e Thomas Mann. Racconta le vicende di quattro protagonisti a spasso per il continente europeo nel diciannovesimo e ventesimo secolo, offrendo un commentario sui codici morali che usano per giustificare le loro scelte e ambizioni. Joseph lo fa con il socialismo, Hermine e Clea con la religione, Gustav con la dissoluzione. Introdurre queste grandi impalcature culturali (o l’assenza di esse, nel caso di Gustav) è sicuramente un’occasione per relativizzarle, andando a punzecchiarle nel vivo, ma anche per tracciare fili comuni. Ogni personaggio è una matriosca; offre indizi che si sommano alla visione precedente, nel districo di segni che mette in moto l’opera omnia che è Lo splendore.

 

All’inizio del libro, e alla fine, il racconto si incentra poi su Hans, che ci immaginiamo sarà il protagonista dei prossimi volumi. Hans come Gesù nasce in una baracca, nel suo caso nella periferia di Berlino, da una relazione extraconiugale della madre Rosa. Nasce quindi nel peccato, con il compito non indifferente di salvare il mondo. Ad ogni generazione, infatti, nasce un vero re che si dovrà sacrificare per l’umanità e salvarla dall’oblio. Come leggiamo nella citazione dall’Hypnerotomachia Poliphili nelle prime pagine del libro: “Ahimè, fermati Poliphino. Un fiore così secco non rinascerà.” Questo già ci dà l’idea del miracolo di trasformare la morte in vita, il male in bene, ma anche del valore escatologico del romanzo. La distruzione contiene i semi della rinascita. Allo stesso tempo, ci ricollega all’idea platonica del bello – il fiore – come manifestazione visibile del bene. Lo splendore, come quello delle stelle alle quali alzano gli occhi molti dei protagonisti, è la presenza di Dio in tutte le cose. Agli umani spetta solo il compito di vederlo.

 

Di Mino ora fa marcia indietro nel tempo, va a ripercorrere la vita di Joseph, padre adottivo di Hans. Joseph lavora in un mattatoio a Berlino, e mentre sua nonna Clea trova risposte nella fede, per lui la dottrina è il socialismo. Joseph afferma che la povertà è utile perché forza le persone a essere intelligenti. La loro sofferenza è necessaria, perché mette in moto sul cammino della bellezza. Altrimenti, il rischio è di finire come Clea: la vita umile l’ha resa diffidente verso la specie umana, e quindi si affida alla risposta facile che è Dio. Questo almeno si racconta Joseph. Come vedremo, presto il suo codice morale inizierà a fare acqua.

 

Quando scoppia la guerra con Bismark, Joseph sceglie di non andare soldato. La guerra è il demone, riflette, come il capitalismo: è la ricerca di senso nell’egemonia e nella distruzione. E come avere fiducia nella specie umana quando si comporta a questo modo? Col passare del tempo, Joseph è tormentato dal peccato originale, che vede incarnato nelle relazioni extraconiugali delle donne con cui è stato, tra cui quelle di sua moglie Martha. Proietta sulle donne il suo senso di impurezza, ricollegandoci un’idea di sperpero come avviene nella società capitalista. Ogni relazione da cui non nascono figli è uno “spreco di seme”. Ma oramai Joseph fatica a tenere fede ai suoi principi. In un momento di debolezza, va a comprare un vestito alla moglie. Il negoziante che taglia la stoffa ha le unghie rotonde come una donna. È un’incarnazione dell’azione demonica che sta compiendo, o un’ode alla bellezza femminile, splendida quanto inutile? Sai cosa, riflette Joseph, “forse Dio è grande proprio perché è inutile!” Questo ciclo di deterioramento delle logiche interpretative si ripeterà per tutti i personaggi del romanzo. Rappresenta l’incapacità degli umani di trovare una spiegazione univoca della realtà. Pare di sentire un eco del tardo pensiero pasoliniano, la frustrazione data dalla lontananza dal reale – solo che qui è resa gioco di maschere, una barzelletta.

 

Ma ora arriviamo a Hermine, la bambinaia che fa nascere Clea, la nonna di Joseph. Hermine fa la venditrice ambulante di cure e medicinali, affermando che il suo compito è “portare cose belle alle persone”. Visto dalla sua ottica, il lavoro è positivo, una dichiarazione di amore verso il mondo. Ma dobbiamo fidarci di questa interpretazione? Presto scopriamo che Hermine è consapevole di vendere illusioni, e che come leggeremo più avanti, curare e comandare sono la stessa cosa – un modo per affermare la propria egemonia sugli altri. L’”opera buona” di Hermine è mossa dagli stessi impulsi dell’andare in guerra. Anche qui, però, continua il gioco di specchi di Di Mino. Hermine consiglia ai clienti di passeggiare nei prati bagnati di rugiada, un’esperienza rivelatoria che le è rimasta impressa da piccola. È solo un altro segnale della fallibilità dei suoi rimedi, o è il tramandamento di una volta che ha davvero “visto” il mondo? Di Mino non ce lo vuole dire, perché spiegare sarebbe perdere in partenza. Preferisce osservare lo scontro tra le simbologie che ha messo in moto.

 

La giovane Clea, invece, viene educata da Hermine alla vita cristiana. Studia le vite dei santi, e dal suo punto di vista innocente impariamo che anche loro peccavano. Clea vede la Vergine Maria come icona esaustiva del messaggio cristiano – è sia l’amore verso un figlio, sia la bellezza splendida del “guardare senza toccare”. Ma è un attimo vedere quella bellezza in sé stessi, e usarla come veicolo per il piacere carnale. Clea sente la tensione tra queste due parti di sé: nel suo ruolo di madre, si sente sformata; vuole che suo marito la apprezzi esteticamente. Ma la sua è una sofferenza necessaria. L’amore per i figli è parte del filo conduttore che la porterà a Hans. E qui ci pare di vedere un barlume di senso, l’annullamento come chiave, anche se presto Di Mino rimescola le carte, offrendoci un personaggio depravato quanto essenziale.

 

Passiamo quindi a Gustav, il futuro marito di Clea, che cresce interpretando il racconto biblico di Abramo come il volere divino di rinuncia alle cose terrene da parte dell’uomo. Dio odia le cose belle, e costringe gli uomini a vivere per lui. Dio quindi è cattivo. Gustav rigetta la sua parte spirituale, perché non ci vede dentro bellezza. Si affida invece all’opposto, alla moglie di Abramo, Sara, che gli rappresenta la carnalità. Questa figura demonica è potente perché promiscua, e Gustav per averla deve domare tutti gli uomini con cui lei vorrebbe stare. Deve andare in guerra nell’illusione di poterla rendere sua. Invece di uccidere la sua parte carnale come Clea, Gustav segue Sara e tenta di imporre il proprio dominio sugli altri. Diventa il proprietario di un bordello, in una parabola ascendente opposta a quella dei Buddenbrock che associa ricchezza a degrado. Sottomette Clawdia, una delle ragazze, illudendola di amarla solo per farla prostituire per lui. In questo modo, Gustav sta replicando il meccanismo di sottomissione che Dio opera sugli umani. O così lui crede.

 

Alla base della dissoluzione di Gustav c’è un dubbio infestante che si porta dalla tenera età. Gustav è convinto di essere incapace di amare l’altro sesso, e questo lo porta a rifugiarsi nel piacere carnale. Visto che non è capace di trovare Dio nell’altro, cerca di sostituirsi a Dio, proclamando la sua egemonia come Hermine con il suo curare.

Poi Gustav incontra Gerard, che rappresenta la terza via, la possibilità di amare un altro uomo. Ma proprio lui gli spiega che l’amore omosessuale non è concesso, e non per ragioni morali. Dio e Sara, gli racconta, amore e dissoluzione, sono in realtà la stessa cosa. Il Sacro Graal, o il sangue di Cristo, è sangue mestruale di donna. Dio e Sara sono entrambi sottomessi al macchinario della necessità, e questo ha bisogno di bambini, carne nuova da macinare nei propri ingranaggi. Dio ha bisogno del suo opposto perché la vita avviene come prodotto tra desiderio e carnalità. Il matrimonio, infatti, è l’istituzione ultima che unisce lavoro e amore, capitalismo e socialismo. Da un lato c’è una critica della dottrina religiosa sulla sessualità, dall’altra una visione utilitaristica del desiderio. Entrambe, come a questo punto abbiamo imparato, sono cortine di fumo.

 

A questo punto Gustav si divide in due. Una parte vuole amare Gerard, l’altra sposare Clea con l’obiettivo di procreare. Gustav dovrà unire le due parti di sé, la carnale e la divina, e sottomettersi al volere della necessità. Ricongiungere i due opposti, come il figlio che si è fatto carne, è l’unico modo per seguire il sentiero verso lo splendore. Infatti, Gesù ci mostra la terribile bellezza delle cose attraverso la sua imperfezione, il “dente in più” di cui parla la Santa Vergine a Clea. Solo la nostra parte umana ci consente di decifrare il divino; altrimenti rimarremmo abbagliati. E forse le misteriose biglie che sfregano per le pagine, i colori bianchi, neri e dorati, riflettono questo mondo edulcorato e onirico di cui possiamo solo scorgere gli accenni. Ricordano la luce sacra di una tela di Caravaggio, il divino che si affaccia dalla quotidianità.

 

L’ultima matriosca è quella di Hans. Anche lui si divide in due. Essendo Hans una figura messianica, l’altro lui, il bambino biondo che vede in sogno, gli promette di ritornare al mondo vero invece di rimanere intrappolato in quello finto. La tentazione per Hans è quella dell’individualismo, del non amare, e ritornare a essere Dio – solo, senza l’imperfezione degli uomini. Ma farsi carne sarà l’unico modo di salvare l’umanità. Nel suo caso, questo significa diventare re, affermando la sua potenza sugli uomini, associando Hans al suo opposto, alla guerra, a Sara. Infatti, redimere il mondo significa realizzare che l’innocente è colpevole, la vittima carnefice, come reso evidente dall’immagine ricorrente tra le pagine, i “buoi bianchi che vanno al macello”. Ogni ingranaggio è necessario per portare a termine la missione, tutt’altro che scontata – “tutto sarebbe rovinato nel nulla; o, invece, sarebbe precipitato lentamente e per sempre nello splendore.”

 

L’infanzia di Hans, il primo volume di sette, traccia un filo comune tra mille storie, ma come il meglio della letteratura ci lascia sospesi. Di Mino è un prestigiatore, un burattinaio che ci abbandona nel suo labirinto offrendoci solo qualche appiglio qua e là. Perché se la sapienza e il progresso sono piaceri carnali, illusioni di potenza, la filosofia vera deve solo alimentare l’incertezza e il fascino del mondo. Siamo fatti di storie, che ci raccontano chi siamo. Ma chi siamo è solo visibile attraverso le storie, in un processo ad anello, o se vogliamo, come ce lo propone Lo splendore, di quadrati dentro quadrati. Ogni storia che non è la realtà, come mostrato dalle vicende dei protagonisti, si ricollega a un’altra ma non riesce mai a sfondare nel reale. Siamo umani, niente più, e dobbiamo rimanere nell’ombra cercando barbagli di luce.

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