di Mauro Sambi

 

 

[È uscito da qualche settimana Cura di Mauro Sambi, primo volume della Nuova serie di Ronzani Poesia diretta da Fabio Magro, Jacopo Galavotti e Giacomo Morbiato. Proponiamo alcuni testi, seguiti dal risvolto.]

 

 

Da 1. CHI NON SI RICORDA DEL BENE

 

I

 

al diciottenne

 

Penso, se guardo al tempo che ti è inflitto, un tempo che più feroce

e frantumato è arduo immaginare, a come potrei proporti

ragioni che ti inducano a far fronte allo scempio della voce,

in te, di tutto ciò che in te reclama il bene. Non sono forti,

 

l’hai colto troppo presto, le prove a suo favore in questo atroce

massacro dell’incanto – i crani sottopelle degli accorti

intendenti del profitto svelati dal fango della foce

ormai crepato per l’arsura, i loro sguardi vuoti già morti,

 

già perduti alla grazia della luce. Ma tu puoi dimorare

in ciò che non fa lucro sul disastro e lo spinge fuori quadro:

un filo di coraggio, la memoria del nostro lungomare,

 

la speranza difficile e derisa – i begli occhi del ladro

in versi germogliati sulla porta dell’inferno… Là, in fondo,

ogni inezia che sbugiarda l’inganno della fine del mondo.

 

VIII

 

L’immensa cerimonia del commiato

dalla vita… Che voglia un passo lieve,

si dice, e si vorrebbe equilibrato

il giudizio sul sentiero che deve

 

morire nel nulla – non se la beve

la bella storia, no, il cuore. È nato

ad altro, ignora bilancieri e leve

che decretano la fine, educato

 

com’è dal battito al presente eterno:

sente perenne l’alba della scorsa

primavera risonante dei colpi

 

di picchio in fondo al giardino e d’inverno,

sognata, al lume di luna, la corsa

nella neve di tre piccole volpi.

 

Da 2. PARKINSON. Ipersonettino

 

II

 

Invade a tratto a tratto,

di comparto in comparto

cognitivo, il bigatto

grasso; e trivella il quarto

 

robusto e ancora intatto

del corpo, scava l’arto

destro poi che ha disfatto

l’altro, tremante scarto

 

della sua digestione;

trafora carne e mente

eloquio ed equilibrio –

 

e inesorabilmente

il suo appetito espone

a un tacito ludibrio.

 

III

 

Mi dicono: anch’io

perdo il filo, dimentico

tutto, mi incaglio, anch’io

deraglio tra momenti

 

di buio e sfinimenti

ostili, sì, anch’io

soffro per legamenti

ossa e muscoli, anch’io…

 

Miei cari, vi comprendo:

tener fisso lo sguardo

sul male nella carne

 

di un altro senza farne

uno specchio è un traguardo

duro – molti si arrendono.

 

VII

 

«Troppo stretta la gabbia,

sembra di soffocare –

e poi! – paura e rabbia

così esibite, pare

 

che voglia esagerare

quel tanto che se n’abbia

compassione… Un affare

poco pulito, scabbia

 

simulata, da guitto

senza decoro – sa

mai che siano, questo,

 

misura e dignità?

Sonetti col pretesto

che soffre? Ma stia zitto!»

 

*

 

                                    envoi (nell’azzurro)

Se dopo ogni tua assenza

ritrovarti è la festa

di un attimo – e pazienza

se il male non arresta

 

la sua corsa, se questa

mia necessità senza

scopo di dirti resta

per sempre una cadenza

 

imperfetta – quell’attimo

è l’eterno tangente

al tempo in noi, quel niente

 

tutto il meglio che abbiamo,

il vero che ci ha attratti

nell’azzurro che amiamo.

 

 

Da 3. COSA MUOVE I SONETTI?

 

I

Formule, I

 

Comprendere il visibile attraverso

l’invisibile con un fitto via

vai tra segno e sostanza, credo sia

quanto le unisce… Così tergiverso

 

se pretendono (un sorriso perverso

sul volto, o insipiente) l’analogia

che intercorre tra chimica e poesia –

da me, dal dilettante che si è perso

 

nella nebbia a mezza via e sta seduto,

così pensano, sul vuoto tra due

seggiole. Mi chiedono spiegazioni

 

e io ne ho di pronte, ormai avveduto

di un certo tratto umano – delle sue

fin troppo facili soddisfazioni.

 

XI

Pietre

 

Erano sempre loro il mio terrore.

Aspettano giù in strada che sia a tiro

incalzano a sassate mi deridono

gridano «talijan, fašista!» al settenne

rincorso fino al cancello di casa

incoronato dal rosaio più

grande e più bello di tutta la via.

Inizia la vergogna di me stesso

nei sogni propagatasi per anni

e in veglia negli intoppi della colpa

germinata nell’ansia, mendicante

accoglienza dal forte che mi vuole

nemico. Tu capisci. Questa lingua

oggi è cura alle ferite dei sassi.

 

Da 4. sedici sonetti di shakespeare

 

27

 

Stremato dalla fatica, vado a letto presto,

per le membra stanche del viaggio un caro riposo,

ma allora un altro viaggio inizia nella mia testa,

e lavora la mente, poi che ha finito il corpo.

Allora i miei pensieri, da quel luogo distante,

come ferventi pellegrini vengono a te,

e tengono aperte le mie palpebre cascanti

a guardare le tenebre che vedono i ciechi.

Finché la vista immaginaria della mia anima

presenta la tua ombra al mio sguardo ottenebrato;

come un gioiello sospeso nella notte livida

la notte fa bella, e nuovo il suo volto invecchiato.

          Così le membra di giorno, di notte la mente,

      per causa tua, e di me stesso, non trovano quiete.

 

«Mettere in versi la vita» era il programma poetico di Giovanni Giudici, uno degli autori senz’altro più amati e frequentati da Mauro Sambi. Il quale può «trascrivere fedelmente, senza tacere / particolare alcuno l’evidenza» della propria condizione umana, e può come in questo nuovo libro, intenso e necessario, mettere in versi l’inciampo inatteso e spiazzante della malattia.

Una malattia che chiama immediatamente in causa il bisogno e la responsabilità della cura, termine che ha molte sfaccettature ma che per Sambi è soprattutto legato all’esistenza stessa della poesia, alla possibilità che la poesia ha – con le parole dell’autore – di «tentare una forma di salvezza non effimera e non fallace di tutto ciò che abbiamo perduto, di tutto ciò che ha patito l’ingiustizia della fine e della morte, [e] farlo risuonare in una piccola durata che persiste quanto il presente della nostra eternità». La poesia è una cura, in questo senso, che va al di là del soggetto stesso e si offre con generosità e naturalezza al tu, ossia a tutti noi. Naturalezza è una parola chiave per la poesia di Sambi: anche il colpo più duro può trovare una intonazione, una vibrazione musicale che si modella con leggerezza, senza sforzo alcuno, dentro lo spartito del sonetto, la forma più amata. Da qui nasce una voce poetica che sa essere intimamente personale e insieme farsi attraversare e irrorare dalle voci del «grande stile» novecentesco.

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